“Ti squarcio la pancia e mi prendo tuo figlio”. Dodici anni di violenze, marito alla sbarra

Tribunale di Urbino

URBINO – “Ti squarcio la pancia, mi prendo tuo figlio e me lo porto via”. “Guardati, fai schifo, se non ti sposavo io chi ti prendeva?!”. “Sono il tuo Dio, la tua vita è mia e devi fare quello che dico io”. Sono solo alcune delle orribili minacce che M. R., 30 anni, si è sentita rivolgere da suo marito, C. A., 37 anni, negli ultimi dodici anni.

Dodici anni di violenze fisiche e psicologiche che la donna ha raccontato in un lungo sfogo dopo l’udienza al tribunale di Urbino, dove il marito è di nuovo a processo per maltrattamenti e percosse dopo essere stato già condannato a due anni di reclusione. Era il 29 giugno l’ultima volta in cui l’uomo, di origini turche, ex proprietario di un locale pubblico di Urbino, ha picchiato violentemente sua moglie. “Siamo separati, ma lui pensa che io sia ancora ‘roba sua’ – racconta l’ultima, terribile esperienza la donna italiana da anni residente nelle Marche – prima mi aveva inviato su WhatsApp video in cui faceva sesso con delle prostitute in un night, poi mi ha aspettato sotto casa e mi ha accusato di avere un altro uomo. Io ho negato fino alla fine, ma lui mi ha preso per la gola e ha gridato: ‘Giuramelo sulla vita del bambino’. E poi calci, schiaffi, pugni in testa”. Poi si è allontanato e l’ha lasciata a terra sanguinante. “L’ho denunciato il 4 luglio, appena sono riuscita ad alzarmi dal letto”, precisa. Ma non pago di quanto già accaduto, quello stesso giorno C. A. si è presentato sul pianerottolo di casa e ha iniziato a bussare con insistenza, convinto che la moglie fosse con un altro uomo: “Apri, voglio vedere se questo bastardo ha il coraggio di affrontarmi!”. La donna, in realtà, era sola in casa e al telefono con il suo avvocato.

Quello che oggi M. R. definisce “un inferno che sembra non abbia mai fine” è iniziato nel 2005, quando, giovanissima, si innamora del commerciante. “All’epoca lavoravo in una pasticceria a Rimini, vicino a un locale che poi ho scoperto essere il suo – ricorda – veniva tutte le sere, si sedeva a un tavolino e mi guardava per ore. Sembrava stesse nascendo un grande amore, invece stava per iniziare il mio peggior incubo”.

Dopo due mesi, si sposano. “Tutti mi dicevano ‘lo fa solo per la cittadinanza’. Dovevo ascoltarli”, continua. C. A. è da subito geloso e possessivo, si trasforma nel suo carceriere: quando esce di casa chiude la porta a chiave. Lei rimane dentro. Quando torna, spesso ubriaco, l’accusa di tradirlo. La picchia e la minaccia con coltelli e forbici.

Dopo due mesi, stanca della situazione, M. R. chiede la separazione. Appena suo marito lo scopre: “Mi ha spaccato la faccia”, racconta. E non è un modo di dire. “L’orbita destra si riduce a un cumulo di sangue e ossa rotte. Ma io sono tornata da lui: avevo troppa paura che facesse del male anche a chi mi stava intorno, alla mia famiglia, a mia sorella che allora aveva solo sette anni… una volta ha puntato il coltello alla gola anche a lei”.

Nel 2007, dopo l’ennesimo episodio di violenza e la minaccia di denuncia, C. A. le concede la separazione consensuale. Ma la storia tra i due non finisce. “Lui mi diceva ‘vieni qui, che devo picchiarti e io andavo – racconta M. R., accompagnando il racconto con un lungo sospiro – perché pensavo che se mi avesse trovata lui, mi avrebbe picchiato ancora più forte”. Continua pure a lavorare per lui senza guadagnare nulla, se non avendo “in cambio” vitto e alloggio.

“Ero la sua schiava e la situazione non è migliorata quando sono rimasta incinta”. “Sei una mongolfiera”, “sei grassa”, “fai schifo”. Offese e ancora botte, anche col pancione, fino all’ottavo mese, quando decide di lasciarla: “Vado a vivere con un’altra: è più bella, più intelligente e anche più ricca di te”. Ma poi torna, ancora.

Nel 2012 apre un nuovo punto vendita a Urbino e, per lavoro – continua a vendere all’ingrosso anche all’estero – viaggia: Germania, Turchia, Polonia. “Se qualcuno mi chiedeva se ero sposata, rispondevo che avevo un marito part time – racconta M. R. – tornava dai suoi viaggi quando voleva, mi picchiava, mi umiliava, mi lasciava per altre donne, ma pretendeva da me assoluta fedeltà. Ma soprattutto lasciava me e mio figlio senza luce, senza gas, senza corrente. Prostitute, vizio del gioco, vestiti costosi. Noi, io e mio figlio, mangiavamo solo perché eravamo nel locale: a casa non c’era nulla, anche il frigo era vuoto”.

La situazione ha una svolta nello stesso anno, quando il bambino, al secondo anno di asilo, inizia a raccontare alle maestre di non volere più andare a scuola per non lasciare sola sua madre: “Se non ci sono io a proteggerla, papà l’ammazza con il coltello”. Intervengono psicologi e assistenti sociali, spiegando alla donna che, se non lo avesse finalmente lasciato, le avrebbero tolto la custodia del bambino. Da qui la forza di abbandonare il tetto coniugale e ricominciare un’altra vita. M. R. va a vivere con suo figlio lontano dal marito. Finiscono le violenze domestiche. Ma ne iniziano altre. “Mi seguiva ovunque, ho cambiato sette città, ma lui continuava a prendere case a pochi metri dalla mia”.

“Ho provato più volte a rifarmi una vita, ma mi ha sempre distrutto tutto – spiega – L’ultima volta ha minacciato di morte il proprietario del bar in cui lavoravo, che per paura mi ha licenziato. Pure l’educatore di nostro figlio ha fatto fuggire. Un giorno mi disse: ‘Signora, io vado via, non posso rischiare la vita per il mio lavoro’”.

Nel 2014 lo denuncia per maltrattamenti e percosse. Il processo si conclude per l’uomo con una condanna a due anni di carcere. Non li sconterà: nel 2015 ricorre in appello. Denunciato dalla moglie anche per le violenze del 29 giugno 2016, la sentenza è prevista il 25 luglio 2017. “Gli avevano tolto la patria potestà e aveva un divieto di avvicinamento a me e mio figlio. Non ha rispettato nulla. Le mie speranze sono riposte tutte in una data: 25 luglio 2017. Spero che questo calvario finisca. Ho bisogno di tranquillità, per me e per mio figlio”, conclude M. R., che nel frattempo ha cambiato di nuovo casa, in segreto. Più in segreto delle altre volte. Perché chi le ha rovinato gli ultimi dieci anni di vita non la raggiunga prima che la giustizia faccia il suo corso.