La “chiesa palla” di Quaroni: troppo moderna, troppo lontana

Un tappeto di auto strette le une alle altre, anziani che arrivano in macchina con i figli, ragazzi che si affrettano a mettere la catena al motorino. Durante la settimana il viale su cui si affaccia la chiesa Madre di Gibellina Nuova è una strada deserta e silenziosa. Ma la domenica mattina si trasforma in un enorme parcheggio. “La chiesa è troppo lontana, raggiungerla a piedi sarebbe impossibile”, spiega Ciccio Ienna, ex ferroviere di 71 anni.  Progettata negli anni ’70 da un famoso architetto dell’epoca, Ludovico Quaroni, la chiesa Madre di Gibellina Nuova si trova nella parte più alta del paese. Da qui, con la sua cupola bianca sferica, domina la città ricostruita su progetti urbanistici d’avanguardia a circa 20 Km di distanza dal vecchio paese, raso al suolo dal terremoto del 1968. Ma la scelta di mettere la chiesa ai margini del paese e non nella piazza principale, come invece era a Gibellina vecchia, ha cambiato in profondità le abitudini degli abitanti. Così giovani e vecchi si trovano uniti nel disagio verso questa chiesa, raggiungibile solo in auto invece che con la più classica passeggiata della domenica. Una chiesa che per di più è anche moderna. E con una forma talmente bizzarra da essere subito diventata per tutti “la chiesa palla”.

“A chiamarla così sono soprattutto gli anziani – racconta Nino Plaia, ragioniere di 44 anni – ma non lo fanno per screditarla. Gibellina era un paesino di agricoltori e per loro capire questa città non è stato facile”. “Eravamo abituati a cose semplici”, spiega Antonietta Verde, 78 anni, che ricorda bene il paesino raso al suolo dal sisma.

Nel paese vecchio la domenica si andava a messa a piedi. La chiesa era nel centro della città, facilmente raggiungibile. I più anziani ricordano bene come la tradizionale messa domenicale fosse occasione per incontrarsi e passeggiare insieme lungo il corso principale della vecchia città. “Le distanze non erano enormi come qui e per quelle vie si respirava il calore umano”, dice Antonietta Verde. “La domenica la strada maestra (il corso principale) era talmente piena di gente che le donne per non farsi vedere percorrevano una strada secondaria”, racconta Ciccio Ienna ammiccando alla figlia Enza –  ma adesso in chiesa ci vado in macchina”.  “Il risultato a livello paesaggistico è molto bello ma salire tutti quei gradini non è comodo per gli abitanti”, conferma Angela Badami, professoressa di urbanistica all’Università di Palermo ed esperta di Gibellina.

“Raggiungere la chiesa Madre è un problema soprattutto per i più anziani – sostiene Maria Verde, bibliotecaria di 62 anni – non tutti hanno la patente e i più fortunati chiedono a amici e parenti di accompagnarli”. E c’è anche chi alla messa domenicale ha già rinunciato. “Mia moglie –  spiega Ienna – ci andava tutte le mattine ma adesso ha dei problemi alla gamba e non può arrivare fin lassù. Io quando posso la accompagno ma avere la chiesa a due passi da casa sarebbe stata un’altra cosa.”

Da piazza Beyus, che si trova ai piedi della chiesa Madre,  partono delle lunghissime scalinate che arrivano fino allo spiazzale della chiesa. Ma nessuno le usa. “Sono sempre deserte – racconta rammaricato il figlio di Antonietta Verde, Daniele Balsamo, insegnante di 41 anni – non ci va mai nessuno. Io ci passo solo quando accompagno i turisti per fargli vedere la chiesa ma non con la mia famiglia. Però devo dire che i miei figli spesso non tornano in macchina con me e preferiscono fare una passeggiata in quel percorso che dalla chiesa arriva fino a casa nostra”. Un piccolo segnale del fatto che forse la terza generazione, nata da genitori cresciuti a Gibellina Nuova , potrebbe avere un approccio diverso al paese costruito ex novo negli anni ’70.

E dire che la chiesa per gli abitanti di Gibellina Nuova è stata un sogno coltivato a lungo: i primi progetti per la sua realizzazione furono presentati negli anni ’70 ma i lavori sono finiti solo nel 2010. “Abbiamo sofferto tanto per avere quella chiesa – racconta Michele Plaia, pensionato di 75 anni – abbiamo aspettato 30 anni per averla poi è caduto il tetto abbiamo dovuto attendere altri 10 anni”. Quarant’anni di attesa per avere un luogo in cui celebrare messa. Un periodo troppo lungo per una popolazione che nella città vecchia di chiese ne aveva addirittura sette. Così, mentre nel cantiere della chiesa Madre andavano avanti i lavori, gli abitanti hanno messo insieme gli arredi delle vecchie chiese e hanno trasformato alcuni centri sociali in luoghi in cui celebrare messa. Fino a qualche anno fa a Gibellina Nuova la gente si sposava dentro i locali dell’Asl o nelle stanze delle scuole. “Quando hanno inaugurato le due nuove chiese, però, il parroco ha sconsacrato le nostre chiesette e oggi se vogliamo andare a messa possiamo andare solo a San Giuseppe o alla chiesa Madre”.
Oltre alla chiesa Madre, infatti, a Gibellina c’è anche san Giuseppe, costruita con i soldi dei cittadini, della curia e di padre Inzerillo, che per più di cinquant’anni è stato parroco del paese. Probabilmente è proprio questa la ragione per cui a Gibellina Nuova sono in molti a sentirsi più legati alla chiesa di san Giuseppe che alla Chiesa Madre, realizzata con i soldi della Regione e concessa in comodato d’uso al comune.

La chiesa di San Giuseppe

La chiesa di San Giuseppe

“Lo stesso padre Inzerillo – racconta il nuovo parroco di Gibellina, don Rino Randazzo – era poco propenso a celebrare messa nella chiesa Madre, soprattutto dopo il crollo del tetto il 15 agosto del 1994.” Il vecchio parroco, impaurito dal rischio di un’altra tragedia, per un po’ di tempo si rifiutò di entrarvi.

Oggi le chiese funzionanti a Gibellina Nuova sono affidate a un unico sacerdote che ha diviso le celebrazioni tra feriali e festive. “Così i fedeli – spiega il giovane parroco – possono scegliere liberamente quale chiesa frequentare”.

“La chiesa di Quaroni per la gente è un monumento”, spiega dal canto suo Gioacchino De Simone, giovane architetto che guarda con occhio disincantato la sua città. “Quella è la chiesa di tutti e quindi di nessuno”, sottolinea cercando conferma nella madre, Maria Verde . Dal loro punto di vista, nella nuova città si è perso quel rapporto tra chiesa e abitanti che c’era a Gibellina Vecchia. “La gente va, sì, nella chiesa Madre ma perché non ha molte altre alternative – continua Gioacchino – con il paese vecchio è crollata l’idea stessa di chiesa di quartiere, di appartenenza a una piccola comunità religiosa.” Anche chi a Gibellina Nuova c’è tornato dopo alcuni anni lontano da casa, non si identifica in quella chiesa. La figlia di Ciccio Ienna, Enza, 31 anni,  la domenica preferisce andare a messa nei paesi vicini. “Per me la chiesa è come il corso di una città – spiega – dentro devo sentirci la storia ed è per questo che preferisco andare nelle chiesette seicentesche di Castelvetrano o dei paesini vicini.”

Eppure un legame con Gibellina Vecchia la Chiesa Madre lo ha in qualche modo mantenuto, visto che a richiamare gli abitanti per la messa è il suono di una “campana terremotata”. “Si è miracolosamente salvata durante il sisma del 1968”, spiega Matteo Santangelo, negoziante di Gibellina Nuova. “All’interno della vecchia campana c’è una crepa e il suono non è più quello di una volta – chiarisce don Rino Randazzo –  la gente più anziana mi ha raccontato che nella vecchia città i rintocchi si diffondevano per tutto il territorio e si sentivano anche dai campi più lontani”. La vecchia campana ora si trova dentro una gabbia di ferro sulla facciata della modernissima chiesa Madre. “Fino a qualche anno fa – racconta Santangelo – a risvegliare gli abitanti la domenica mattina era il suono di un megafono. In quella chiesa non c’è un campanile e il megafono faceva da campana.”

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La campana terremotata

Il rapporto degli abitanti con la chiesa palla oscilla tra amore e odio: da una parte Gibellina Nuova dopo quarant’anni ha ottenuto la sua chiesa, dall’altro la identifica più come opera d’arte che come edificio religioso. E tra ironia e serietà ogni tanto per le strade del paese capita di sentire qualcuno che scherzosamente esclama: “non sia mai che quella palla rotoli giù e schiacci la città distruggendola per la seconda volta”.