il Ducato » guerra http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » guerra http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Tante spese e zero garanzie: la vita dei freelance italiani http://ifg.uniurb.it/2015/04/16/ducato-online/tante-spese-e-zero-garanzie-la-vita-dei-freelance-italiani/70795/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/16/ducato-online/tante-spese-e-zero-garanzie-la-vita-dei-freelance-italiani/70795/#comments Thu, 16 Apr 2015 17:23:48 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=70795 Il giornalista freelance Alessandro Di Maio

Il giornalista freelance Alessandro Di Maio

PERUGIA – Duecento euro per prendere un taxi, quasi 2mila per autista, traduttore e altri servizi, di fronte alla prospettiva di guadagnarne 50. Essere un giornalista freelance oggi non è facile, ma spesso è una scelta obbligata. Molte testate italiane sono in crisi, non offrono contratti e non finanziano reportage all’estero. Non resta che raccontare storie in modo indipendente e poi venderle ai media.

E’ quello che fanno Gabriele Micalizzi, fotografo milanese, e Alessandro Di Maio, giornalista freelance siciliano che hanno partecipato al convegno “Vita da freelance” il 16 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.

“I freelance sono lasciati da soli – spiega Micalizzi fotoreporter di guerra – con i media italiani funziona così: prima realizzi le foto e poi le vendi, alcuni giornali esteri ti fanno firmare un contratto prima e a volte anticipano dei soldi”. Ma anche i media esteri non vogliono prendersi responsabilità: “A volte decidono di non pubblicare fotografie da zone di guerra come la Siria, per non incoraggiare giornalisti a partire e rischiare. Anche questo è sbagliato”.

Ma i giornalisti freelance sono poco tutelati anche dal punto di vista giuridico: “Dobbiamo fare molta attenzione perché siamo direttamente responsabili di ciò che scriviamo – spiega Alessandro – Quando ho iniziato in Sicilia mi occupavo di cronaca locale e avevo paura di essere denunciato per qualche motivo, anche perché scrivevo di mafia. Ho sempre cercato di essere il più neutrale possibile, di non dare giudizi, cosa che spesso accade”. E riguardo la copertura assicurativa, le cose non vanno meglio: “Essere assicurati è fondamentale – conclude il giornalista – tre anni fa a Gerusalemme ho fatto una copertura sanitaria privata che dovevo rinnovare ogni tre mesi. Sfortunatamente ho avuto una colica renale proprio nel periodo del rinnovo, e il costo della notte in ospedale è stato enorme”.

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Alessandro Di Maio, che da Gerusalemme collabora con Libero e Il Fatto Quotidiano, racconta che “i problemi del freelance sono tre: la grande competizione, lo sfruttamento dei giornalisti da parte delle testate e la crisi mediatica italiana.

Io amo il giornalismo, ma in questa maniera è veramente difficile”. Alessandro ha iniziato giovanissimo a collaborare in Sicilia con alcune testate locali, occupandosi di cronaca e di mafia. “Non mi pagavano, così mi sono trasferito a Gerusalemme, mi sono iscritto all’università e ho iniziato a collaborare con un giornale Canadese. Con i media italiani all’inizio è stato difficile trovare collaborazioni, poi c’è stata la Primavera araba, ed è aumentato l’interesse per le questioni mediorientali.”

Per Gabriele, che lavora per il New York Times e il Corriere della Sera, il lavoro del giornalista freelance deve essere una passione: “E’ difficile, ma nessuno ci obbliga a farlo, si corrono dei rischi, bisogna meritarselo. E’ vero, c’è tanta competizione, ma così emergono i lavori di qualità”. Gabriele ha iniziato a fare il freelance per caso, ma poi la sua è diventata una scelta: “Non lavorerei mai per un agenzia di stampa, devi produrre foto standard, coprire gli eventi che ti dicono loro, non hai libertà. A me piace dare un taglio d’autore e una prospettiva personale alle mie foto e questo è quello che me le fa vendere ai giornali”.

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Alessandro racconta che facendo il freelance conosce tanta gente nuova, viaggia, impara le lingue. “Ma è una vita che si può fare solo per un periodo, per come funziona il giornalismo in Italia”. Nel nostro paese i freelance vengono pagati poco: “I giornali esteri pagano dieci volte di più. Ma non è solo una questione economica. Le nostre testate non forniscono press card, non ti seguono nel lavoro sul campo, non offrono garanzie. I giornali chiedono articoli di cronaca, non storie o reportage. Sono pubblicista, lavoro come analista politico dei giornali del mondo arabo per una azianda privata e quando ho tempo libero e i soldi necessari parto e mi dedico a raccontare storie”.

La passione di chi fa il giornalista di guerra è tanta ma ci sono testate che se ne approfittano. “Devi continuamente negoziare- racconta Gabriele- ma è importante non svendersi mai, proporre un prodotto di qualità e pretendere di essere pagati in modo giusto. Io mi dico: il mio è ‘made in Italy’, quindi se un cliente lo vuole, deve pagare”. Ci sono però tante testate che promettono di pagare e poi dopo qualche anno falliscono, per poi rimettersi sul mercato con lo stesso nome. Tutte le collaborazioni effettuate nel periodo precedente la bancarotta decadono. “A me questo scherzetto l’ha fatto una rivista scientifica- racconta Alessandro- ha preso alcune mie foto ma al momento del pagamento non si sono più fatti vivi, salvo poi scoprire che era fallita e rinata magicamente.”

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Crowdfunding per i reportage di guerra: l’idea anti-crisi del Giornale http://ifg.uniurb.it/2014/02/11/ducato-online/crowdfunding-per-i-reportage-di-guerra-lidea-anti-crisi-del-giornale/57006/ http://ifg.uniurb.it/2014/02/11/ducato-online/crowdfunding-per-i-reportage-di-guerra-lidea-anti-crisi-del-giornale/57006/#comments Tue, 11 Feb 2014 18:05:29 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=57006 IlGiornale.it]]> Il reportage in Ucraina di Fausto Biloslavo finanziato con il crowdfunding

Il reportage in Ucraina di Fausto Biloslavo finanziato con il crowdfunding

L’unione fa la forza e, in tempi di crisi economica, può fare anche l’informazione. Così l’edizione online del Giornale di Alessandro Sallusti ha pensato di finanziare dei reportage all’estero da zone di guerra con il metodo del crowdfunding, cioè attraverso la donazione libera dei lettori. Qualunque sia l’argomento che vorremo vedere approfondito, dalla guerra in Libia a quella in Afghanistan, passando per i disordini di Kiev, basta andare sulla piattaforma online Gli occhi della guerra e pagare (o almeno, contribuire a pagare) un reportage. Raggiunti i fondi necessari, che si aggirano intorno a qualche migliaio di euro a seconda delle destinazioni, il giornalista parte, documenta e torna, portando con sé in Italia un prodotto che – sperano al Giornale – apparirà sul sito del quotidiano.

“Al giorno d’oggi – spiega la responsabile del progetto Laura Lesèvre – i giornali non hanno le capacità finanziarie per pagare gli inviati all’estero e per una buona informazione le agenzie di stampa non bastano”. Per avere un’informazione di qualità, quindi, bisogna pagare direttamente e di tasca propria. L’idea sembra non sconvolgere i lettori, che hanno già finanziato in toto tre reportage: “Diario da Kiev” e “Afghanistan goodbye” di Fausto Biloslavo e “Libia, il nostro petrolio è in pericolo” di Gian Micalessin. Entrambi gli autori dei primi progetti sono già collaboratori del Giornale, ma Laura Lesèvre spiega che l’Associazione no profit per la promozione del giornalismo (creata dal Giornale ad hoc per la gestione della piattaforma) ha preso contatti anche con freelance indipendenti.

Per ora la trasparenza sulle donazioni è incompleta: si può solo sapere quanti soldi sono stati raccolti e quante persone hanno donato qualcosa, senza la possibilità di capire a quanto ammontano le singole somme. Ad esempio, a quanto è riportato sul sito, il reportage di Biloslavo in Ucraina è stato finanziato in meno di 24 ore da 32 persone che hanno raccolto in tutto 3000 euro. Non è dato sapere, quindi, se è corretto stimare circa 100 euro per donatore o se magari c’è stato un grande finanziatore che ha accelerato la raccolta.

“Mi auguro che nel futuro il sistema di donazioni sarà più trasparente – confessa Barbara Schiavulli, giornalista di guerra e blogger del Fatto Quotidiano, che è stata contattata dal Giornale per proporre un suo reportage – anche perché immagino che a finanziarmi saranno persone che conoscono me, non tanto lettori fidelizzati del Giornale”.

La pagina del finanziamento di "Afghanistan goodbye" sulla piattaforma Gli occhi della guerra

La pagina del finanziamento di “Afghanistan goodbye” sulla piattaforma Gli occhi della guerra

E’ però possibile capire il ‘taglio’ delle donazioni da un particolare: per ogni piccolo finanziamento (da 1 a 50 euro) è previsto un ringraziamento personalizzato da parte dell’autore del reportage sulle pagine Facebook e Twitter degli Occhi della guerra. Nei giorni del crowdfunding di “Diario da Kiev” non appare alcun ringraziamento su nessuno dei due social network. I donatori, quindi, hanno probabilmente versato più di 51 euro a testa, ricevendo un omaggio più consistente: dai 51 ai 200 euro una foto realizzata dal reporter nella zona di guerra; dai 201 ai 500 il libro “Gli occhi della guerra” e la raccolta del materiale prodotto dall’inviato; da 501 a 1000 euro il libro, la raccolta e una giornata in redazione; da 1001 euro, oltre a tutto quello già detto, ci si può azzardare addirittura ad invitare il reporter per una conferenza sul tema nella propria città.

Se la pubblicazione del reportage su IlGiornale.it è data per certa, in realtà i vincoli tra l’inviato che parte e il Giornale non sono ufficiali. “Tra noi e loro non c’è nessun contratto – chiarisce Lesèvre – quindi possono pubblicare il materiale dove vogliono. Ovvio, comunque partono grazie e noi e con i soldi dei nostri lettori, quindi ci aspettiamo un’esclusiva. Ma il materiale in più, gli autori possono darlo ad altre testate”.

Anche Barbara Schiavulli non ha dubbi sulla proprietà del reportage: “Sarà pubblicato sul IlGiornale.it, è chiaro, perché l’idea del crowdfunding è partita da loro. E’ per questo che lo fanno, perché conviene a entrambi”. Schiavulli vorrebbe lavorare ad un reportage sul radicalismo islamico in Europa: “L’idea è piaciuta, quindi stiamo facendo uno spot per lanciare il crowdfunding. E’ questione di giorni”.

L’informazione dall’estero, infatti, non è alla portata di tutti: per il giornalista, il crowdfunding diventa l’unica possibilità di partire; per la testata, è un occasione di avere esclusive costose. “Serve anche a fidelizzare i lettori – spiega Laura Lesèvre – perché scegliere e finanziare in fretta il reportage preferito diventa una gara stimolante. Non è vero che con gli esteri non si vende: i fondi che abbiamo raccolto ne sono la prova”.

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Al di là della barricata: giornalisti ‘professori’ della buona comunicazione http://ifg.uniurb.it/2013/06/04/ducato-online/media-ducato-online/al-di-la-della-barricata-giornalisti-professori-della-buona-comunicazione/49748/ http://ifg.uniurb.it/2013/06/04/ducato-online/media-ducato-online/al-di-la-della-barricata-giornalisti-professori-della-buona-comunicazione/49748/#comments Tue, 04 Jun 2013 15:25:25 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=49748

Il reggimento nella caserma a Pesaro

PESARO – Quando il cancello di ferro, sotto il ponte con la scritta ‘esercito’ a grandi lettere, si è aperto al nostro passaggio, ci aspettavamo di trovare un ambiente estraneo e profondamente diverso da quello della nostra scuola di giornalismo.
Ci aspettavamo di trovare una sorta di sergente Hartman che nel film Full Metal Jacket svilisce e umilia i suoi soldati. In realtà abbiamo trovato dei colleghi.

Il 28° Reggimento Pavia di Pesaro è l’unità dell’esercito dove i militari si occupano di stabilire una comunicazione diretta con la popolazione dei luoghi in situazioni di conflitto armato, ad esempio in Libano e in Afghanistan. Come i giornalisti, questi soldati producono video informativi trasmessi su emittenti televisive locali, gestiscono stazioni radio e inviano comunicati, ma in luoghi dove le guerre politico-religiose rendono instabili gli equilibri sociali, la comunicazione è più importante e delicata del normale: una parola fuori posto rischia di inasprire l’odio e quindi il conflitto.

Sapere cosa dire in situazioni critiche e pericolose non è mai facile, neanche se sei un generale esperto: da un lato c’è il pubblico che chiede spiegazioni, vuole capire, sapere perché i nostri soldati sono lì e se sono al sicuro, dall’altra ci sono le autorità che dettano la linea che non può essere contraddetta.

Proprio qui sta il motivo per il quale ci troviamo al di là della barricata: ‘addestrare’ uno di questi generali che presto partirà per il Libano. La sua missione, adesso è quella di perfezionare le tecniche per relazionarsi con il pubblico, soprattutto in situazioni critiche.
Sorpassiamo il cancello e veniamo portati in una stanza vicino alla sala radio. Ad aspettarci c’è un maggiore dei Bersaglieri e addetto stampa dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, che ci spiega cosa fare.

L’esercitazione consiste in tre interviste, una telefonica, una radiofonica e una televisiva. Dopo un breve aggiornamento sulla situazione in Libano, buttiamo giù i tre ipotetici scenari e prepariamo delle domande il più possibile scomode per il generale.
Il nostro compito è di metterlo in difficoltà evidenziando gli elementi critici e oscuri di questi scenari, già di per sé molto rischiosi per il contingente. Un lavoro delicato per un uomo che ha la responsabilità di 1.500 soldati italiani più il coordinamento degli altri caschi blu della missione.

In una giornata e mezza abbiamo registrato le interviste e realizzato servizi radio e tv di un minuto mostrando al generale come sia possibile – per un giornalista in malafede – estrapolare una frase e decontestualizzarla a proprio piacimento. Il futuro comandante del contingente è riuscito a evitare le trappole che gli abbiamo preparato, cadendo solo in qualche piccolo tranello. L’esito dell’esame è stato positivo; noi ne siamo usciti arricchiti ma felici di aver messo in pratica gli insegnamenti della scuola di giornalismo e di aver imparato come i ruoli del giornalista e del militare addetto alla comunicazione siano in fondo simili, destinati a incrociarsi senza incontrarsi mai.

Le parole sono importanti, soprattutto quando una di queste, se messa fuori posto, può fare la differenza tra la vita e la morte.

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Flavio: “Vi racconto la vita da militare in missione” http://ifg.uniurb.it/2012/03/15/ducato-online/flavio-vi-racconto-la-vita-da-militare-in-missione/28687/ http://ifg.uniurb.it/2012/03/15/ducato-online/flavio-vi-racconto-la-vita-da-militare-in-missione/28687/#comments Thu, 15 Mar 2012 15:24:14 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=28687 URBINO – I militari in spedizione all’estero. Una vita difficile, spesso pericolosa. I nostri soldati sono molto apprezzati dalle popolazioni locali, anche in zone ad alto rischio come l’Afghanistan. Flavio è un ragazzo di Urbino che ha vissuto questa esperienza e ce la racconta. Prova anche a spiegare cosa può essere saltato per la testa a quel ragazzo che ha sparato all’impazzata uccidendo 18 persone, di cui quasi tutte donne e bambini.

“Nella stragrande maggioranza dei casi il nemico non ha la divisa. E’ lo stress, è tutto quello che ti circonda”, racconta Flavio.

Il servizio di Stefania Carboni e Giorgia Grifoni

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Un dopoguerra infinito da Sarajevo a Urbino per raccontare la Bosnia http://ifg.uniurb.it/2011/05/16/ducato-online/da-sarajevo-per-raccontare-la-bosnia-speranze-e-disillusioni-in-un-infinito-dopoguerra/8925/ http://ifg.uniurb.it/2011/05/16/ducato-online/da-sarajevo-per-raccontare-la-bosnia-speranze-e-disillusioni-in-un-infinito-dopoguerra/8925/#comments Mon, 16 May 2011 22:00:40 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=8925 URBINO- “Molti giovani europei non sanno neanche che la Bosnia è in Europa. Vanno al mare in Croazia e credono che dietro non ci sia niente. Sono contenta che ora almeno tre persone sappiano cosa è successo e chi siamo”. Mersiha Kovacevic, 22 anni, studentessa di Sarajevo, è venuta in Italia per parlare del suo paese. Di come il conflitto nella ex-Jugoslavia abbia cambiato intere generazioni. E di come, a volte, sembri che la guerra non sia mai finita. Assieme a Elsada Lagumdzic, sua coetanea e compagna di Università, e Azra Ibrahimovic, dell’associazione Cesvi a Sarajevo, è intervenuta all’incontro “Le donne e i giovani: l’infinito dopoguerra della Bosnia Erzegovina” organizzato giovedì 12 maggio al Collegio Raffaello assieme al loro professore di italiano all’università di Sarajevo, Daniele Onori.

Un evento fortemente voluto dal Comune di Urbino e dall’associazione “la Ginestra”, che dal 2010 è impegnata nel progetto interculturale “Cantiere Srebrenica”. Proprio la cittadina bosniaca, dove nel 1995 si è compiuto il più grande massacro d’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale –più di 8.000 civili bosgnacchi (i cittadini musulmani della Bosnia) uccisi dalle truppe serbo-bosniache e seppelliti in fosse comuni- è il soggetto di “Cono d’ombra”, il documentario del regista Andrea Laquidara. Un dramma di cui Azra (nata a Srebrenica), ma anche Mersiha e Elsada, cresciute come migliaia di giovani bosniaci tra gli orrori del conflitto, portano ancora le ferite.

Azra Ibrahimovich

Le due studentesse ci parlano di una società profondamente divisa, di un difficile cammino verso la democrazia e di un passato che pesa sulle nuove genereazioni, nonostante loro non abbiano intenzione di rimanerne schiacciate. “Sono passati 16 anni dalla fine del conflitto – racconta Elsada – eppure vivamo costantemente nel dopoguerra. Le tracce della distruzione sono ben visibili a Sarajevo, ma quelle psicologiche sono ancora più potenti, perché sopravvivono nella divisione della popolazione bosniaca”. “Prima della guerra- spiega Mersiha- c’era una coesione tra cattolici, ortodossi e musulmani, e si vedeva soprattutto durante le festività, quando trovavi insieme nelle stesse case musulmani, cattolici e ortodossi. Ora tutto questo non c’è più. A Mostar, ad esempio, il fiume divide i croati cattolici dai bosgnacchi musulmani. E nelle cittadine la differenza è ancora più evidente”.

La Bosnia-Erzegovina è divisa tra Serbi di confessione ortodossa, Croati cattolici e Bosniaci musulmani, detti Bosgnacchi. E ogni gruppo reclama la sua Bosnia. “Ma siamo tutti Bosniaci –insiste Mersiha- e queste divisioni sono assurde. La religione dovrebbe essere una cosa personale e invece qui entra in tutto, nell’economia come nella politica. Quando compiliamo dei formulari dobbiamo sempre indicare il nostro gruppo di appartenenza. E dai cognomi si sa a cosa appartieni”. E’ sconsolata Elsada. Racconta della scuola, dei genitori che influenzano i figli, dei libri di storia. “Abbiamo tre presidenti. E quindi, tre punti di vista. Non esiste un libro di storia imparziale, che racconti semplicemente come siano andati i fatti. Il professore cattolico ne sceglierà uno di storia che racconti la sua versione, e il professore di religione musulmana farà altrettanto”.

E come vivono i giovani questo lungo dopoguerra? “Siamo confusi –dice Mersiha- non sappiamo a chi credere. Io non guardo più la tv. Solo quando parlo con gli stranieri sento di conoscere un po’ il mio paese”. “Per i giovani della nostra età –continua Elsada- è difficile parlare della guerra, e quindi elaborarla, perché non siamo sicuri di quello che stiamo dicendo. I nostri genitori ci influenzano molto. Quando siamo tra noi ragazzi, soprattutto all’Università, stiamo tutti insieme: non esistono differenze tra serbi, croati e bosgnacchi. Però cerchiamo di mantenerci a distanza dall’argomento, la persona potrebbe offendersi. Ognuno ha le sue ferite”.

Elsada è realista. Secondo lei il periodo del dopoguerra durerà ancora molto: “Ci sono problemi economici, che non si sentono tanto a Sarajevo quanto nei centri minori. C’è la corruzione e sinceramente dell’Unione Europea non mi fido molto. Ci mandano i soldi, magari per lavarsi la coscienza, ma non controllano chi li prende”. E’ ottimista, invece, Mersiha: “Credo in un futuro migliore, forse non con la mia generazione, ma con le prossime. Perché non ho alcuna intenzione di insegnare a mio figlio a odiare un serbo o un croato”.

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Quando scoppia una guerra la prima vittima è la verità http://ifg.uniurb.it/2011/04/20/ducato-online/in-guerra-la-prima-vittima-e-la-verita/8173/ http://ifg.uniurb.it/2011/04/20/ducato-online/in-guerra-la-prima-vittima-e-la-verita/8173/#comments Wed, 20 Apr 2011 08:51:47 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=8173 URBINO – Guerra, tv e bufale, il trinomio imperfetto: quando scoppia un conflitto la distorsione della realtà è spesso lo strumento dei governi per ingannare l’opinione pubblica. Amedeo Ricucci è un inviato di guerra da più di vent’anni e ha incontrato gli studenti di Urbino nell’aula 1 della facoltà di scienze politiche. Attraverso il suo documentario “Guerra, bugie e TV”, proiettato durante l’incontro organizzato dall’associazione Fuorikorso, ha sferzato un attacco contro le notizie-merce e la concorrenza mediatica che fa più danni che altro. Gli esempi sono plurimi: le fosse comuni con migliaia di civili morti in Kosovo durante il governo Milošević, le armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, le fosse comuni in Libia. Eventi infondati, riconosciuti come tali anche dai dirigenti delle testate, ma pubblicati per non bucare le notizie, anche se false.

Ricucci ha iniziato la sua carriera di inviato di guerra con Milena Gabanelli a Professione Reporter. E’ abituato ai pezzi lunghi, agli speciali. Il minuto e 15 secondi dei servizi del telegiornale non gli basta. E nemmeno le notizie che fanno audience o servono per alleggerire i TG, come la volta che si rifiutò di fare un servizio sugli alberi di natale in Afghanistan durante la guerra, e dopo cinque giorni fu fatto rientrare in Italia perchè “non soddisvaceva le esigenze di redazione”. “In guerra si racconta quello che succede con le immagini, andando in giro, parlando con la gente, capendo, non basta uno stand up con i bombardamenti sullo sfondo per raccontarla”.

Le immagini sono frutto di scelte, di punti di vista. E consentono di deformare la realtà, specialmente quando si parla di guerra. Soprattutto dopo il 1945, quando la guerra è diventata “mediatica”. Gli stati non vanno in guerra senza aver prima conquistato l’opinione pubblica: senza consenso non c’è guerra. E la televisione è il mezzo fondamentale perchè è un mezzo passivo, tende a renderti partecipe senza spiegarti perchè. Parla alla pancia dei telespettatori, di tutti i telespettatori, anche alle massaie che fanno le lasagne e non hanno spirito critico.

Il bisogno è quindi quello di un’informazione neutra. Sempre più difficile oggi, dove la notizia è una merce qualunque e il diritto di essere informati è succube delle leggi del mercato. Non c’è quindi futuro per il giornalismo informativo e non di parte? “Non la vedo così. Certo è più difficile e si deve sgomitare di più, ma non è una cosa impossibile” conclude Ricucci, lasciando un pò di speranza per noi futuri giornalisti.

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“No alla guerra”. Manifestazione a Urbino http://ifg.uniurb.it/2011/03/23/ducato-notizie-informazione/%e2%80%9cno-alla-guerra%e2%80%9d-manifestazione-a-urbino/6562/ http://ifg.uniurb.it/2011/03/23/ducato-notizie-informazione/%e2%80%9cno-alla-guerra%e2%80%9d-manifestazione-a-urbino/6562/#comments Wed, 23 Mar 2011 17:47:24 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=6562 Gli studenti manifestano in segno di solidarietà col popolo libico. Il professor Giliberti: “La guerra ci riguarda. La posizione geografica non consente all’Italia di disinteressarsi della situazione in Libia”, il professor Cricco: “Il dopo Gheddafi è un’incognita, chi sarà a prendere il suo posto?”


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Studenti in piazza contro l’intervento in Libia http://ifg.uniurb.it/2011/03/22/ducato-notizie-informazione/studenti-in-piazza-contro-lintervento-in-libia/6409/ http://ifg.uniurb.it/2011/03/22/ducato-notizie-informazione/studenti-in-piazza-contro-lintervento-in-libia/6409/#comments Tue, 22 Mar 2011 18:25:53 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=6409 [continua a leggere]]]> URBINO –“Per la guerra i soldi si trovano in un attimo, per le spese sociali non ci sono mai. Siamo contro un intervento falsamente umanitario, non c’è umanitarismo con le bombe”. Queste le parole di Rocco Stasi, uno degli organizzatori della manifestazione e membro dell’associazione C1 Autogestita che ha organizzato il presidio contro l’intervento militare in Libia. Esposto anche uno striscione davanti alla fontana e distribuiti volantini. Sullo striscione c’era scritto: “La pace delle bombe, la pace dei cimiteri! Né guerra, né raìs”.

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