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Paolo Gambescia ricorda Silvano Rizza: “Al giornalista servono piedi, cuore e cervello”

di    -    Pubblicato il 5/04/2014                 
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URBINO – “Il giornalista nel suo mestiere deve metterci i piedi, il cuore e il cervello:  i piedi perché deve sempre sapere di cosa sta parlando, il cuore perché se non ci metti passione questo lavoro non esiste e il cervello per filtrare il tutto”. A dirlo è Paolo Gambescia, ex direttore dell’Unità, del Mattino e del Messaggero, in una conferenza nell’aula sospesa della facoltà di Sociologia della Carlo Bo. L’incontro si inserisce all’interno di una giornata organizzata dalla scuola di Giornalismo di Urbino nel ricordo del suo fondatore Silvano Rizza e dell’ex allievo Luca Dello Iacovo.

Gambescia ha spiegato il ruolo del giornalista e i principi fondatori della professione, facendo costantemente riferimento a Rizza, “a quello che Silvano avrebbe detto qui oggi”. Rizza avrebbe detto che, indipendentemente dal cambiamento dei mezzi e degli strumenti, il giornalista non dovrebbe mai perdere il suo ruolo di mediatore: “Noi possiamo avere qualsiasi sollecitazione possibile, ma se non abbiamo la possibilità di controllarle e interveniamo solo dando un parere facciamo un’opera superficiale e di mistificazione”. Il riferimento è tutto rivolto al “problema di fondo del giornalismo odierno: la velocità. Perché se siamo scavalcati da un mare di informazioni non possiamo rispettare i passaggi necessari per fare bene il nostro mestiere”.

Nella frenesia dell’informazione online e della rete, i piedi, il cuore e il cervello bastano? E soprattutto, i giornalisti continuano a usarli? La ricetta di Gambescia è semplice e – almeno in apparenza – in contrasto con quanto affermato da Massimo Russo, direttore di Wired Italia, che era intervenuto poco prima. Se secondo Russo dobbiamo avere una visione orizzontale del mondo, Gambescia ribatte “che siamo noi a voler etichettare il mondo come piatto, ma che in realtà non lo è. Il giornalismo non deve perdere la qualità e confonderla con la quantità, deve mantenere le gerarchie, piramidalizzarsi e preoccuparsi di formare eccellenze. I giornali dovrebbero avere meno pagine, i telegiornali meno servizi, ma il tutto dovrebbe essere più denso e filtrato da professionalità”.

Claudio Rizza, Paolo Gambescia, Lella Mazzoli e Mario Tedeschini Lalli nell'Aula sospesa della Carlo Bo

Claudio Rizza, Paolo Gambescia, Lella Mazzoli e Mario Tedeschini Lalli nell’Aula sospesa della Carlo Bo

Dopo queste parole il ricordo di Silvano Rizza diventa sempre più vivo e pregnante. Gambescia racconta di quando era redattore al Messaggero, dove l’allora condirettore Rizza aveva imposto ai giornalisti di consultare il dizionario dei sinonimi e dei contrari. “Ci aveva dato anche un piccolo quaderno azzurro – spiega Gambescia – dove c’erano scritte regole grammaticali, di punteggiatura e molte altre. E anche oggi dovrebbe essere così. Gli allievi che dicono che si può scrivere tutto come fosse un sms o un twitter sono solo asini“. Claudio Rizza, figlio di Silvano e relatore alla conferenza assieme a Gambescia, Lella Mazzoli e Mario Tedeschini Lalli, lo corregge: “Non si chiamano twitter, ma tweet”. Gambescia ride e prosegue spedito tra le fila del suo discorso, dei ricordi “di quasi 50 anni di professione”.

Prima di arrivare al Messaggero Gambescia è stato redattore anche dell’Unità: “Quell’esperienza per me è stata una scuola molto rigida. Il primo servizio mi fu affidato il  3 maggio 1965: dovevo raccontare i Borghetti, la zona lungo il Tevere e l’Aniene dove vivevano alcune famiglie che si volevano costruire una strada da sole, perché il Comune non se ne occupava. Sono stato lì dalla mattina al pomeriggio, ho riempito tre quaderni di appunti mentre il fotografo se ne era andato già da molte ore. Poi sono tornato in redazione e mi hanno detto di scrivere una didascalia. Io quella didascalia l’ho scritta 12 volte”. Un aneddoto che Gambescia riporta per spiegare come, anni fa, i giornalisti vivessero davvero una scalata professionale e formativa: “Nelle redazioni esisteva la figura del trombettiere, colui che era arrivato da poco e per questo non doveva assolutamente scrivere”. Quando la velocità del giornalista non si misurava con quella di Internet ma solo con i gettoni delle cabine telefoniche: “Arrivati sul posto dovevamo subito individuare i telefoni, dovevamo essere i primi a chiamare in redazione e dettare le informazioni”, e secondo Gambescia si faceva un giornalismo migliore.

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