La pena di morte: crimine di Stato?

dossier a cura di Laura Cuppini
Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino

   
   
   
 

Intervista a Riccardo Noury
(del Coordinamento pena di morte
di Amnesty International sezione italiana)
5 maggio 2000

   
  Secondo lei è realisticamente pensabile l’eliminazione della pena di morte nel mondo?

Se consideriamo la pena di morte da un punto di vista di analisi della situazione mondiale credo di poter dire che oggi il processo abolizionista è irreversibile e inarrestabile; se invece cerchiamo di porci dal punto di vista delle vittime, ci accorgiamo che questo processo è terribilmente lento e che questa lentezza costa vite umane. Molti paesi, circa la metà del totale mondiale, mantengono ancora la pena di morte, ma aumenta ogni anno di più il numero di coloro che decidono di eliminarla dalla propria legislazione. I paesi abolizionisti, ufficialmente o di fatto (cioè che prevedono l’uso della pena capitale ma non ne fanno uso da più di dieci anni), sono più di cento, i paesi mantenitori sono un’ottantina. In realtà quelli in cui c’è una vera "emergenza pena di morte" sono pochi: in primo luogo la Cina, che detiene il record di esecuzioni annue; a seguire Arabia Saudita, Congo, Iraq, Iran e Stati Uniti. Il comportamento di questi paesi stride con una tendenza sempre più netta di abolizione della pena capitale, che ormai è considerata non più una questione di amministrazione della giustizia interna agli Stati, ma un problema di violazione dei diritti umani di interesse internazionale.

Come giudica il comportamento dell’Onu relativamente a questo problema?

Nella Dichiarazione universale dei diritti umani veniva affermato il diritto alla vita, ma non c’era una condanna della pena di morte. L’Onu ha cercato di rimediare a questo errore, pur trovando grandi difficoltà. Negli ultimi tre anni la Commissione Onu per i diritti umani ha adottato risoluzioni in favore di una moratoria delle esecuzioni, ma la battaglia, impugnata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è fallita per ben due volte: nel 1994 e nel 1999. Questo esito è stato determinato da logiche di schieramento politico e da una serie di errori dei proponenti: errori di preparazione e di valutazione. Le battaglie al vertice, come quelle che coinvolgono i governi e i loro rappresentanti negli organismi internazionali possono essere vincenti solo se si lavora anche all’interno dei paesi, sui parlamenti, sui mezzi d’informazione e sull’opinione pubblica. Un messaggio molto importante contro la pena di morte si è avuto con l’istituzione dei due tribunali ad hoc, per la ex Jugoslavia e il Ruanda: entrambi, pur occupandosi di reati gravissimi come il genocidio o lo stupro di massa, non prevedono la pena capitale; lo stesso vale per la Corte penale internazionale, nata nel 1998.

Perché l’Unione europea, alla fine del ’99, ha deciso di non appoggiare la moratoria mondiale proposta dall’Onu?

Nell’Unione europea si sono create divisioni interne a causa degli emendamenti presentati da alcuni paesi, tra i quali Egitto e Singapore, che avrebbero di fatto riportato la pena di morte nell’ambito delle pene previste dai sistemi penali statali anziché in quello delle violazioni dei diritti umani fondamentali. Inoltre l’Unione europea ha dato prova di scarsa collegialità e trasparenza, perché tutte le riunioni su questo tema sono state tenute a porte chiuse, senza coinvolgere gli altri paesi esterni all’Unione che avevano sponsorizzato la risoluzione. Tutto questo non deve più accadere. La Commissione Onu per i diritti umani ha approvato pochi giorni fa, alla fine di aprile, la quarta risoluzione consecutiva in cui si chiede una moratoria della pena di morte in vista della sua abolizione. Ci auguriamo che l’Unione europea tenga fede alla sua vocazione abolizionista presentando e soprattutto difendendo questa risoluzione alla prossima Assemblea generale.

Quale ruolo può avere l’Italia nella lotta alla pena di morte?

L’Italia è il paese-guida della battaglia abolizionista, a partire dal ‘92, quando Adelaide Aglietta ha presentato al Parlamento europeo la risoluzione contro la pena di morte. E soprattutto a partire dal ’94, quando la pena di morte è stata definitivamente abolita dal nostro ordinamento. In questo processo hanno avuto un ruolo importante gli organismi non governativi, Amnesty in prima linea, che dagli anni ’80 hanno fatto pressione su opinione pubblica, mass media, governo e parlamento chiedendo un chiaro impegno contro la pena capitale.

Come giudica la condanna a morte del leader curdo Abdullah Ocalan da parte della Turchia?

L’esecuzione di Ocalan rappresenterebbe per la Turchia un pericoloso passo indietro, sia nelle sue relazioni internazionali sia nei rapporti interni con la numerosa minoranza curda. Basandosi su queste ragioni di opportunità, unite al sincero impegno abolizionista di alcuni esponenti politici turchi, è ragionevole pensare che la condanna a morte di Ocalan non sarà eseguita.

Crede che questa tendenza abolizionista, oltre che a livello politico, esista anche nella mentalità delle persone?

Nell’opinione pubblica, anche italiana, comincia a farsi strada una forte avversione nei confronti della pena capitale. Sempre più spesso gli stessi familiari delle vittime di omicidi si dichiarano contrari all’esecuzione dell’assassino. Questo è dovuto a una serie di fattori. Prima di tutto gli argomenti abolizionisti vengono proposti alla gente in modo sempre più massiccio da parte di tante associazioni che lottano contro la pena di morte, tra cui Amnesty International. E non sono certo argomenti privi di fondamento. Già il principio del "non uccidere", laico o religioso che sia, dovrebbe essere sufficiente a dire no alla pena di morte. Ma se non bastasse, abbiamo prove certe e inconfutabili del fatto che la pena di morte rappresenta una forma di tortura assolutamente inutile: non ha alcun effetto deterrente, anzi nei casi di violenza politica, può addirittura essere un incentivo a sacrificare la propria vita per la causa in cui si crede. E’ stato anche dimostrato come l’ergastolo abbia maggiore presa nella lotta contro il crimine: spaventa più la certezza che la durezza della pena. Tanto più uno Stato si mostra in grado di catturare e condannare un criminale, tanto più si abbassa il grado di criminalità. Anzi, oltre a non avere effetto deterrente, la pena di morte rende ancora più brutale la società, perché uno Stato che uccide fornisce ai propri cittadini una sorta di legittimazione all’omicidio. A New York i crimini sono diminuiti non perché c’è la pena di morte, ma perché ci sono più poliziotti per le strade. Inoltre alla pena capitale, che già di per sé è una violazione dei diritti umani, si associano altre violazioni: spesso vengono negati ai detenuti il diritto a un processo equo e il diritto di appello, senza contare le torture fisiche e psicologiche cui vengono sottoposti. La pena di morte è irreversibile e c’è sempre il rischio di giustiziare un innocente: solo negli Stati Uniti in questo secolo sono stati giustiziate almeno 25 persone riconosciute in seguito non colpevoli. Infine, ma non in ordine di importanza, la pena di morte è usata spesso come strumento di pulizia sociale nei confronti dei più deboli: poveri, minoranza religiose o etniche, oppositori politici, malati di mente. Non dimentichiamo che in alcuni Stati, compresi gli Usa, possono essere condannati a morte anche coloro che all’epoca del reato erano minorenni. Si sente dire spesso che l’opinione pubblica è favorevole alla pena di morte, ma i risultati dei sondaggi dipendono in gran parte da come vengono formulate le domande, dalla natura del committente e dal contesto emotivo in cui si svolgono. Comunque gli ultimi dati che arrivano dagli Usa dimostrano che la maggior parte dell’opinione pubblica non è favorevole alla pena di morte, nel momento in cui vengono presentate valide alternative, come l’ergastolo senza possibilità di rilascio anticipato.

Ci sono stati degli eventi specifici che hanno contribuito a questo orientamento abolizionista?

Ci sono stati dei casi clamorosi, come quelli di Joseph O’Dell* e di Ken Saro Wiwa** (vedi sotto, ndr), a cui ci auguriamo non si aggiunga quello di Abdullah Ocalan, In secondo luogo bisogna riconoscere che negli ultimi anni la Chiesa cattolica ha preso molto a cuore la battaglia contro la pena di morte: basta pensare ai ripetuti appelli del papa, anche in favore di casi individuali, e alla richiesta di un Giubileo senza esecuzioni. Un altro segnale forte è stato la progressiva crescita della democrazia nel mondo. Molti governi nati negli ultimi dieci anni, in particolare nell’Europa dell’Est e in Africa, hanno tra i primi loro atti abolito la pena di morte. Infine non bisogna dimenticare il lavoro fatto dalle organizzazioni internazionali.

Qual è il lavoro di Amnesty International contro la pena di morte?

La campagna di Amnesty contro la pena di morte è stata lanciata nel 1989. Da allora l’azione si svolge su tre livelli. Il primo è un livello pratico, quotidiano. Si tratta di scongiurare il maggior numero possibile di esecuzioni. Quando Amnesty viene a sapere che una condanna a morte sta per essere eseguita chiede ai suoi soci in tutto il mondo di inviare appelli alle autorità da cui dipende il via libera all’esecuzione. Anche se non sempre e non da tutti i paesi (pensiamo alla Cina, all’Iraq) si riesce a sapere per tempo di un’esecuzione, questa tecnica di intervento può rivelarsi estremamente decisiva per salvare vite umane. Il secondo livello è più a lungo termine e consiste nella pressione politica su parlamenti e governi dei singoli Paesi e sulle istituzioni internazionali perché vengano adottate leggi o altri atti normativi diretti ad abolire la pena di morte o quantomeno a ridurre il numero di reati punibili con la pena capitale. Il terzo livello, ancora più generale, consiste nella creazione di una cultura abolizionista, attraverso la divulgazione delle ragioni della nostra contrarietà alla pena di morte. Non basta infatti abolirla dalle leggi, occorre che essa sia eliminata anche nelle coscienze, che non venga più considerata come una possibile pena con cui sanzionare un delitto, ma come un’estrema forma di tortura e una violazione dei diritti umani fondamentali. Attraverso questa azione quotidiana vogliamo convincere l’opinione pubblica a pensare che una società che uccide è una brutta società, ma una società in cui lo Stato a sua volta uccide è una società ancora peggiore.


* Joseph O'Dell: condannato a morte e giustiziato nello Stato americano della Virginia nel '97. Accusato di aver ucciso una donna, ha sempre negato la sua colpevolezza. Fino alla fine gli è stata negata la prova del Dna.
Per ulteriori informazioni su Joseph O'Dell:
http://
www.nessunotocchicaino.it/italiano/odell/index.html (in inglese)
http://
www.cdt.ch/magazinearch/262707/magazine/scon.htm (in italiano)

** Ken Saro Wiwa: scrittore nigeriano appartenente alla minoranza Ogoni, ambientalista e difensore dei diritti delle minoranze. Nel 1995, quando in Nigeria c'era ancora il regime militare, fu giustiziato per impiccagione perchè si opponeva allo sfruttamento petrolifero della sua terra.
Per ulteriori informazioni su Ken Saro Wiwa:
http://www.unimondo.org/ForumPerLaPace/Appunti/1996/06_007.html (in italiano)
http://www.amnesty.it/news/1996/14402696.htm (in inglese)
http://www.galileonet.it/archivio/mag/971004/8_art.html (in italiano)
http://metro.peacelink.it/shellnig.html (in italiano)
http://www.scpol.unifi.it/partiti/nigeria.html (in inglese)
http://www.politicalresources.net/nigeria.htm (in inglese)
http://www.verdi.it/ingrandi/3/ken.htm (in italiano)
http://www.manitese.it/boycott/shell.htm (in italiano)
http://www.agora.stm.it/chiamalafrica/shellni2.htm (in italiano)

 
   
 



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