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Gli Stati Uniti guidano la corsa, l'Italia arranca
ma gli scettici temono il "digital divide"

La politica è nella Rete

New democracy o nuove diseguaglianze?

 

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Negli Stati Uniti è stato l'elemento rivoluzionario della campagna presidenziale del 2000. Hanno cominciato timidamente, i candidati americani, ad affacciarsi alle finestre del web. Piano piano, uno alla volta. Prima hanno messo i loro programmi su un sito, poi hanno mostrato le immagini delle loro vite, e via di seguito: incontri pubblici, privati, dichiarazioni d'intenti, insulti agli avversari, chat con gli elettori, teleconferenze on line, party virtuali. Fino a fare del web la nuova frontiera, infinita terra di conquista per nuovi duelli telematici a colpi di iniziative sorprendenti, e più o meno azzeccate: come la trovata di Bush di pubblicare on line, in nome della trasparenza, tutti i contributi alla sua campagna. O quella di McCain di lottare contro l'intero establishment repubblicano grazie ai suoi sostenitori e alle loro piccole donazioni via Internet. Tanto piccole da permettergli uno straordinario testa a testa con Bush, e una corsa che lo ha portato fino in fondo alle Primarie.

Il miracolo McCain però non si è compiuto, il Luke Skywalker delle presidenziali Usa non ce l'ha fatta contro le potenti lobby che fin dall'inizio hanno sostenuto il suo avversario. Internet non ce l'ha fatta contro i mezzi politici tradizionali, le donazioni miliardarie, gli "appoggi giusti". Rebecca Fairley Raney spiega che il valore della politica in Rete è ancora difficilmente apprezzabile in campagne così importanti come quelle presidenziali, per le quali è comunque necessaria una base, soprattutto economica, molto forte. Il valore del nuovo mezzo di propaganda si esprime invece magnificamente a livello locale, dalle elezioni dei consigli scolastici fino a quelle delle piccole province: è lì la vera rivoluzione digitale. Nella possibilità, per chi non potrebbe mai comprare spazi sui giornali nazionali o sulle emittenti televisive, di avvicinare i propri potenziali elettori a costi bassissimi.

Non tutti, però, condividono l'entusiasmo dei pionieri della politica via Internet, e non per tutti la Rete è sinonimo di democrazia. Tutt'altro. Il "digital divide" è la nuova preoccupazione di molti intellettuali, europei e non. Da due punti di vista: la distanza tra giovani "tecnologicamente avanzati" e anziani spiazzati di fronte a una società "interconnessa". E soprattutto, la distanza tra coloro che le nuove tecnologie se le possono permettere e quelli che rimangono ai margini, esclusi dalle nuove possibilità offerte dalla Rete. I francesi Ignacio Ramonet (giornalista direttore di Le Monde Diplomatique) e Alain Finkielfraut (filosofo), ad esempio, sono d'accordo nel sostenere che Internet segna la comparsa di una nuova aristocrazia, una sorta di élite, priva di radici, di eletti cosmopoliti, connessi fra di loro ma sconnessi dal resto del mondo.

A questo si aggiungono le preoccupazioni di enti come la Federal Election Commission in America, totalmente incapaci, allo stato dei fatti, di capire quanto lo spazio della politica on line possa rimanere incontrollato senza infrangere le regole necessarie allo svolgimento di una campagna elettorale corretta. Le domande sono molte: i siti personali o di alcune fondazioni che sostengono un determinato candidato devono contarsi come contributi elettorali? Se sì, come si fa a stabilirne il valore? E i link tra i siti dei candidati e siti di altro tipo devono essere considerati anch'essi dei contributi? Per ora la Commissione federale americana ha deciso di non attuare misure restrittive, almeno fino alla fine di questa tornata elettorale. Ma per il futuro non è escluso che anche il web sarà sottoposto a controlli analoghi a quelli che riguardano oggi radio e televisioni.

In totale disaccordo con questo tipo di istanze sono, sorprendentemente, i nostri politici "internettiani". Sia Roberto Cuillo, responsabile per la comunicazione politica dei Ds, che Alberto Di Luca, esperto di Forza Italia, e Rino Spampanato, promotore delle iniziative on line dei Radicali, insistono sullo spirito libero della Rete. Strano a dirsi, visto che i loro partiti, soprattutto i primi due, in tutta questa libertà sembrano non sapersi prientare. Così Internet diventa per il Polo un nuovo mezzo di diffusione dei tanto amati sondaggi, o del verbo del suo premier, mentre per i diesse resta né più né meno che un muro a forma di schermo su cui appiccicare piattaforme in stile sesantottino: "Care compagne e compagni - si legge nella presentazione della loro newsletter - Passaparola conterrà agili schede informative sulle nostre proposte...". Insomma, nient’altro che il contenuto dei vecchi ciclostilati anni '70 rivestito di una patina di modernità che sa di fittizio, e che non convince. Gli unici a puntare davvero su Internet come mezzo di comunicazione politica primario sono stati invece i Radicali, con campagne, progetti e proposte di legge precise (cyberdemocracy). I risultati, però, non sono stati dei dei migliori, come dimostrano le recenti sconfitte alle Regionali e ai Referendum. A riprova del fatto che in Italia Internet non è ancora in alcun modo una discriminante per il successo in politica. Anche se, visti gli esempi stranieri, e la rapidità con cui gli stessi partiti si stanno muovendo, c’è da giurarci: è solo questione di tempo.

(22 maggio 2000)

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