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Ilvo Diamanti sulla crisi: “Il lavoro non è finito, si è trasformato”

di    -    Pubblicato il 8/02/2013                 
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Ilvo Diamanti, professore di Scienze Politiche all’Università di Urbino

URBINO – Siamo un paese in declino. Gli italiani vivono l’angoscia di una crisi che sembra senza sbocchi e senza fine. Per consumi, benessere e tenore di vita abbiamo fatto un balzo indietro di qualche decennio. Molti hanno perso il lavoro; i giovani che lo cercano lo considerano quasi un miraggio o una chimera. Le famiglie hanno drasticamente tagliato le spese. Dominano l’incertezza e la paura. Per tirare avanti si intaccano i risparmi o si fanno debiti. I più disperati vendono i gioielli di famiglia nei compro oro che proliferano come funghi.

In questo primo numero del 2013 Il Ducato ha voluto analizzare gli effetti della crisi sul nostro territorio: abbiamo raccolto dati, ascoltato la gente, intervistato gli imprenditori, siamo andati alla ricerca di chi ha trovato la strada giusta per capire se e come possiamo avere una speranza, abbiamo intervistato studiosi e analisti dei fenomeni economici e sociali.

Per avere un orientamento su come e dove indirizzare la nostra indagine abbiamo sentito prima di tutto un esperto che vive nel nostro territorio e da anni studia queste dinamiche assieme a un gruppo di eccellenti ricercatori, Ilvo Diamanti, professore ordinario di Scienze Politiche all’Università di Urbino ed editorialista di Repubblica. Il prof. Diamanti proprio in questi giorni ha presentato a Torino all’iniziativa ”La Repubblica delle idee” la 37sima indagine dell’Osservatorio Demos-Coop sul Capitale sociale degli italiani che ha un titolo molto emblematico: ”Ma il lavoro ha un futuro?”

Diamanti comincia il suo intervento citando un economista statunitense, Jeremy Rifkin che già nel 1995, in un saggio diventato un best seller internazionale, preconizzava il trionfo delle macchine sul lavoro umano e indicava possibili soluzioni per ridurre l’impatto sociale e addirittura come trarre vantaggio da questa trasformazione.

Il lavoro – ci ha detto il prof. Diamanti – non è finito, ma è cambiato profondamente sulla spinta della crisi, oltre che delle trasformazioni economiche e tecnologiche. Anche gli orientamenti verso il lavoro, in Italia, sono cambiati, negli ultimi anni. In modo rapido e non lineare».

In che modo la crisi ha cambiato la concezione del lavoro?
«Il “lavoro in proprio” e la “libera professione” non costituiscono più un mito condiviso, come negli ultimi vent’anni. Nel 2004 – considerati insieme – costituivano il primo riferimento per oltre metà degli italiani (53%). Oggi per meno del 40%. Per contro, ha ripreso a farsi sentire il richiamo del lavoro dipendente nella piccola e, ancor più, della grande impresa. Ma, soprattutto, il “pubblico impiego” oggi è (ri)diventato il lavoro preferito dalla maggioranza degli italiani: il 31%, 5 punti più del 2004».

Quali sono le ragioni di questo cambiamento?
«Le spiegazioni sono diverse. La più importante, forse, è l’insicurezza. Tra coloro che, nell’ultimo anno, affermano di aver lavorato, la quota di quanti dichiarano un impiego “sicuro” è il 42%. La stessa misura di coloro che lo definiscono “temporaneo” o “precario”. Tutti gli altri – il 16% – lo considerano, invece, “flessibile”. La flessibilità, nella percezione sociale, non richiama debolezza. Indica, piuttosto, un’attività, meno strutturata e regolata. La “precarietà”, invece, è “stabile temporaneità”. Del lavoro e del reddito. La crescita della precarietà ha, dunque, rafforzato l’importanza del “posto fisso”. Pubblico o privato, non importa. Il 41% degli intervistati ambisce a un “posto sicuro”. Che garantisca un reddito “sicuro”, prima ancora che elevato. Anche la ricerca di un lavoro gratificante, che dia “soddisfazione” perde relativamente di peso».

Qual è stato l’impatto della crisi sulle famiglie?
«Il 20% degli intervistati sostiene che nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha perso il lavoro; il 18% che qualcuno è stato messo in mobilità o in Cassa integrazione; il 35% che qualcuno ha cercato un’occupazione – ma senza esito. Il 10%, infine, dichiara di avere un contratto di lavoro in scadenza. La paura di rimanere disoccupati appare, dunque, in grande aumento. Coinvolge il 56% degli italiani. È cresciuta di 26 punti percentuali in circa cinque anni. Nello stesso periodo, la paura di perdere la pensione è salita di quasi 20 punti: dal 36 al 54%. Così, sembra essersi bloccato il mito dell’ascensore sociale. Che aveva mobilitato gran parte della società, facendola sentire “ceto medio”. Nel 2006 era il 60%. Oggi il 43%. Mentre la componente di chi si sente ceto “medio-basso” oppure “basso” è divenuta maggioranza: dal 28% al 51%».

Chi è che si sente più minacciato?
«Le componenti sociali maggiormente investite dalle paure per il lavoro sono, ovviamente, le più vulnerabili. Gli anziani, con minore livello di istruzione. Le donne. Considerate ancora discriminate, circa le possibilità di carriera, dal 58% degli intervistati. Tuttavia, secondo il sondaggio di Demos-Coop, le preoccupazioni maggiori riguardano il futuro dei giovani e dei figli (62%; 16 punti in più in circa 5 anni). Il 64% degli italiani li invita ad andarsene all’estero. Perché questo non è un Paese per giovani».

Ciò ha cambiato anche l’atteggiamento dei cittadini nei confronti delle istituzioni?
«La crisi del lavoro, come fonte di organizzazione e di riconoscimento sociale, sta erodendo la fiducia nel futuro. Ma anche nelle istituzioni e nei soggetti di rappresentanza. Non solo nei partiti e nello Stato. Anche le associazioni economiche. Così, non resta che la famiglia a difendere i lavoratori. L’ultima cittadella assediata. Dal 2004 ad oggi il dato relativo al suo peso, nella percezione degli italiani, è triplicato: dal 10% al 30%».

La crisi ha creato fratture sociali?
«Nel tessuto sociale e fra gli stessi lavoratori, si aprono significative divisioni. Una fra tutte: verso l’impiego pubblico. Il 60% degli italiani ritiene che i “dipendenti pubblici godano di privilegi insostenibili”. In altri termini, mentre cresce l’interesse per il posto pubblico, il pubblico impiego è visto con diffidenza. Non è l’unica contraddizione “cognitiva”. Fra gli italiani è calato l’interesse a intraprendere un lavoro autonomo e professionale ed è in aumento la domanda di occupazione nelle grandi imprese. Eppure, la fiducia nelle piccole aziende appare molto più elevata che verso le grandi imprese. Anche l’appeal della Fiat, oggi, è limitato».

Gli italiani come vedono il futuro?
«Gli italiani che denunciano incertezza verso il futuro sono circa il 60%: 15 punti in più rispetto al 2006. Prima della crisi. L’insicurezza tocca, ovviamente, gli indici più elevati fra le componenti più “precarie” della società. Insicure per definizione. Perché la “precarietà” nasconde il futuro. Così si spiega il senso di disorientamento diffuso. Riflette perdita di senso e di orizzonte. E di “posizione”. Perché il lavoro continua ad essere il riferimento più importante della società. Non a caso, se si guarda la classifica delle professioni in base al prestigio sociale, si osserva come, al di là del punteggio, “tutte” le professioni godano di considerazione. Ad eccezione dei “politici”, molto al di sotto della sufficienza, gran parte dei “lavori” – dagli imprenditori agli operai, dai medici agli insegnanti – superano il 7,5. E negli ultimi anni, “guadagnano”, ulteriormente, stima sociale. Un altro segno dell’importanza del lavoro, tanto più in tempi di crisi. Quando incombe la disoccupazione e la precarietà diventa “normale”. Perché lavorare non dà solo reddito. Dà dignità. Riconoscimento. Identità. Lavorare stanca. Non lavorare: umilia».

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