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Al festival della cultura si accendono le radio: pubbliche e private

di    -    Pubblicato il 25/04/2015                 
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Festival giornalismo culturale 2015

“Dov’è la cultura oggi? La Radio”, conferenza della 3a edizione del festival del giornalismo culturale

FANO – In radio la cultura si fa. Di questo sono convinti tutti i partecipanti al terzo panel del Festival del Giornalismo Culturale di Urbino e Fano “Dov’è la cultura oggi? La Radio”. Molte voci però sono del servizio pubblico, e la sostenibilità del sistema è presto divenuto tema di dibattito. Ma riconosciuti gli indubbi meriti del mezzo – un medium antico ma moderno, leggero capace di arrivare ovunque anche dove le immagini non possono – rappresenta anche una cartina di tornasole della libertà di espressione di un paese.

‘In onda’ abbiamo Andrea Borgnino, Radio Rai, Daria Corrias, Rai Radio3 (intervistata dal Ducato), Pietro Del Soldà, Rai Radio3, Marina Lalovic, giornalista, Federica Manzitti, Radio Città Futura, Enrico Menduni, Università di Roma Tre, Lorenzo Pavolini, Rai Radio3, Igiaba Scego, scrittrice e Simone Spetia, Radio 24 (intervistato dal Ducato). A coordinare Giorgio Zanchini, giornalista Rai conduce Radio anch’io.

Crisi delle radio pubbliche.  In molti paesi europei il sistema della radio pubblica è in crisi. Ne parla Andrea Borgnino, Radio Rai, raccontando in particolare il caso di Radio France: 28 giorni di sciopero. Dopo quattro settimane la protesta si è estesa all’80% dell’organico. Radio France non ha dato notizie per quasi un mese, ha trasmesso solo musica 24 ore su 24, non ha ceduto neanche alle elezioni dei dipartimenti e alla caduta dell’aereo della Germanwings. Il governo ha dovuto cedere. Per Borgnino un modello di radio esclusivamente finanziato dallo stato (Radio France trasmette solo mezz’ora di pubblicità al giorno e di tipo istituzionale) non è più sostenibile. Un aumento degli spazi pubblicitari come è stato ipotizzato, per molti non è la soluzione anzi potrebbe causare la fine del mercato. Situazioni simili in Spagna, Portogallo e non resta fuori neppure l’Italia. La radio pubblica è in crisi. “Un modello di questo tipo – conclude Borgnino – è sostenibile solo in Inghilterra, dove se denunci chi non paga il canone paghi la metà”.

Elementi positivi però ci sono: “La radio è l’unico medium dove la vendita pubblicitaria è cresciuta: del 5% in Italia, addirittura del 7,2% in Inghilterra – continua Borgnini – gli investimenti positivi oggi riguardano solo la radio: in tv i prezzi sono in picchiata, così come per la carta stampata. Per i siti di informazione la situazione non è diversa. Questo giocattolo antico continua a piacere al pubblico”.

A fare “contestazione morbida” è Simone Spetia, giornalista di Radio24, che cita la professoressa di Oxford Mariana Mazzuccato: “Solo lo Stato può mettere in campo capitali pazienti perché vengano fatte innovazioni” al posto delle aziende: il dibattito rimane aperto. Ma dalla sua Spetia dice che anche le radio private, come Radio24, possono fare cultura. Lui stesso nel 2011 è stato protagonista di Gazzettino del Risorgimento, trasmissione creata per i 150 anni di Unità d’Italia. La storia da Garibaldi alla Breccia di Porta Pia versione giornale radio. Un programma possibile anche perché oggi sono cambiati i mezzi di riproduzione: il materiale non è stato raccolto da quattro ricercatori chiusi in biblioteca, ma dagli archivi di Google Plus. “Ormai si fanno servizi con gli smartphone – continua Spetia – in Rai si muovono in tre per fare qualsiasi cosa”.

A difendere la produzione pubblica ci pensa in primis Giorgio Zanchini, e gli altri interessati senza però negare le difficoltà

Mentre Pavolini si sfoga accusando la Siae, organo tutto italiano, di fagocitare molti contributi che andrebbero spesi per altro.

A metà strada tra pubblico e privato c’è Radio Città Futura rappresentata da Federica Manzitti. Una radio che non è pubblica ma prende anche finanziamenti dallo stato. “Vogliamo fare cultura in modo che non sia solo una chiacchierata telefonica che non restituisce fisicità e pensiero”, dice Manzitti, che parla con orgoglio di una stazione che ha sposato a pieno le potenzialità di linguaggi diversi da quello radiofonico: ha un canale digitale terrestre, YouTube e sito che riproducono le puntate anche in video, Twitter e Instagram poi sfruttano lo scritto e le immagini.

A portare lo “sguardo da dentro a fuori” come dice Zanchini, ci pensano due giornaliste multiculturali. Sono Marina Lalovic, serba, nata nell’ex Jugoslavia e trasferitasi in Italia nel 2000. Lei ha vissuto sulla sua pelle il monopolio di Stato, sotto il regime di Tito, nell’informazione e nella vita della gente: “Quando c’è una guerra non ci sono sfumature, la prima cosa che si fa è interrompere le comunicazioni – dice la Lalovic – la radio si poneva come contraddizione in termini: mentre facevamo la guerra l’unica finestra sul mondo erano le radio indipendenti, come b92, che esiste ancora oggi: una radio che in quel momento aveva il valore di un social media”.

I conduttori alzavano solo la cornetta, per dar voce alle persone, “affamate e vogliose di stare insieme”. E anche una Lalovic 16enne contribuiva chiamando e commentando, oggi è convinta di una cosa: “Se in Italia si ascoltasse la radio per un mese e poi per il mese successivo solo la televisione, sembrerebbe di stare in due paesi diversi”.

L’altra voce da fuori è Igiaba Scego scrittrice italosomala, che inizia ricordando il suo paese di origine, dove fino al 1974 le lingue per i documenti scritti erano solo l’italiano e l’arabo. “La radio dava la conoscenza anche quando mancava scolarizzazione”, dice pensando alla nonna analfabeta, “una delle persone più colte mai conosciute”. La Scego sposta il discorso su un problema che oggi non riguarda solo radio, ma tutti i media: “Nonostante l’Italia sia un paese multiculturale non accetta gli autori e le voci di autori stranieri”.

Come i figli di migranti, scrittori in lingua italiana definiti non come letteratura italiana, ma in base al loro paese di provenienza. La Scego cita Tutti stranieri un’esperienza multietnica: per un giorno i programmi di Radio3 li hanno condotti persone di origini non italiane: “Un esempio di cosa può essere la radio mischiando le persone”.

“Non è solo parlare di stranieri – aggiunge la Scego – ma creare una radio meticcia, cosa che in Italia manca”. Il rischio è però che rimanga un episodio isolato, concentrato in una sola giornata, un modo per sconfiggere gli sbagli dei media: come nella narrazione delle tragedie in mare non bastano e non reggono quanto accade. “Nella radio non si vede il colore della pelle. La radio unisce quello che l’immagine divide” conclude Menduni.

Foto di Libero Red Dolce

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