Lucia Goracci, fiducia e collaborazione sono fondamentali per il lavoro dell’inviato

di LUCIA GABANI

URBINO – “Per raccontare la guerra, un giornalista si affida anche alle proprie emozioni: avere paura, per esempio, non è per forza un limite, ma può aiutare a descrivere in modo più autentico quello che sta accadendo”. Così Lucia Goracci, inviata di Rai News24 racconta al Ducato la sua esperienza da giornalista al fronte, una tra le poche, soprattutto in Italia, ad aver raccontato dalla prima linea la guerra all’Isis, dalla Siria fino alla strage di Parigi.

Kobane, la vita sotto le bombe. Partire dai dettagli per descrivere un grande avvenimento che probabilmente un giorno sarà parte dei libri di storia: è il modo in cui Lucia Goracci cerca di raccontare agli spettatori ciò a cui assiste, che si tratti del conflitto ucraino o della guerra civile siriana. Come quando a Kobane, la città al confine tra Turchia e Siria diventata simbolo della resistenza all’Isis, Lucia Goracci ha scelto di raccontare la storia di una scuola, gestita da un gruppo di maestre volontarie che continuano a fare lezione in un semi-interrato, mentre all’esterno piovono le bombe.

“Mi emoziono ancora quando penso a quei bambini – afferma – che continuano a studiare in quelle condizioni. Per loro, il sogno è di diventare da grandi combattenti del Ypg, la milizia curda nata nel nel nord della Siria che combatte contro il regime di Bashar al-Assad, oppure infermieri”. Una scuola che è un tentativo di portare normalità in un Paese sconvolto dalla guerra: “Una maestra mi ha raccontato che un bambino di sei anni le ha detto di voler rimanere sempre a scuola perché terrorizzato da ‘quei cattivi del Daesh’, il termine arabo con cui è indicato lo Stato islamico, che tagliano le teste”.

Gli attacchi del 13 novembre. Quando l’Isis ha colpito Parigi, Lucia Goracci è volata nella Ville Lumière, una città a cui è molto legata, come racconta nella video intervista. “Per Parigi è come Roma, in quell’attacco è come se avessero ferito la mia città – afferma – ed è un fatto che fa molto paura perché significa che non ci sono più linee del fronte”. Secondo l’inviata di Rai News24, un racconto è tanto più efficace quanto più il giornalista è presente nei luoghi dove si svolgono i fatti ed è capace di dare spazio anche a quei piccoli gesti che, nonostante il dramma, caratterizzano la quotidianità. Come nel caso della proprietaria di origine magrebina di una panetteria a due passi da Place de la République che, nei giorni successivi alla strage, ha tenuto aperta la sua attività, nonostante lo stato d’emergenza, ospitando tra l’altro anche i giornalisti che avevano necessità di ricaricare telecamere e cellulari. “Tra un cliente e l’altro – ricorda Goracci – ripeteva di voler continuare a vivere e di non avere intenzione di farsi intimorire dalla minaccia jihadista”.

Il lavoro sul campo. “La competizione tra colleghi così comune in patria, quando invece si sta in guerra cede spesso il posto alla collaborazione”, sostiene Goracci. “Al fronte, si fa rete – spiega la giornalista di Rai News24 – e  il fatto che si rischi la vita, spinge tutti a collaborare, a sapere che si può contare sull’aiuto dei colleghi. Com’è accaduto a me in Libia: la mia attrezzatura non funzionava, ma grazie alla disponibilità di alcuni colleghi del New York Times sono riuscita comunque a chiamare la redazione a Roma e lavorare”.

Per muoversi in modo efficace e in sicurezza sul campo, Goracci cerca di contattare altri colleghi che sono stati poco prima di lei nella zona che le interessa e, una volta sul posto, si affida ad autisti e interpreti locali che conoscono molto bene il territorio e che diventano “dei veri angeli custodi”.
“Tra la polvere, i bombardamenti, le pallottole che sfrecciano ad altezza d’uomo – dichiara –  la fiducia è un sentimento che inaspettatamente prevale sulla paura. Così capita di trovare ospitalità da chi è rimasto a combattere, persone che magari hanno anche perso i propri familiari o hanno scelto di restare dopo averli aiutati a scappare in posti più sicuri”.

Attivismo vs giornalismo. “La tecnologia aiuta tanto e grazie ai social media le dittature sono in qualche modo più controllabili. Tecnologie come Facebook, Twitter e YouReporter – ragiona Goracci – permettono di smascherare e rendere noti i soprusi subiti dai cittadini, diffondendoli nel giro di poche ore.  Questo non significa però che l’inviato non serva più: la presenza dei giornalisti nelle zone di guerra continua a essere importante per raccontare quello che accade senza il coinvolgimento di chi la guerra invece la sta facendo”.

La sindrome del sopravvissuto. Nonostante l’esperienza, non ci si abitua mai alla sofferenza di chi ha perso un genitore o un figlio, o al rumore assordante delle bombe. In due occasioni Lucia Goracci ha confessato di aver sofferto nel lasciare i luoghi in cui era stata inviata: “Il terremoto di Haiti – racconta – è stata una delle esperienze che mi ha segnata di più. Ho avuto la sindrome del sopravvissuto: mi sentivo in colpa perché davanti a tutta quella sofferenza me ne stavo andando, lasciavo un Paese distrutto per andare a Santo Domingo, una delle mete turistiche più lussuose e ambite”. Lo stesso accadde a Gaza, dove la Goracci rischiò di essere colpita da un missile durante una diretta. “In particolare in queste due occasioni, mi sono resa conto di cosa significasse lasciare un posto pieno di dolore e sofferenza per tornare al sicuro, a casa mia”.