La pena di morte: crimine di Stato?

dossier a cura di Laura Cuppini
Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino

   
   
   
 

Cesare Beccaria
e la pena di morte in Italia

   
  "Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità". Con questa dichiarazione di intenti inizia un lungo capitolo che il giurista Cesare Beccaria inserì nel suo libro "Dei delitti e delle pene" (1764), con lo scopo di dimostrare la crudeltà e l’inutilità di questa punizione. I suoi argomenti sono tuttora di grande attualità, visto il gran numero di paesi che non hanno ratificato i trattati internazionali per l’abolizione della pena capitale, andando avanti a ritmo più o meno sostenuto nella strada senza ritorno delle esecuzioni. Ma soffermiamoci ancora un poco sulle argomentazioni di Beccaria. Secondo il giurista settecentesco la condanna al patibolo può essere ammessa solo in due casi: "quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia" e "quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti". La ragion di stato e la sicurezza sociale, insomma, sono più importanti della vita del singolo individuo.
Con una grande intuizione, tuttora di grandissima attualità e ben presente nelle riflessioni di giuristi e criminologi, Beccaria sostiene che non è l’intensità della pena a dissuadere le persone dal commettere delitti, bensì la sua durata nel tempo. "Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti". Un’argomentazione difficilmente confutabile, anche senza avere prove scientifiche (che comunque esistono, basti vedere alcuni rapporti dell’
Onu e di Amnesty International). "Moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo - continua il giurista con grande acume - chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno tra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia". Questo il punto di vista prettamente giuridico e, se vogliamo, utilitaristico. Ma il punto di vista etico non è poi così distante. La perdita, anche temporanea, della libertà è certamente l’inizio dei mali, ma può essere anche un modo per riflettere sulle proprie azioni e capire i propri sbagli. La morte immobilizza per sempre chi ha commesso un delitto nella condizione di "criminale", senza alcuna possibilità di riscatto sociale.
Se vedere un uomo condannato al patibolo dà solo a chi lo osserva un’impressione passeggera, e non una salutare e duratura paura delle leggi, allora questo sentimento, che Beccaria definisce "compassione mista a sdegno", dovrebbe essere rinnovato quanto più spesso possibile nei cittadini perché sia di qualche utilità: "se egli è importante che gli uomini veggano spesso il potere delle leggi - spiega il giurista - le pene di morte non debbono essere molto distanti tra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti". Ma mettere in mostra l’esecuzione di un uomo che utilità può avere? E’ un "esempio di atrocità", dice Beccaria, chiarendo l’argomentazione con una frase che potrebbe riassumere lo scopo di questo dossier: "parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio".

La pubblicazione del libro di Cesare Beccaria fu l’occasione per una riflessione sul sistema penale vigente allora in Italia (la pena di morte era stata introdotta per la prima volta intorno al 1050 e nel Settecento era ancora in vigore. Tra l’altro nei due secoli precedenti era stata estesa a una vastissima gamma di reati, anche minori, e veniva accompagnata da torture di ogni genere). L’idea del Beccaria di sostituire la pena capitale con la prigione a vita piacque in particolare al granduca di Toscana Leopoldo I, che nel 1786 abolì non solo la pena di morte ma anche la tortura (purtroppo la legge rimase in vigore solo 4 anni, a reintrodurre la pena capitale contro "ribelli e sollevatori" fu lo stesso Leopoldo I).

A metà Ottocento tutti gli stati della penisola davano lavoro ai boia, ma nel 1859 ci fu una nuova presa di posizione abolizionista, sempre in Toscana, da parte del governo provvisorio. Questo fu solo il primo passo: nel 1889 entrò in vigore il nuovo codice penale unificato (codice Zanardelli) che bandiva la pena capitale. Ma l’orrore del patibolo non era ancora del tutto sconfitto. Nel 1926 Benito Mussolini, avendo subito ripetuti attacchi alla propria vita, ripristinò la pena di morte per punire coloro che avessero attentato alla vita o alla libertà della famiglia reale o del capo del governo e per vari reati contro lo stato. Il nuovo codice penale del 1930 (codice Rocco, tuttora in vigore seppure modificato in diverse parti da interventi legislativi) accrebbe il numero dei reati contro lo stato punibili con la morte. Dopo la sconfitta del fascismo e lo sbarco degli alleati (1943), una delle prime decisioni del nuovo governo fu quella di abolire la pena di morte, tranne che per i reati fascisti e di collaborazione con i nazi-fascisti (decreto legge n. 224 del 10 agosto 1944). Nel 1945, dopo la sconfitta definitiva dei nazisti, un decreto luogotenenziale (datato 10 maggio) ammise nuovamente la pena di morte come misura temporanea ed eccezionale per gravi reati come partecipazione a banda armata, rapina con uso di violenza ed estorsione. Le ultime esecuzioni effettuate nel nostro paese risalgono proprio a quegli anni: tra il ‘45 e il ‘47 furono giustiziate 88 persone per il reato di collaborazione con i tedeschi durante la guerra.

La nostra Costituzione, entrata in vigore nel 1948, bandisce la pena di morte per tutti i reati, tranne quelli commessi in tempo di guerra. L’articolo 27 recita: "non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra".

Fino al 1994 il codice penale militare di guerra prevedeva la pena di morte per un’ampia gamma di reati e solo il Presidente della Repubblica poteva, in base all’art. 87 della Costituzione, concedere la grazia o commutare la sentenza.

Un progetto di legge per l'abolizione della pena di morte dal codice penale militare di guerra fu presentato ed approvato dalla Camera dei Deputati nel luglio 1993. Esso avrebbe dovuto essere discusso al Senato quando il Parlamento Italiano si sciolse per consentire nuove elezioni. Dopo le elezioni trenta senatori presentarono lo stesso testo che fu approvato dalle Commissioni Giustizia e Difesa del Senato il 14 settembre 1994. Il 5 ottobre 1994 la Camera dei Deputati approvò il progetto di legge che fu promulgato divenendo così legge a tutti gli effetti il 25 ottobre (n. 589). L’Italia divenne così, ed è tuttora, un paese abolizionista a tutti gli effetti.

Il 14 aprile 1999 la Camera dei Deputati ha approvato una proposta di modifica della Costituzione che abolisce il passo dell’articolo 27 in cui si ammette la pena di morte nei casi previsti dal codice militare di guerra. La proposta passerà al Senato e poi di nuovo a entrambi i rami del Parlamento per l’approvazione definitiva. Verrà così sanata la contraddizione tra l’articolo 27 e la legge 589 del ’94 che ha disposto l’abolizione della pena di morte dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra.

 
   
 



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