La libertà
e le bombe

 





LE VOCI LIBERE
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In Yugoslavia "...i media hanno libertà assoluta...quel tipo di libertà, naturalmente, che è molto più che libertà...". Il presidente Yugoslavo Slobodan Miloshevich in un'intervista per "Politika" 31 Dicembre, 1999.

Alla vigilia dell'attacco della Nato contro la Serbia, quando divenne chiaro che un conflitto armato era inevitabile, i direttori delle principali testate giornalistiche del paese furono invitati ad un incontro con il Ministro dell'informazione. Era il 24 Marzo del 1999. In quell'incontro fu spiegato che "presto sarebbe stato dichiarato uno stato di guerra" e che in quelle particolari circostanze alcune libertà basilari, garantite dalla costituzione, sarebbero stae conseguentemente limitate. Fu stabilito, infatti, che la censura sarebbe stata applicata effettivamente, da quel momento; che la vita politica interna sarebbe stata sospesa e che i media erano diffidati dal riportare qualsiasi tipo di informazione relativa alla vita politica del paese. Fu perfino ordinato che tutte le pubblicazione fossero portate dal Ministro per una ispezione preventiva ed un'approvazione.

Così, per uno strano paradosso, i bombardamenti della forza multinazionale hanno segnato l'inizio del periodo più difficile per la libertà di espressione nella ex Yugoslavia. Entrando
in guerra con la Nato, infatti, il regime di Slobodan Miloshevich ha avuto la possibilità di esercitare un'azione di repressione su tutte le aree della vita pubblica, senza doversi preoccupare di mostrare alcuna considerazione per la comunità internazionale o per le associazioni che tutelano la libertà di espressione.

Il periodo immediatamente precedente l'attacco è stato caratterizzato da un aumento del livello di repressione sperimentato nel 1998. Il repressivo Public Information Act, approvato nell'Ottobre del 98, è stato applicato pi- spesso e più rigidamente, soprattutto contro i media kosovari e albanesi. Malgrado una repressione così intensa, però, la maggioranza dei giornali indipendenti era riuscita a sopravvivere, anche se l'intensificarsi dell'azione repressiva era uno degli indicatori più affidabili del fatto che il regime di Milosevich aveva scelto il conflitto aperto con la comunità internazionale e con la Nato e stava preparando la Serbia per la guerra che era ormai inevitabile.

Con l'inizio dei bombardamenti i media indipendenti hanno perso il loro principale supporto, quello della comunità internazionale, che sarebbe stato addirittura controproducente, date le circostanze. Le voci all'opposizione, infatti, erano messe a tacere dal fatto che la Nato stava bombardando la Yugoslavia nonché‚ dalla propaganda ben riuscita di Miloshevich. Anche il sostegno del pubblico per le testate era venuto meno, visto che tutta l'attenzione della gente era focalizzata sui bombardamenti e abbandonati a sé stessi i media indipendenti non avevano altra scelta che cercare strategie differenti nel tentativo di sopravvivere. La chiusura di Radio B92, il media indipendente più influente di Belgrado, insieme all'arresto di Veran Matic, editore capo dell'emittente, poche ore dopo l'annuncio dell'attacco da parte di Havier Solanas, il segretario generale della Nato, nella notte tra il 23 e il 24 marzo, fu usato come un test per l'opinione pubblica. Chiudendo Radio B92 ed arrestandone l'editore capo, senza alcuna base giuridica, il regime voleva inviare un chiaro messaggio ai media indipendenti. Non c'era speranza per le testate più piccole, di sopravvivere senza "cooperare".

Durante i bombardamenti, molti giornalisti che lavoravano per testate indipendenti sono stati arrestati. Il Decreto del Governo federale riguardante l'applicazione della legge sulle procedure criminali durante lo stato di guerra, aveva reso possibile tenere in custodia le persone sospettate anche per 30 giorni. Altro metodo di repressione era l'arruolamento dei giornalisti indipendenti. Dato che la Yugoslavia non ha un esercito ufficiale, tutti gli individui di sesso maschile possono essere reclutati, se richiesto dall'autorità militare. Difficile dimostrare che la chiamata alle armi di un individuo piuttosto che di un altro abbia motivi politici, ma un fatto certo è che approssimativamente il 30% dei giornalisti che lavoravano per media indipendenti sono stati chiamati a servire la patria.

La campagna della Nato è finita a metà giugno 1999 e qualche settimana dopo il regime ha revocato lo stato di guerra, insieme con molti dei suoi regolamenti repressivi. Tutte le stazioni, sia quelle che erano state chiuse, sia quelle che avevano deciso di interrompere le trasmissioni, e quelle che erano scese a compromessi con il regime, hanno ripreso la loro programmazione solita poco dopo.

Purtroppo tutti questi eventi positivi sono il risultato di una profonda insoddisfazione del pubblico, dell'indebolimento della posizione di Miloshevich e della rinascita dell'opposizione, più che il risultato di una decisione determinata da fattori politici rilevanti per restaurare la libertà di parola in Serbia.

(maggio 2000)

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