“Crescendo per Rossini”, la lectio di Danese su teatro e opera

di ELISABETTA BARBADORO

URBINO – Cosa hanno in comune Plauto, commediografo latino, e Gioacchino Rossini, operista dell’Ottocento? La risposta a questa domanda è al centro del primo degli incontri dedicati al 150° anniversario della morte del compositore pesarese, intitolato Il teatro musicale come spettacolo totale e tenuto dal docente di filologia classica dell’università di Urbino Roberto Mario Danese.

Esiste una relazione tra la pratica operistica da Mozart a Rossini e le performances teatrali degli autori classici che tocca almeno due aspetti, secondo il professor Danese: il primo riguarda il rapporto con il pubblico. La recitazione, negli anfiteatri greci e romani, prevedeva l’uso di maschere, grottesche e caricaturali; le rappresentazioni si svolgevano di giorno e gli attori spesso interagivano con gli spettatori, che non si trovavano al buio come oggi è consuetudine. Questi elementi, insieme alla musica, la cui presenza era fondamentale nel teatro classico – basti pensare al coro nella tragedia greca – contribuiscono a creare un effetto di straniamento in chi assiste allo spettacolo.  Sono “tanti scalini che allontanano la verisimiglianza”, spiega Danese, ovvero artifici che portano la rappresentazione verso un antirealismo che nel teatro attraversa i secoli. La musica è, tra questi “scalini”, il più importante, proprio perché è quello che accomuna le piéce antiche e l’opera moderna, a partire dalla sua nascita, nel 1600, grazie all’idea, tutta italiana, del “recitar cantando”: pratica possibile attraverso quello che Danese ha definito “un mascheramento della voce”.

Da qui Danese si ricollega al secondo punto in comune tra i due generi: nella storia, sia greco-romana che dell’età del melodramma, sul palcoscenico a recitare erano quasi solo uomini. Nell’antichità si utilizzava l’espediente del travestimento: un attore vestiva i panni di una donna e si atteggiava come tale, anche modulando la voce. Nell’opera, spesso, per le parti femminili erano impiegati i castrati, che riuscivano a mantenere una vocalità quasi sopranistica. Ai tempi di Rossini era una pratica già in declino: “Rossini non impiegava quasi mai i castrati”, sostiene Danese. Quello che emerge dagli studi sull’operista è comunque la sua grande ammirazione per la sonorità dei cantori eunuchi: tra l’altro, lo stesso Rossini rischiò la castrazione su suggerimento di uno zio, ma la madre si oppose.
In questo ambito, restano nella storia le performace di Farinelli, pseudonimo di Nicola Brioschi, ricordate in un film del 1994 di cui Danese ha proiettato un estratto. Oppure un altro esempio celebre, non citato da Danese nella conferenza, è Alessandro Moreschi, l’ultimo castrato della storia, morto nel 1922, l’unico di cui siano disponibili delle registrazioni.

Un altro spunto erudito, citato da Danese nella lectio, che accomuna il teatro classico e l’opera lirica viene infine da Cesare Questa, professore dell’ateneo urbinate scomparso il 4 febbraio 2016. Il ratto dal serraglio, oltre che un Singspiel in tre atti di Mozart, è il titolo di un suo saggio, dove sono messi in relazione Ifigenia in Tauride e Ifigenia in Aulide di Euripide, Miles Gloriosus di Plauto, Il ratto dal serraglio e l’Italiana in Algeri di Rossini. Gli elementi comuni, secondo Questa, si trovano nella trama nelle cinque opere, che presentano una struttura simile, che si articola principalmente in problema, fuga, inganno/soluzione, lieto fine. Ciò che differisce, invece, è la tecnica della performance: dalla recitazione arricchita da spunti musicali, al belcanto, dove melodia e armonia sono le vere protagoniste. Il movimento scenico della rappresentazione antica, nella modernità è pienamente reso dalla musica, soprattutto quella rossiniana, dove per “crescendo” si intende, come ha detto Danese, “una costruzione antirealistica che trascina nel comico”.