il Ducato » bbc http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » bbc http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Gif, video ‘muti’ e poco testo: così i giornali conquistano gli adolescenti http://ifg.uniurb.it/2015/04/18/ducato-online/gif-video-muti-e-poco-testo-cosi-i-giornali-conquistano-gli-adolescenti/71071/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/18/ducato-online/gif-video-muti-e-poco-testo-cosi-i-giornali-conquistano-gli-adolescenti/71071/#comments Sat, 18 Apr 2015 18:32:38 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=71071 PERUGIA – Per conquistare i millennial non basta andarli a cercare su social network e app di messaggistica. Alcuni grandi gruppi editoriali – Channel 4 nel Regno Unito e la Repubblica in Italia – stanno sviluppando piattaforme dedicate ai lettori più giovani nati intorno all’anno 2000. La televisione britannica ha creato 4newswallla homepage, pensata per essere fruita da mobile, è totalmente priva di testo: composta da Gif animate nelle quali le parole del titolo si succedono una dopo l’altra. Cliccando sulla Gif si accede a una breve notizia, che spiega il fatto in poco più di dieci righe. I temi coperti sono i più disparati: esteri, politica, alimentazione, curiosità.

Chris Hamiltonil direttore social media della Bbc News , tra gli speaker al Festival internazionale del giornalismo di Perugia per il dibattito “Mobile e Millennial: Chat Apps, Emoji, nuovi format video”, ha parlato anche di Instafax: l’esperimento short video della Bbc. L’idea è quella di produrre video-notizie che possono essere fruite anche in momenti e luoghi ufficialmente “vietati” come le lezioni scolastiche. Cioè senza audio. “È stata una buona idea perché non sempre gli utenti possono ascoltare l’audio – ha commentato – quindi è il testo a illustrare il contesto delle immagini. Non ero convinto della riuscita di questo progetto, al contrario ha riscosso un grande successo”. Attualmente la BBC News produce in media 20 video di questo genere ogni giorno.

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Uno dei post di 3nz.it

A raccontare l’esperimento italiano c’era Alessio Balbi, coordinatore dell’are social del gruppo Espresso. “Nel 2013 un articolo sull’incidente mortale di Paul Walker – l’attore protagonista del film Fast and Furious ndr – condiviso sui social ha generato, da solo, più traffico rispetto a tutta la home page del sito Repubblica.it, abbiamo capito che avremmo dovuto sperimentare nuovi linguaggi. Così abbiamo pensato un nuovo sito web, destinato al mondo virale, trasmesso principalmente tramite Facebook”.

3ndz è nato così: il sito che contiene notizie ed elementi virali. Il 90% dei contenuti è video, il resto è composto da quiz, notizie di costume e classifiche. La piattaforma è nata il primo ottobre del 2014 e su Facebook è seguito da 80mila utenti. Repubblica.it è anche l’unico sito di informazione in Italia, ad ora, a inviare le notizie via Whatsapp. I lettori possono iscriversi scegliendo quali tipi di notizie vogliono ricevere, ma si deve memorizzare il numero della redazione altrimenti la notizia finisce nello spam.

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Il disegno di Chérif Kouachi pubblicato su L’Obs

Il settimanale francese L’Obs ha puntato invece sulle curiosità, così sia la redazione web che cartacea collaborano per trovare storie esclusive. “Su Facebook abbiamo 2,4 milioni di followers, ha Aurelien Viers, direttore digital news – il segreto per avere successo sta in un buon titolo e in una buona preview”. I social network sono importanti, ma non sono tutto. Ciò che più conta è l’integrazione tra cartaceo, sito, social e mobile. Una delle storie più condivise è quella di Chérif Kouachi che tre giorni prima di compiere l’attentato a Charlie Hebdo con suo fratello, ha fatto un viaggio in BlaBlaCar da Remis a Parigi. Le Plusla sezione video del giornale, al momento formata da otto redattori, già conta due milioni di visitatori al giorno.

Nonostante le diverse scelte editoriali e gli esperimenti digitali, tutti i giornalisti presenti al panel hanno infine sostenuto la stessa tesi: “La tecnologia non fa il contenuto editoriale. Se hai una buona storia, hai il 90% del lavoro”.

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Moderare i commenti: un duro lavoro, ma qualche giornalista deve pur farlo http://ifg.uniurb.it/2015/04/18/ducato-online/moderare-i-commenti-un-duro-lavoro-ma-qualche-giornalista-deve-pur-farlo/71040/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/18/ducato-online/moderare-i-commenti-un-duro-lavoro-ma-qualche-giornalista-deve-pur-farlo/71040/#comments Sat, 18 Apr 2015 15:00:02 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=71040 UGC e news online: il buono, il brutto e il cattivissimo

Ugc e news online: il buono, il brutto e il cattivissimo

PERUGIA – I commenti dei lettori agli articoli pubblicati online sono una preziosa risorsa o una perdita di tempo? È la domanda che si stanno ponendo gli stessi giornalisti digitali. I lettori parlano, criticano (a volte insultano), integrano i contenuti, aggiungono valore al testo.

Per le redazioni si tratta di lavoro in più: gestire questo flusso di informazioni e opinioni trasforma il giornalista in un vero e proprio moderatore. Alcune testate hanno assunto nuovo personale proprio per “regolare il traffico” ma per farlo bisogna necessariamente investire. Ecco perché spesso gli editori preferiscono eliminare i commenti, ma neppure questa può essere la soluzione in un’informazione che è sempre più interattiva e ha un pubblico che vuole partecipare e dialogare con chi scrive, con la sua testata di riferimento.

La britannica Bbc e gli americani Washington Post e New York Times  sono alla ricerca di un compromesso. Commenti aperti, ma con il filtro. Bbc usa un algoritmo che filtra automaticamente i commenti e solo in determinati casi richiede l’intervento di un moderatore umano. I due giornali statunitensi hanno invece avviato un progetto in collaborazione con Mozilla chiamato Coral Project. L’obbiettivo è quello di creare un software open source creato dagli editori per gli editori per ottimizzare le interazioni tra le redazioni e il proprio pubblico. L’idea che sta alla base del progetto è che i commenti possono essere classificati in base alla qualità del loro contenuto. “Noi del Washington Post – dice Greg Barber, responsabile del progetto – diamo troppo spazio a chi ci offende mentre dovremmo dedicarne di più a chi scrive cose intelligenti. Gli utenti più fedeli sono proprio questi, che vanno incentivati a dire la loro opinione. Per noi è molto importante”.

Il punto è proprio il rapporto con i lettori. Per Luca Sofri, direttore de Il Post bisogna scegliere tra la qualità del lavoro giornalistico e il tempo da dedicare a chi commenta gli articoli. Secondo Sofri dedicare troppa attenzione a chi commenta non vale l’investimento in termini di tempo e di risorse che una redazione deve impiegare. “Sul nostro sito la maggior parte dei commenti rispecchia la qualità della nostra testata, questo è il motivo per cui li moderiamo quasi sempre. Tutto ciò, in un contesto in cui i contributi di qualità sono solo una minima parte rispetto a tutti i commenti inutili e offensivi che compaiono sotto tanti articoli in giro per il web”.

Tutto è commentabile ma non tutto è pubblicabile secondo Alessio Balbi, responsabile dell’area social di Repubblica.it. “I contributi dei nostri lettori vengono interamente moderati, controlliamo che non ci siano contenuti offensivi prima di dare il via libero”.

Molti editori hanno pensato di risolvere il problema semplicemente impedendo ai lettori di commentare sul proprio sito, lasciando questa possibilità ai social network.

È il caso di testate come Bloomberg Business e Reuters, che hanno demandato il ruolo di “forum” ai social network che, per definizione, si prestano alla conversazione e al commento. Ma la tendenza è ancora poco significativa. I giornalisti, infatti, tendono a non moderare i commenti alla pagina Facebook o su Twitter del proprio giornale. Gli editori dimenticano che nella percezione dei lettori scrivere un commento sul sito o sulla pagina social spesso sono la stessa cosa.

I commenti sono solo una tipologia di User generated content (Ugc), tutto il materiale prodotto dagli utenti e non dai professionisti dell’informazione. Contenuti che spesso sono le stesse testate a chiedere ai propri lettori (soprattutto in caso di eventi di cronaca o catastrofi naturali) e che integrano video, audio, immagini, informazioni. L’altro canale da cui attingere sono i social network. I dati sono impressionanti: in un monitoraggio sulle homepage dei principali giornali del mondo realizzato dal centro di ricerca EyeWitness Media Hub, durato tre settimane nell’estate del 2014, si è scoperto che su 27.802 articoli 4.974 contengono Ugc.

Con questo tipo di contenuti, però, più che moderare sono le testate a doversi auto-moderare. Da una così immensa mole di informazioni non si può infatti attingere in modo indiscriminato né senza autorizzazioni. Secondo l’avvocato Matteo Jori, esperto di nuove tecnologie e nuovi media, i problemi emersi sono di due ordini: il diritto d’autore e la privacy delle persone. “Spesso le testate si appropriano di foto e video postati sui social senza preoccuparsi di specificare chi li ha prodotti, questo viola i diritti dell’autore che nella maggior parte dei casi, 84%, chiede solo di essere indicato come fonte, senza pretendere compensi”, spiega Jori. Sono tre i casi in cui in Italia è possibile usare liberamente contenuti trovati online:

  • devono contenere informazioni di interesse pubblico;
  • essere di stringente attualità;
  • rientrare nel diritto di cronaca

Quello della privacy è un tema ancora più urgente: succede spesso che foto di privati cittadini finiscano sui principali canali di informazione perché magari ritraggono sullo sfondo personaggi famosi.

E’ quello che è successo a Maddy Campbell, una ragazza australiana il cui profilo Instagram è stato pubblicato su Nine News, un importante canale televisivo australiano, sul Sidney Morning Herald e sul Daily Mail solo perché in una sua foto compariva Redfoo, componente del duo musicale Lmfao.

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La Rai e il modello Bbc: cultura, canone pagato da (quasi) tutti e niente pubblicità http://ifg.uniurb.it/2014/03/19/ducato-online/la-rai-e-il-modello-bbc-cultura-canone-pagato-da-quasi-tutti-e-niente-pubblicita/59865/ http://ifg.uniurb.it/2014/03/19/ducato-online/la-rai-e-il-modello-bbc-cultura-canone-pagato-da-quasi-tutti-e-niente-pubblicita/59865/#comments Wed, 19 Mar 2014 16:27:41 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=59865 rai_cavalloInformazione culturale di qualità, ascolti e canone. Pagato da tutti (o quasi). Non è un’utopia, ma il modello Bbc. E magari una possibilità di crescita per il servizio pubblico italiano, la Rai, all’alba della scadenza della concessione statale fissata nel 2016. Quando forse sarà scritta una nuova convenzione. Secondo molti osservatori, la rivoluzione della Rai sarebbe possibile prendendo come riferimento il servizio pubblico inglese, in cui la pubblicità è vietata e che viene finanziato dai contribuenti britannici. Una televisione che si basa su cultura, informazione, documentari e approfondimenti: un’ampia offerta che non trasmette programmi spazzatura, ma che allo stesso tempo attrae milioni di telespettatori. Il modello inglese ha infatti  il sostengo del pubblico: il 70% dei cittadini britannici si dichiara soddisfatto di pagare la tassa sul televisore, mentre l’evasione è la più bassa d’Europa (4%). Fino a qui tutto bene, se non fosse che la Bbc è in rosso e molto probabilmente manderà in onda solo su internet il suo terzo canale per risparmiare 100 milioni di sterline all’anno.

Ma se la Bbc fatica ad andare avanti senza pubblicità, la Rai non è messa meglio: viale Mazzini stima che circa 5 milioni di famiglie, il 26%, evadano il canone causando al servizio pubblico un mancato gettito di circa 560 milioni di euro. “Anche se tutti pagassero la tassa sul televisore – dice il giornalista Loris Mazzetti – non ci sarebbero comunque abbastanza fondi per fare andare avanti la Rai così com’è adesso”. La pubblicità, infatti, garantisce 700 milioni all’anno ai quattordici canali del servizio pubblico. Difficile farne a meno. Ma essere dipendenti dal mercato ha spinto la Rai a cercare il consenso del pubblico generalista. Per Renato Parascandolo, ex direttore di Rai Educational, a causa dell’incalzare delle televisioni commerciali “i programmi culturali del servizio pubblico hanno subìto una progressiva marginalizzazione che si è tentato di arginare esasperando l’aspetto della divulgazione a buon mercato”. Qualche anno fa Micromega, La rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais, si è scagliata contro  Voyager, il format che la Rai inserisce nella sezione ‘Programmi di promozione culturale”. In un articolo del 1 ottobre del 2009, Chiara Ceci e Stefano Moriggi, prendendo spunto da un saggio edito da Rizzoli del filosofo Harry Frankfurt, esprimevano “l’amarezza di vedere una televisione di Stato ridotta a divulgare stronzate in prima serata”.

Secondo molti, però, la situazione odierna della Rai non è solo dovuta alle richieste del pubblico. Per il giornalista Piero Dorfles “quello radiotelevisivo, come tutti i prodotti, non si basa solo sulla domanda, ma anche sull’offerta: se esiste una forte offerta in una certa direzione, spesso il pubblico l’accetta e modifica i propri desideri”. E continua: “Per fare un esempio, se sugli scaffali del supermercato non c’è la crema di marroni, è difficile che i clienti la chiedano. Ma se il supermercato offre molte creme di marroni è probabile che qualcuno inizi a comprarle e magari a consumarle tutti i giorni. Questa considerazione deve però tener conto del fatto che nel nostro Paese solo il 5% della popolazione legge abitualmente, quindi il prodotto culturale è difficile da smerciare”.

Come sostiene lo scrittore e giornalista Corrado Augias, infatti, “la cultura non è una necessità basilare per l’uomo. Serve un modo, una scintilla che faccia interessare le persone alla cultura. E non è facile”. A riuscire nell’impresa sono stati alcuni dei programmi  più visti della storia di Rai, come la Divina Commedia letta da Roberto Benigni o ‘Vieni via con me’. Il programma, condotto da Fabio Fazio e Roberto Saviano, è riuscito a catalizzare l’attenzione di oltre 9 milioni di spettatori sfruttando le caratteristiche del teatro per fare informazione. “Per offrire programmi di qualità che piacciano al pubblico basta lasciar fare la televisione ai professionisti del settore” dice ancora Mazzetti. E avverte: ”Se a decidere quali programmi possono andare in onda sono i politici non ci può essere una rivoluzione del servizio pubblico”.

Anche per Giorgio Simonelli, docente di storia della televisione all’Università cattolica di Milano, il problema è come i programmi vengono fatti. “Il servizio pubblico non ha bisogno dell’Isola dei Famosi: quella è tv fatta male. Però i programmi di divulgazione non bastano, bisogna offrire anche  informazione e fiction di qualità”. Sulla vendita delle reti Simonelli pensa che un solo canale Rai finanziato dal canone significherebbe “la marginalizzazione del  servizio pubblico, che non sarebbe più in grado di fare un offerta culturale degna”. La pubblicità però porta soldi e non è il male assoluto.“I programmi vanno ideati con i criteri di qualità – continua Simonelli – la pubblicità va collocata dopo e in modo che non stravolga il prodotto. Quello che è sbagliato è creare enormi contenitori di consigli per gli acquisti”.

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