Buddhismo: un'arma non violenta
per il riscatto di un popolo

Il popolo tibetano soffre di libertà ormai da più di quarant'anni. Nel 1949 l'Armata cinese di Liberazione marciò in Tibet e iniziò l'occupazione. Il controllo cinese sul paese culminò nel 1959 con la "fuga in India verso l'esilio" del Dalai Lama, la guida politica e spirituale del paese, e dei 350 soldati e monaci buddhisti al suo seguito.

Il Dalai fu poi seguito da 80 mila tibetani che chiesero asilo in Nepal, India e Buthan. Attualmente i rifugiati, inclusi quelli nati in esilio, sono oltre 130 mila.Ma il popolo tibetano non si è mai arreso alla dominazione della Cina portando avanti una lotta "pacifica" che ha meritato l'ammirazione della comunità internazionale. "Il dialogo - ha dichiarato il Dalai Lama, durante la sua visita a Roma nell' agosto '99 - è il sentiero più pratico per portare ai risultati migliori", nonostante le distruzioni, i morti e le continue violazioni dei diritti umani denunciate ancora oggi dalle organizzazioni umanitarie nate in sostegno del Tibet.

Il rifiuto delle azioni di forza è infatti il primo insegnamento del Buddha, l'uomo illuminato che la maggiorparte dei tibetani venera come divinità. Così il buddhismo, la religione di stato in Tibet che il governo cinese ha cercato di assoggettarle al controllo, è diventato la migliore arma di difesa.

I rapporti tra autorità cinesi e governo tibetano in esilio, l'organo presieduto dallo stesso Dalai Lama che vive ora a Dharamsala in India, non sono ancora giunti a una vera apertura. "La mia speranza - ha agginuto il Dalai - è che la nuova dirigenza di Pechino abbia il coraggio di affrontare questa nuova sfida". Il Dalai Lama ha dichiarato che il governo in esilio sarà sciolto non appena il Tibet ritornerà nuovamente libero e che il potere temporale sarà poi trasferito a un presidente ad interim a cui sarà chiesto di organizzare elezioni democratiche.

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