La Liberazione delle Marche » Storie e personaggi http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche a cura della redazione de Il Ducato, testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino Wed, 04 Jun 2014 09:01:16 +0000 en-US hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.5.1 a cura della redazione de Il Ducato, testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino La Liberazione delle Marche no a cura della redazione de Il Ducato, testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino La Liberazione delle Marche » Storie e personaggi http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?cat=8 Il testone di Mussolini scolpito nella roccia e le sue cene in trattoria http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=809 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=809#comments Wed, 02 Apr 2014 10:44:55 +0000 Giovanni Ruggiero http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=809

A sinistra il profilo di Mussolini nella gola del Furlo

“L’ordine di bombardare il profilo di Benito Mussolini sul monte Pietralata, nella gola del Furlo, arrivò direttamente da Winston Churchill”. A dirlo è lo storico Umberto Marini che per anni ha studiato i fatti convulsi avvenuti a pochi chilometri dalla linea Gotica: “Nell’agosto del 1944 Churchill era a Montemaggiore al Metauro, piccolo centro nella provincia di Pesaro-Urbino per studiare l’assalto alla linea Gotica”. A piazzare quindi le mine che avrebbero fatto saltare parte del mento e delle labbra di roccia calcarea fu il partigiano Bruno Bocchio, della brigata Maiella: “Dovevano essere gli italiani stessi a colpire quel simbolo – dice Marini – Churchill lo considerava un dettaglio importante in una zona che formalmente era sotto la Repubblica di Salò”.

Ancora oggi la punta del Pietralata ha mantenuto in buona parte i lineamenti del volto del Duce. La costruzione avvenne nel 1936 ad opera della milizia forestale della zona e degli operai delle cave che estraevano la pietra rosa. Ideato dallo scultore Oddo Aliventi, il monumento raffigurava la fronte ampia, il mento pronunciato e il naso dall’aria marziale rivolti verso il cielo. Secondo i racconti popolari, Mussolini ebbe da ridire sulla posizione che lo ritraeva steso come se fosse addormentato. La retorica fascista lo voleva sempre vigile sui destini dell’Italia: “Aliventi voleva celebrare il dominio del regime anche sui cieli – ricorda lo storico Marini – tre anni prima c’era stata la traversata atlantica di Italo Balbo”.

Da questa parti Benito Mussolini passava spesso, 57 volte secondo la gente del posto. Nei viaggi tra Roma e Predappio sostava alla locanda del Candiracci: “La conosceva da anni e gliel’aveva consigliata il fratello Arnaldo – ricorda la signora Floride, bambina di dieci anni negli anni dei soggiorni della famiglia Mussolini alla gola del Furlo, oggi energica novantenne – e si fermava qui per riposare, sia da solo che con la famiglia”. Di quegli anni, dal 1933 in poi, Floride conserva tanti bellissimi ricordi fatti di giochi con Romano e lunghe passeggiate a raccogliere fiori con donna Rachele: “Con le 5 lire d’argento che ci regalava – dice Floride – compravamo le prime cose per noi, come una maglietta nuova o un paio di pantaloni”.

Della figura di Mussolini, Floride ha conservato solo un ricordo affettivo: “Non mi sono mai interessata di politica, all’epoca mi vestivano da piccola italiana e la sua immagine ha accompagnato tutta la mia infanzia”. Dell’ospitalità della locanda del Furlo, Mussolini apprezzava di sicuro la cucina: “Si faceva sempre preparare le tagliatelle con il tartufo – precisa Floride – ma l’evento che ricordo di più è stato quando riuscì a mangiare una frittata di ben 12 uova tutta da solo: arrivato a Rimini è stato male per tutta la notte e il giorno dopo siamo stati anche interrogati e perquisiti dalla polizia, finché non siamo riusciti a spiegare che le uova non erano scadute, ma troppe!”.

Floride Candiracci

Floride ha assistito alla costruzione del profilo di Mussolini sul monte Pietralata: “Si fece apprezzare dagli scalpellini della zona – racconta – perché migliorò le strade che portavano alle cave: ormai era sua abitudine offrire una volta all’anno un pranzo in sua compagnia”. Sulla distruzione parziale del profilo ad opera dei partigiani, Floride non è d’accordo con la tesi dell’ordine impartito da Churchill: “Ho sempre saputo che a volere l’abbattimento sia stata la senatrice comunista Adele Bei”. Lo conferma anche Stefano Lorenzetto sul sito de Il Giornale, ma Umberto Marini ricostruisce in altro modo: “Il governo Parri aveva stanziato i fondi per abbattere definitivamente quel profilo – dice – ma Adele Bei, sottosegretario ai lavori pubblici, riuscì a stornare quel finanziamento per ricostruire le strade danneggiate che servivano a raggiungere le cave”.

La polemica sulla ricostruzione è arrivata fino alla fine degli anni ‘70, quando gli eredi Candiracci sono stati anche ospiti in tv di Enzo Tortora a Portobello. “Periodicamente qualcuno propone di rifare la faccia di Mussolini – chiosa Marini – chi per motivi turistici, chi come qualcuno di movimenti neofascisti per spinte nostalgiche”. L’idea è anche tornata a circolare nel 2006, ma senza conseguenze concrete, se non far parlare del Furlo in tv e sui giornali: “Possiamo anche fare a meno del profilo completo – scherza Marini – la riserva del Furlo è bella così com’è”.

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Le armi dei partigiani delle Marche e i codici segreti mai ritrovati http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=280 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=280#comments Wed, 02 Apr 2014 08:52:32 +0000 Giovanna Olita http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=280

Foto, oggetti e armi conservati al Museo della Resistenza

Fucili a ripetizione Mauser, pistole e rivoltelle inglesi accompagnate da 31 chili di esplosivo. Era un vero e proprio arsenale quello che Vilfredo Caimmi, ex partigiano di Ancona e medaglia d’argento al valore militare, nascondeva nella sua cantina. Un arsenale scoperto nel 1990 dopo una segnalazione anonima ai carabinieri: tanto è bastato perché il tesoro di Caimmi, fatto di armi non solo impugnate dai suoi compagni ma anche da partigiani di Macerata e Urbino, tornasse alla luce. Fu immediatamente sospeso dal Partito comunista (Pci), nonostante avesse cercato di giustificarsi: “Tenevo tutto per affetto”.

Dieci anni dopo, su iniziativa del ministro della giustizia Olivero Diliberto, le armi sono state dissequestrate per il loro valore storico e consegnate al comune di Falconara Marittima. Dal 2002 sono conservate nel museo della Resistenza e rappresentano, secondo quanto afferma Angela Ortolani dell’ufficio cultura del Comune, l’unico esempio in Italia di un arsenale appartenuto a una brigata partigiana. Il museo ospita anche testimonianze di abitanti della zona: dalle uniformi fornite dagli alleati a un timbro rubato ai tedeschi per falsificare documenti, dalle carte da gioco americane a un telegrafo da campo. All’epoca era molto difficile comunicare con gli alleati ed era un’operazione delicatissima. Gli scambi di informazioni potevano avvenire solo tramite codici numerici, che venivano affidati a una sola persona.

Tanti ricordi che fanno di questo spazio un piccolo gioiello delle Marche. Tesori che però rimangono anche troppo nascosti. Sul sito internet del Comune di Falconara è riportata la voce ‘Museo della Resistenza’, ma cliccando si apre una pagina vuota. Cercando invece il numero di telefono e l’indirizzo sul web, si trovano dati sbagliati. Arrivati sul posto tutte le indicazioni rimandano al Castello, sede dell’esposizione per soli due anni. È dal 2004 infatti che si è deciso di spostare il museo nell’edificio storico del comune per abbattere le barriere architettoniche e consentire a tutti di visitarlo.

Tra i corridoi del museo, esposte in una vetrina, risaltano due mitragliette Sten, identiche per un occhio inesperto ma profondamente diverse se usate in battaglia. Una, la più accurata nella fabbricazione e munita di maniglia, permetteva di far partire un colpo alla volta; l’altra, molto più rudimentale, se azionata continuava a sparare finché non finivano i proiettili all’interno del caricatore. Molti partigiani sono rimasti uccisi da fuoco amico proprio a causa di questo difetto.

A maneggiare le armi, però, non erano solo gli uomini. Nel museo è riservato uno spazio particolare alle pistole che utilizzavano le donne. Piccole e leggere, venivano spesso nascoste sotto le gonne o consegnate, quando ce n’era bisogno, ai partigiani. Ma in quali altri modi era possibile procurarsi pistole e fucili? C’era chi recuperava quelli scampati alla Prima guerra mondiale, nascosti dai soldati in fuga dopo l’8 settembre o chi tentava di strapparli al nemico in combattimento. La pratica più diffusa però era quella di raccoglierli dai sacchi gettati dagli elicotteri degli alleati.

Quando farsi lanciare le armi all’aeroporto era diventato troppo rischioso, venne individuata come valida alternativa la Valdiola, una valle dell’entroterra tolentinese perfetta per l’arrivo dei sacchi grazie alla sua conformazione a ‘V’. Capitano della brigata partigiana di Ancona era Goffredo Baldelli, punto di riferimento per la resistenza marchigiana. Di area socialista e vicino alla posizione di Pertini, era l’unico ad avere i codici e la radio per comunicare con gli alleati.

Baldelli però ha avuto un destino sfortunato. Un giorno rimproverò un partigiano polacco che aveva insultato una staffetta. I due cominciarono a picchiarsi finché il polacco sparò a Baldelli, uccidendolo. Voci raccontano che i compagni gli abbiano scucito gli orli della giacca e dei pantaloni per cercare i codici. I codici non sono mai stati ritrovati.

Giovanna Olita
Valeria Strambi

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Luciana Manca: “Così ho inventato il traffico delle tessere annonarie” http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=740 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=740#comments Wed, 02 Apr 2014 08:38:07 +0000 Valeria Strambi http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=740

La carta annonaria di Ancona

Luciana Manca nel 1942 aveva 17 anni e lavorava al Comune di Falconara Marittima. Di nascosto e rischiando la vita ha aiutato partigiani, antifascisti e giovani renitenti.

All’epoca ero poco più di una bambina e il mio compito era distribuire le tessere annonarie. In ufficio ne vedevo passare in continuazione ed è col tempo che ho capito che solo alcuni avevano il diritto di mangiare. Chi non era iscritto al fascio ma anche le famiglie dei giovani che non si erano presentati alla leva della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) rimanevano tagliati fuori, non toccava loro nemmeno un pezzo di pane. Allora, una volta capito il meccanismo, ho trovato il modo di procurare le tessere anche a loro. Nella maniera più semplice: le rubavo.

ASCOLTA L’AUDIO – “Rubacchiavo le tessere per darle ai partigiani”

Ogni tre mesi mi veniva consegnata una lista di nomi e in base a quella dovevo prendere solo le tessere che servivano. Ma io cercavo sempre di agguantarne qualcuna in più, approfittando della disattenzione di chi faceva i controlli e rischiando ogni volta di essere scoperta. A ripensarci ora mi sento un’incosciente, ma non mi sembrava di fare niente di straordinario. Per me era una cosa naturale, loro ne avevano bisogno e io mi ero ritrovata tra le mani un potere troppo grande per non tentare almeno di aiutarli.

Nel piano perfetto che avevo escogitato non ero l’unica pedina. C’eravamo io, la mia amica Maria Corvo e il fratello Mario, un partigiano. Lo scambio tra noi tre doveva avvenire di notte, quando era più facile non dare nell’occhio. Uscivo sempre a piedi, a coprifuoco già scattato, cercando di farmi notare il meno possibile. Nascondevo le tessere nel cappotto, nei vestiti o come potevo e in questo modo, sommersa dalla paura, con le gambe che mi tremavano ma spinta dall’adrenalina, percorrevo quei 200 metri che separavano casa mia da quella della mia amica.

I nostri incontri, che avvenivano tutte le volte che Mario tornava a casa, sono andati avanti per almeno due anni, dal ’42 al ’44. Le tessere non bastavano mai, ogni volta si aggiungeva sempre qualche partigiano in più ed era Mario ad occuparsi dello smercio. Era stata sua anche l’idea di mettere nomi falsi.

Mi hanno dato persino un premio per questa cosa! Certo, ho rischiato grosso perché se un partigiano fosse stato catturato e gli avessero trovato una tessera del genere, sarebbero risaliti a me molto facilmente e avrei potuto rimetterci la pelle. Ma io a questo non ci pensavo, lo facevo per profonda amicizia.

Da Falconara me ne sono andata nel 1949 e tre anni dopo ho sposato un ufficiale del ‘San Marco’ che avevo conosciuto proprio in quegli anni. Tornare a Falconara per il 67esimo anniversario della Liberazione e tornarci da eroe mi ha fatto sorridere.

Valeria Strambi
Giovanna Olita

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“A Cefalonia mi salvai la vita grazie ad una ferita alla mano” / VIDEO http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=175 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=175#comments Wed, 02 Apr 2014 08:29:49 +0000 Teodora Stefanelli http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=175

Arduino Federici

Arduino Federici, 91 anni di Monte San Vito (in provincia di Ancona), è uno dei due marchigiani ancora viventi sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia: “Il nostro comandante, generale Antonio Gandin, ci disse che i tedeschi volevano la nostra resa – inizia a raccontare Arduino – ci chiese se volevamo allearci con il nemico, cedere le armi o resistere. Non abbiamo avuto dubbi: tutti abbiamo scelto di resistere”. E così, dopo una settimana di combattimenti, il 22 settembre 1943 la divisione Acqui fu sterminata nonostante la resa e il generale Gandin, il 24 settembre, fucilato. “I tedeschi bombardarono le nostre roccaforti – continua Arduino – noi avevamo pochi fucili, eravamo sprovvisti di armi. In più i nazisti arrivarono con i caccia camuffati con i colori italiani. Quando li abbiamo visti eravamo contenti, pensavamo fossero i nostri. Invece era un tranello. Ci hanno falciati, io sono stato ferito e mi sono nascosto dietro a uno scoglio. Dopo un po’ sono arrivati i generali italiani e, dopo aver deposto la mia mitragliatrice, mi mandarono in infermeria e da lì all’ospedale da campo di Argostoli. Dopo una settimana la divisione fu costretta a cedere le armi. Era il 22 settembre”.

Arduino Federici da giovane

Arduino Federici da giovane

A Cefalonia i tedeschi uccisero cinquemila soldati italiani e quasi 450 ufficiali che si arresero dopo un’aspra battaglia. Arduino si salvò grazie ai consigli di un generale emiliano: “Ad Argostoli un generale mi aveva consigliato di stare zitto e di non dire a nessuno la mia nazionalità perché sarebbero arrivati i nazisti. Quindi non parlai quando le SS, passando fra le lettighe, chiesero se c’erano italiani presenti. Poco dopo li hanno uccisi tutti. Davanti ai miei occhi spararono in testa a un medico, che stava operando un soldato, e a un prete”.

Dall’ospedale i superstiti furono caricati su piroscafi destinati ai lager tedeschi. Questa volta la fortuna di Arduino fu di essere ferito e quindi caricato, per fare la traversata fino ad Atene, sulla nave della Croce Rossa. “Se non fossi stato ferito non sarei mai arrivato al campo di Leus. Molti dei miei commilitoni sono morti in mare, ho visto saltare due navi, io ero sulla terza. E poi, si sa, alle navi della Croce Rossa non si spara”.

Foto d'epoca

Foto d'epoca

A ottobre inoltrato, Arduino era prigioniero nel campo della cittadina greca e ci è rimasto per un mese: “La vita laggiù era durissima. Ci davano da mangiare poco, ci nutrivamo con ghiande e bacche cadute a terra. Nel campo mi trovai insieme ai partigiani greci e russi”. I generali nazisti lo hanno costretto a scrivere una lettera per rassicurare i familiari, lettera che è arrivata a destinazione due mesi più tardi: “Mi fecero scrivere quello che volevano loro, che stavo bene e che non dovevano preoccuparsi per me. In realtà pesavo 40 chili”.

Alcuni dei prigionieri del campo sono finiti direttamente nei forni crematori racconta Arduino: “Ci dicevano che li avrebbero portati a lavorare, in realtà li hanno uccisi nei forni”. Lui e altri 23 italiani furono salvati da un caporale austriaco che li portò al Pireo e li lasciò fuggire. Una volta uscito dall’incubo del campo di concentramento, Arduino passò un anno, dal 1944 al 1945, peregrinando di città in città. “Per tornare a casa passai per l’Austria, qui vidi Vienna bruciare, e per la Bulgaria, dove cavalcai per la prima volta dei cavalli. Nel 1945 finalmente arrivai a casa: tornare e riabbracciare gli altri sei fratelli e i miei genitori è stata un’emozione incredibile” conclude Arduino.

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Rosina Frulla: la staffetta partigiana vestita di rosso / VIDEO http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=531 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=531#comments Tue, 01 Apr 2014 17:10:43 +0000 pasqualotto http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=531 Rosina Frulla è nata il 30 novembre 1926
A 17 anni ha iniziato a fare la staffetta partigiana
Antifascista e comunista convinta è rimasta una “ragazza del secolo scorso”
Racconta la sua guerra, quando aiutava la Resistenza tra Pesaro e Gallo

Nel 1944 lavoravo alla mensa della scuola a Pesaro e ogni quindici giorni dovevo andare a prendere la paga in un ufficio di via Passeri dove, appena si entrava, bisognava fare il saluto al duce. Un giorno entro nell’ufficio e trovo un comandante fascista con la faccia da maialone che mi dice: “Saluta il duce!” e io zitta. Allora lui ha ripetuto “Saluta il duce!” e io “Dov’è?”. “Lì” mi ha risposto lui, indicandomi una foto incorniciata di Mussolini appesa sopra la sua testa. Allora io ho preso la cornice e gliel’ho rotta in testa.

Lui si è arrabbiato molto e la segretaria si stava quasi facendo la pipì addosso dal ridere ma non mi hanno fatto nulla perché ero piccola: avevo 17 anni ma ne dimostravo meno.

E’ stato proprio il fatto di sembrare molto più giovane della mia età che mi ha salvata. I fascisti non pensavano che una ragazzina così piccola potesse fare la staffetta partigiana e quando mi vedevano fare su e giù con la mia bici sgangherata senza copertoni, mi lasciavano sempre passare.

Solo una volta quando stavo portando una pistola Beretta ai partigiani della brigata Bruno Lugli, sono stata fermata a un posto di blocco. La pistola era chiusa nel portapacchi della bici. Era la prima volta che ne trasportavo una e nemmeno sapevo che si chiamasse “beretta”. All’inizio quando mi hanno detto cosa dovevo trasportare avevo capito “berretto”. Comunque l’ho ficcata nel mio portapacchi, come facevo con le lettere e gli ordini, e l’ho coperta con gli attrezzi per riparare le biciclette che usava mio fratello che era meccanico. I fascisti, quando mi hanno fermata, per farmi un dispetto, hanno buttato la bici in un fosso e sono uscite tutte le cose dal portapacchi ma io ho fatto finta di niente. Ho raccolto tutto e me ne sono andata.

Ho sempre avuto una grande faccia tosta io. Ricordo che mi ero fatta un bastone con inciso sopra “viva il comunismo, viva i partigiani”. Lo portavo sempre con me e ne ero proprio orgogliosa. Un giorno però un fascista l’ha visto. Ricordo che si è avvicinato con fare minaccioso, me l’ha preso dalle mani e, senza dire una parola, l’ha spezzato. Poi mi ha chiesto: “ma ti rendi conto cosa c’è scritto su questo bastone?”. E io: “No, sono analfabeta!”. Poi sono tornata a casa e me ne sono fatta un altro uguale.

La mia lotta partigiana è cominciata portando il pane e la minestra che rimaneva dalla mensa ai soldati prigionieri dei tedeschi ad Alberghetti. Me li aveva fatti conoscere Luigi Fabi, il mio vicino di casa. In famiglia mia non si parlava né di fascismo né di comunismo: la lotta partigiana me l’ha insegnata Fabi con il suo esempio. Ogni sera usciva di casa, faceva un rutto enorme e poi urlava – perchè lo sentisse tutto il quartiere -  “Questo è per Mussolini, che gli venga un cancro!”.

Quella si che era una famiglia di antifascisti “quadrati”. Ci hanno insegnato tutto a me e a mio fratello. Noi eravamo piccoli ma non ci tiravamo mai indietro. Non avevamo paura perché stavamo lottando per la libertà e quando lotti per la libertà non puoi avere paura.

Facevamo la staffetta, portavamo in giro le copie de “l’Unità” e qualsiasi altra cosa servisse ai compagni. Le riunioni per decidere come e quando portare armi e messaggi ai partigiani le facevamo in chiesa. Fingevamo di pregare e intanto discutevamo. A casa invece non parlavamo mai di queste cose perché non volevamo che nostra mamma sapesse. Non le raccontavamo quello che facevamo e lei continuava a ripetere: “Sta fiola an è mei a chesa”.

Anche quando siamo stati sfollati al Gallo io ero sempre in giro per i partigiani. Una volta sono andata da Pesaro a Gallo con la bici attaccata al retro di un camion. Sono arrivata a casa così sporca che nessuno mi ha riconosciuta e mio fratello, quando mi ha vista, ha escalmato: “Rosi, sei più nera dei fascisti!”.

Ma io con i fascisti non c’ho avuto mai a che fare. Mai andata al sabato fascista. Mai andata ai loro raduni. Anzi si: una volta sono andata a una manifestazione a Pesaro dove parlava un prete fascista. Ricordo che mi sono fatta largo tra la folla e, essendo piccolina, sono riuscita a intrufolarmi nelle prime file. Sono stata buona per un po’ e poi, quando nessuno se l’aspettava, ho tirato il pepe in faccia ai fascisti e sono scappata via.

E’ stata dura. Tanto. Non lo nego; però se tornassi indietro rifarei tutto, dall’inizio alla fine. Io volevo lottare. Dovevo lottare perché ero e sono un’antifascita. Ed è per questo che ogni primo maggio continuo a mettere una bandiera rossa in quell’angolo lì del giardino.

Prima la issavo con mio marito Ferruccio che è stato anche lui un partigiano. Ci siamo sposati nel 1952 in Comune a Pesaro. Una volta non era come adesso che ti potevi sposare sia in chiesa che in comune e poco cambiava. Allora era uno scandalo ma noi abbiamo deciso così perché il prete mi aveva ricattata: “se non rinunci alla tessera del partito comunista non ti sposi in chiesa”. E io ho detto “senza la tessera mai!”. Così con Ferruccio abbiamo fatto una bella cerimonia in Comune. C’era il tappeto rosso, i fiori e tutto. E poi finita la celebrazione siamo saliti sulle nostre bici e siamo andati a fare festa grande con i parenti.

Ora che Ferruccio è morto e io non ci vedo più tanto bene, la bandiera la metto con i miei nipoti. Forse dovrei smetterla. Ogni anno mi dico “questo è l’ultimo”. Che senso ha oggi, con questa politica qui, quella bandiera sventolante? Che senso ha vestirsi sempre di rosso?

Io so solo che il rosso è il colore della mia passione, della mia lotta. Il colore della mia vita. E che anche quest’anno la mia bandiera rossa sarà lì, nell’angolo sinistro del mio giardino, perché tutta la via sappia che qui vive un’antifascista vera

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Umberto Palmetti sulla linea Gotica: “Rallentai i lavori per aiutare gli alleati” / VIDEO http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=88 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=88#comments Tue, 01 Apr 2014 16:50:30 +0000 Agnese Fioretti http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=88 Nel settembre del 1943 Umberto Palmetti aveva 20 anni
Abitava a San Giovanni in Marignano
Fu costretto dai nazifascisti a lavorare alla linea Gotica
Sono passati settant’anni e ora racconta quei mesi

Nella nostra caserma, quella di Cesena dove stavamo noi militari dell’Aeronautica, l’allarme l’hanno fatto suonare verso la mezzanotte del 9 settembre. Poche ore prima erano arrivati i tedeschi e tutti avevamo pensato “questa volta è la nostra, questa volta ci prendono, ci caricano su un treno e ci spediscono in un campo di concentramento”. Invece no, i tedeschi hanno fatto un gran casino con i nostri ufficiali e se ne sono andati. Ma non eravamo più sicuri e, dopo aver fatto scattare l’allarme, gli ufficiali ci hanno detto di andare via, di scappare.

Erano i giorni dei primi rastrellamenti di soldati italiani. Chi non faceva in tempo a togliersi la divisa, ad andare al sud o a nascondersi in montagna, veniva disarmato e fatto salire su un treno per la Germania. Alla fine furono 600.000 i soldati italiani portati nei campi di concentramento. Io sono stato fortunato. Con i miei compagni, la notte del 9 settembre, mi sono rifugiato nel castello di Montiano. Da lì non sapevamo dove andare, c’erano i tedeschi in giro. Abbiamo chiesto aiuto alle ragazze che incontravamo nei vari paesini: ci dicevano se nella zona avremmo trovato o meno i nazisti. Il primo pensiero era lo stesso per tutti noi: salvarsi, tornare a casa. Abbiamo attraversato i campi per due giorni e percorso oltre cento chilometri. Il tempo era buono, la notte abbiamo dormito sotto i meleti carichi di frutta e la luce bianca della luna piena. Abbiamo mangiato le mele e l’uva che trovavamo in abbondanza e, dopo 48 ore, sono finalmente arrivato a casa.

In quei giorni iniziavano i lavori della linea Gotica: i tedeschi avevano bisogno di manodopera per costruire le fortificazioni difensive da Massa Carrara a Pesaro. E i militari come me, secondo l’ordine che aveva dato Mussolini da Salò, non dovevano più andare in Germania. Servivamo qui, per scavare la linea Gotica.

Appena rientrato a casa, a San Giovanni in Marignano, ero tornato a fare il contadino. Lavoravo per l’uomo più ricco della zona, un agrario che possedeva 50 poderi: si chiamava Battista Cerri ed era un fascista, aveva persino la stella al merito da cavaliere del lavoro. Sua moglie era la figlia di Tirotti, il proprietario di una ditta che lavorava per la Todt (l’impresa di costruzioni tedesca impegnata nella realizzazione della linea Gotica). Presto sarebbe toccato anche a me e Cerri mi consigliò di iniziare a lavorare per la Todt a Montecchio, così che – con la scusa che dovevo fare il contadino nei suoi poderi – mi avrebbe dato spesso il permesso per assentarmi.

Sono stato tra i tedeschi ma non ho fatto quasi nulla. Assieme agli altri operai dovevo scavare la terra con le vanghe e i badili per creare le fosse anticarro. Le dovevamo fare a zigzag in modo che il carrista, dopo che il carro armato si impantanava nel terreno, non riuscisse a capire dove fosse e non potesse uscire. Se ci riusciva, trovava le mine anticarro e antiuomo. E il filo spinato, che avrebbe potuto tagliare solo con le tronchesi. Io, con i miei compagni, con i partigiani, ero lì. Eravamo tutti d’accordo: dovevamo rallentare i lavori per agevolare il passaggio degli Alleati. Per sentire più vicina la pace e dimenticare l’odore della morte. Quando sono diventato capocantiere non ho gestito i turni delle presenze degli operai, ma piuttosto delle assenze. Dovevamo stare attenti a non dare troppo nell’occhio: i tedeschi non ci controllavano molto e proprio per questo dovevamo evitare di insospettirli.

Tutte le sere tornavo a dormire a casa a San Giovanni, facevo il pendolare. Tra aprile e maggio del 1944, quando il grano era già alto, i tedeschi hanno costruito nel mio paese un campo di aviazione. Per fare questo li ho visti appropriarsi di una parte del nostro terreno, ho visto i fascisti dormire nei nostri campi. A Montecchio il primo maggio del 1944 abbiamo organizzato uno sciopero. Eravamo circa un migliaio di operai.

I lavori della linea Gotica a Montecchio si sono interrotti poco dopo, quando a settembre gli Alleati sono riusciti a sfondarne il settore adriatico. Finalmente stava succedendo quello che aspettavamo, quello per cui avevamo sabotato i lavori e rischiato la vita. I tedeschi non sapevano cosa fare: la mattina del 3 settembre 1944 erano ancora a Gabicce Monte mentre nella notte gli Alleati erano arrivati al fiume Foglia, a Gradara e Tavullia. I nazisti erano nel panico e nel disordine, uno di loro in fuga da Gabicce sparò a un civile. Non sapeva che, sul versante adriatico, la sua guerra era finita. Gli Alleati si sono poi stabiliti al limite della pianura Padana e fino alla primavera del 1945 hanno interrotto la loro offensiva, a causa della difesa tedesca e delle forti piogge.

Dopo la liberazione, volevo vivere la ricostruzione del nostro paese. Volevo viverla sulla mia pelle. Mi sono iscritto al partito Comunista e per un anno ho fatto il sindacalista. Ma la paura non se n’era andata e avevamo tutti un gran terrore addosso: le mine. Le mine hanno ucciso il padre di tre ragazzi che conoscevo molto bene: erano stati fatti prigionieri e, finita la guerra, il papà era preoccupato. Pensava che tornando a casa avrebbero potuto trovare delle mine. Ha iniziato a sminare un campo ed è stato lui a morire.

Io volevo tornare a fare il contadino, ma il 1 gennaio del 1946 una cartolina dell’Aeronautica mi diceva che dovevo rimettermi la divisa. Non ero ancora stato congedato e per questo ho girato l’Italia e le sue caserme. A Bari, in realtà, dovevamo andare in caserma solo per dormire e mangiare. Mancava poco al referendum del 6 giugno e, con un compagno del Pci pugliese, ho fatto la campagna elettorale a favore della Repubblica. Ho votato la mia Repubblica a Bari. Era la nostra svolta, la nostra ricostruzione. Era la pace.

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I capolavori nascosti sotto il letto. Pasquale Rotondi, l’uomo che salvò la bellezza dai nazisti http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=416 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=416#comments Tue, 01 Apr 2014 16:26:02 +0000 1944-guerra-marche http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=416 rotondi

Pasquale Rotondi

“Mio padre non si considerava un eroe, diceva sempre che aveva fatto solo il suo lavoro di soprintendente”. È così che Giovanna Rotondi racconta la figura del padre Pasquale, salvatore del patrimonio artistico italiano e medaglia d’oro al valor civile. Rotondi ha salvato dalla guerra, dai bombardamenti e dalle razzie naziste oltre diecimila opere d’arte, tra cui capolavori di Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Piero della Francesca, Correggio, Caravaggio, Rubens, Tiepolo, Lorenzo Lotto, Perugino.

ASCOLTA L’AUDIO – “Mio padre, un vero uomo e non un eroe”

amor sacro e profano

“Amore sacro e amor profano” di Tiziano, uno dei capolavori salvati da Rotondi

Quando il 1 settembre 1939 Hitler invade la Polonia, l’allora ministro dell’educazione Giuseppe Bottai capisce che l’Italia, prima o poi, entrerà nel conflitto a fianco dell’alleato tedesco e che quindi il fronte potrebbe arrivare anche sul territorio nazionale. Si preoccupa subito di mettere in salvo l’immenso patrimonio artistico del Bel Paese, ideando un progetto segreto che chiamerà “operazione salvataggio”. Della missione top secret viene incaricato un giovane studioso di 31 anni, Pasquale Rotondi, appunto. Rotondi viene nominato soprintendente delle Marche e, un mese dopo lo scoppio della guerra, arriva alla stazione di Urbino, indicatagli come città aperta dove ricoverare tutte le opere che riuscirà a radunare. Rotondi si rende immediatamente conto che la cosa non è fattibile perché nei sotterranei di Urbino è nascosto un enorme arsenale dell’aeronautica, il che rende la città un potenziale bersaglio militare.

La rocca di Sassocorvaro

Il giovane soprintendente inizia a girare quindi il Montefeltro per individuare un luogo adatto ad ospitare i capolavori: lo trova nella rocca quattrocentesca di Sassocorvaro, a pochi chilometri da Urbino. Nonostante Roma gli abbia promesso uomini e mezzi, Rotondi è da solo: ha a disposizione l’autista urbinate Augusto Pretelli, quattro custodi e un paio di carabinieri, oltre a un vecchio camioncino che il Comune di Urbino concede controvoglia.

Tempesta_giorgione

La famosa “Tempesta” di Giorgione

Nel giugno del 1940 tutto è pronto: Rotondi comincia a far affluire a Sassocorvaro le opere conservate nei musei marchigiani. Il 10 di quel mese, Benito Mussolini annuncia l’entrata in guerra. Lo studioso quindi comincia ad allargare la rete dell’operazione: a Sassocorvaro arriva Rodolfo Pannucchini, soprintendente di Venezia, che rimane impressionato dall’operazione e dispone che le opere del capoluogo veneto vengano ricoverate nella rocca feltresca. Dai musei veneziani arrivano a Sassocorvaro, nell’ottobre del ’40, opere come “La Tempesta” di Giorgione e il tesoro della basilica di San Marco, compresa la preziosissima Pala d’oro. Le opere continuano ad affluire costantemente fino al 1942, fin quando la rocca di Sassocorvaro non è completamente piena di tesori. Rotondi deve cercare un altro ricovero.

Carpegna

Incontra perciò il principe di Carpegna, che gli mette a disposizione il proprio palazzo. Dal maggio 1943 iniziano ad arrivare grandi opere a Carpegna: i tre Caravaggio da San Luigi dei Francesi a Roma, Raffaello, Piero della Francesca e Bramante da Milano, i manoscritti e i cimeli di Rossini da Pesaro. Un patrimonio inestimabile. A quel punto, tra Sassocorvaro e Carpegna, Rotondi ha in custodia circa 10mila opere, di cui periodicamente controlla lo stato di conservazione. Durante uno di questi giri di ricognizione ha l’idea geniale di staccare dalle casse delle opere l’etichetta che ne descrive il contenuto. Un’accortezza banale che salverà le sorti dell’operazione.

L’8 settembre del 1943 il governo Badoglio annuncia l’armistizio. L’Italia, adesso, fa parte del fronte alleato. Per Rotondi questo è un problema perché i tedeschi occuperanno il territorio nazionale e i bombardamenti alleati si intensificheranno di conseguenza. In più, non ha più alcuna guida da Roma, detiene le opere senza titolo: è completamente solo.

A Bergamo i tedeschi fondano la divisione italiana del Kunstschutz, un reparto di “protezione dell’arte” che ha come reale scopo la razzia dei tesori artistici europei da trasferire nel futuro Furhermuseum di Linz e nella collezione privata del feldmaresciallo Hermann GoeringIl 20 ottobre del ’43 accade l’inevitabile: i tedeschi arrivano a Carpegna e occupano il palazzo del principe poiché pensano vi siano nascoste armi e munizioni. A questo punto, solo un incredibile colpo di fortuna può salvare l’operazione. Ed è proprio quello che accade: Rotondi si precipita al palazzo e chiede di parlare con il comandante della guarnigione, il quale vuole accertarsi del contenuto delle casse. I soldati ne aprono una: dentro ci sono i manoscritti del compositore pesarese Gioachino Rossini. Il comandante tedesco le definisce “cartacce”. Dell’esito dell’operazione si era interessato anche il patriarca di Venezia, il quale intercede presso i tedeschi per consentire a Rotondi di ritirare le casse di proprietà della Chiesa. È qui che l’idea di staccare le etichette ripaga il soprintendente: riesce infatti a sottrarre al controllo dei tedeschi anche le casse di proprietà dello Stato.

Giorgione sotto il letto

A questo punto Rotondi ha paura: si precipita a Sassocorvaro: teme che la rocca possa essere occupata dai tedeschi. Giunto alla rocca, carica sulla vecchia Balilla di Pretelli alcuni tra i capolavori più preziosi come “La tempesta” di Giorgione, il San Giorgio del Mantegna, quattro madonne del Bellini, una di Cosmè Tura e il ritratto Morosini del Tintoretto. Le metterà sotto il suo letto, in una Urbino occupata dalle SS. “Fu qui – racconta la figlia Giovanna, che poi diventerà a sua volta soprintendente di Genova e grande storica dell’arte – che io e mia sorella ci accorgemmo che c’era qualcosa di strano: ci dissero che la mamma era malata e perciò non si muoveva mai dalla camera da letto. Evidentemente stava benissimo ma stava facendo la guardia a quei preziosi quadri”.

Cosme-Tura-Madonna

La “Madonna col bambino” di Cosmè Tura

Qualche giorno dopo, le SS lasciano Urbino: Rotondi si attiva e svuota i ricoveri di Sassocorvaro e Carpegna, e trasferisce tutto nei sotterranei di palazzo Ducale. Nel frattempo, alcuni studiosi al corrente dell’operazione che hanno rifiutato di aderire alla repubblica di Salò, si organizzano per aiutare l’impresa di Rotondi: Carlo Giulio Argan, uno dei più grandi storici dell’arte italiani, si reca in Vaticano dove incontra il cardinal Montini, futuro Papa Paolo VI. Il vaticano accetta di custodire le opere entro le sue mura, forse l’unico posto sicuro rimasto in Italia.

Il 21 dicembre del 1943 una colonna armata arriva a Urbino, carica le opere e riparte alla volta di Roma, dove arriva due giorni dopo. L’operazione salvataggio è finita. Rotondi ha vinto. L’eroico soprintendente, finita la guerra, continuerà la propria carriera: sarà soprintendente a Genova e salverà altre opere d’arte dall’alluvione di Firenze nel 1963, verrà addirittura incaricato dal Vaticano di presiedere i lavori di restauro della cappella Sistina.

La storia dell’operazione salvataggio, però, viene dimenticata fino al 1984. È in quell’anno che il sindaco di Sassocorvaro viene a sapere della storia e va a Roma a incontrare il professor Rotondi che gli risponde: “Era ora che vi ricordaste di me”. Dal 1997 proprio nella cittadina della rocca si tiene ogni anno il premio intitolato alla memoria di Rotondi, scomparso nel 1991, e dedicato ai “salvatori dell’arte”.

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Odoardo Barulli, sfollato da Pesaro: “Rifugiati nelle grotte aspettando la liberazione” http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=68 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=68#comments Tue, 01 Apr 2014 10:30:52 +0000 Monica Generali http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=68 “Nella grotta eravamo in trenta, stretti uno a fianco all’altro. Per 4-5 giorni siamo rimasti lì, mangiavamo pane e acqua senza sapere cosa stava succedendo all’esterno, sentivamo solo il rumore degli scoppi”. A distanza di 70 anni Odoardo Barulli ricorda così i momenti interminabili trascorsi nel paesino di Talacchio, in attesa della liberazione di Pesaro avvenuta i primi giorni del settembre 1944 grazie all’intervento del II corpo polacco e della Brigata Maiella. “Ogni tanto uscivamo dal rifugio per vedere che cosa succedeva ma gli spari e i bombardamenti ci impedivano di stare fuori. Una volta è esplosa una mina vicinissimo alla nostra caverna e una scheggia è entrata dentro, rompendo una tazza”.

Il 2 settembre, dopo l’attacco decisivo contro i tedeschi, arrivò la liberazione totale della città e i pesaresi nascosti nei rifugi poterono finalmente rientrare nelle loro abitazioni. “Non sapevamo se e in che condizioni avremmo ritrovato la nostra casa. Noi siamo stati fortunati, aveva soltanto qualche vetro rotto”. Ma chi per primo rientrò in città dopo il passaggio del fronte descrive Pesaro deserta e sventrata, tutto era da ricostruire. Anche la vita di chi aveva lasciato la propria casa per sfollare in campagna e che improvvisamente si ritrovò a ricominciare da zero. “Molte case erano state demolite e le vie principali distrutte. Pesaro era irriconoscibile”.

Una volta tornati in città si pensava che il periodo più brutto fosse alle spalle ma la realtà fu che la cittadinanza dovette fare i conti con la ricostruzione e soprattutto con la fame. “Non c’era cibo e il grano non si poteva macinare. Mia madre lo faceva di nascosto, andava a prendere il grano ogni giorno dai parenti che ci avevano ospitato durante i bombardamenti, lo nascondeva in una pancera e quando arrivava a casa lo tritava con un macinino da caffè. Con la farina ci cucinava delle cresce e, con quelle cresce, siamo tornati lentamente alla normalità”.

Nei primi tre anni di guerra (dal giugno ‘40 a settembre ‘43) Pesaro non subì grandi sconvolgimenti, non c’erano stati bombardamenti e il conflitto si svolgeva lontano dalle sue mura. Il 13 settembre del 1943 le cose cambiarono: i tedeschi occuparono la città senza incontrare resistenza. Da quel momento, con la costruzione della Linea Gotica, la città divenne uno dei fulcri della guerra. Due mesi dopo cominciarono i primi bombardamenti e di conseguenza iniziò l’esodo di molti pesaresi verso le campagna, un nuovo fenomeno rurale che la provincia non aveva mai visto in precedenza.

Odoardo Barulli nel 1944

Quando Odoardo Barulli lasciò per la prima volta Pesaro, aveva 14 anni. “Ci siamo rifugiati a Talacchio, a casa di una cugina di mio padre. Me lo ricorderò sempre, era il giorno del mio compleanno e io, mia sorella e i miei genitori siamo partiti portando con noi solo beni di prima necessità e un credenza”, la stessa che oggi mostra orgoglioso nella sua cucina. “Pesaro era vuota, la maggior parte di noi aveva lasciato anche il lavoro e quindi per sopravvivere ci siamo dovuti arrangiare. In quel periodo l’unico modo per guadagnare qualche soldo era lavorare per i tedeschi e scavare le fosse anticarro che servivano per ostacolare l’arrivo dei canadesi – continua il suo racconto Odoardo mentre disegna minuziosamente la forma che la fossa doveva avere – ogni mattina prendevo la mia bicicletta e da Talacchio arrivavo fino a Montecchio, lavoravo tutto il giorno e poi la sera tornavo a casa”.

Le giornate degli sfollati in campagna erano scandite dal lavoro e dal rumore dei bombardamenti. Ma il 21 gennaio 1944 ci fu “la più grande esplosione mai sentita” che causò la distruzione della borgata di Montecchio dove morì un numero indefinito di persone “Da quel giorno – continua Odoardo – ho smesso di lavorare alla costruzione delle fosse anticarro”. Abbandonato il lavoro a Montecchio, si dedicò insieme ad altri sfollati alla costruzione dei rifugi sotterranei che avrebbero ospitato le loro famiglie durante l’ultima fase del fronte: l’entrata in città degli alleati che liberarono Pesaro il 2 settembre 1944.

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Ciro Renganeschi: “In una notte 53 chilometri a piedi per portare i piani dei tedeschi agli alleati” http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=43 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=43#comments Tue, 01 Apr 2014 09:03:23 +0000 Federica Salvati http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=43 Ciro ha 91anni e durante la seconda guerra mondiale ha combattuto, appena ventenne, con il Comitato di Liberazione di Pesaro. Ricorda i nomi dei suoi compagni, le date delle azioni, le città dove è passato. “Dopo l’armistizio dell’8 settembre noi giovani ci siamo arruolati spontaneamente nell’esercito voluto dal governo della Repubblica sociale guidato da Mussolini – racconta Ciro – su consiglio del Comitato. Così siamo riusciti a occupare posti chiave negli uffici per sabotare i piani dell’esercito e aiutare i nostri compagni partigiani”. E continua: “Sono stato io a portare, fino a Pergola, a piedi, i piani delle fortificazioni del Foglia e istruzioni sui lanci agli alleati”.

ASCOLTA L’AUDIO – da Pesaro a Pergola, 53 km in una notte

un atleta vero (ascolta l’audio) – dice orgogliosamente – insegnavo nuoto ed ero un campione di corsa. Sono stato anche giurato internazionale di scherma alle Olimpiadi di Roma. Bisognava farseli a piedi tutti quei chilometri…”. Ciro ha portato a termine la missione e ha aiutato i canadesi a passare sul Foglia con relativa sicurezza (i morti, in quell’occasione, furono soprattutto nei pressi di Montecchio dove i tedeschi, mentre gli alleati preparavano il passaggio, avevano istallato nuove difese non inserite nei piani consegnati da Ciro).

Lo spirito battagliero di Ciro è lo stesso che nel 1944. Venuto il momento di congedarci, saluta così:“ Mi raccomando, se avete dei nipotini o dei figli, portateli da me quest’estate che gli insegno a nuotare”.

Federica Salvati
Lucia Lamantea

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