Alla ricerca dei rifiuti tossici sulle tracce dei verbali di Schiavone


Pubblicato il 8/04/2014                          


“Dovevano venire a scavare qui e invece questo campo lo hanno saltato. Perché? Dovete dirgli di venire a scavare qui, di sicuro sotto c’è qualcosa. Io i camion li ho visti, scaricavano soprattutto di notte”. È anziana e molto arrabbiata la signora Anna, nome di fantasia perché preferisce mantenere l’anonimato. Passeggia lungo la strada di Bonifica che, circondata da uliveti e campi di mais, collega la piana di Venafro al nucleo industriale di Pozzili. Vive lì da 50 anni e di cose ne ha viste tante, ma finora non le ha mai raccontate a nessuno perché “si aveva paura a denunciare”, dice controllando che non la senta nessuno. Un timore che l’accompagna ancora adesso. Si intuisce dalla voce che si abbassa, fino a diventare un bisbiglio, quando racconta dei camion che lei stessa vedeva scaricare “soprattutto di notte”.

Rifiuti che, secondo il racconto della signora Anna, provenivano principalmente dalla Fonderghisa, una vecchia acciaieria – chiusa nel 2005 per un passato gestionale poco limpido – che dista solo pochi chilometri da quei terreni. A distanza di vent’anni, le autorità hanno iniziato a scavare anche in Molise ma a quanto pare nei luoghi sbagliati.

Il 31 ottobre scorso, la Camera dei deputati ha tolto il segreto che 16 anni fa la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, per ragioni d’indagine, decise di apporre ai verbali dell’audizione di Carmine Schiavone. E le parole dell’ex boss del clan dei Casalesi hanno cominciato a invadere giornali e televisioni. Da quel giorno anche in Molise l’opinione pubblica si è risvegliata, come da un sonno lunghissimo, e ha iniziato a fare pressioni sulle autorità. Sono partite le prime indagini, a lavoro la procura di Isernia e la Dda di Campobasso. Sono stati disposti i primi sequestri e scavi di alcuni terreni che si trovano prevalentemente nel quadrilatero – ad una decina di chilometri dal confine campano – compreso tra Venafro, Isernia, Pozzilli e Sesto Campano.

Tutto questo perché nei verbali del “tradito di camorra” (come si definisce Schiavone stesso n.d.r.) tra le zone di influenza dei Casalesi, per quanto riguarda il traffico e l’interramento di rifiuti tossici e radioattivi, c’è anche il Molise. Peccato però che l’ex boss non ha indicato esattamente i luoghi in cui scavare, limitandosi a nominare genericamente la provincia di Isernia. Un territorio di 1.529 chilometri quadrati dove il problema dell’inquinamento ambientale non è cosa nuova, soprattutto nella piana di Venafro, la zona industriale al confine con Pozzilli.

Quel 7 ottobre 1997 Schiavone parlava al deputato Gianfranco Saraca, ai senatori Giovanni Lubrano di Ricco, Roberto Napoli e Giuseppe Specchia, presieduti dal fisico Massimo Scalia. A loro ha spiegato come, alla fine degli anni ’80, il clan capì che l’interramento di “fusti e casse che venivano da fuori (…) sarebbe stato un buon business per far entrare nelle casse del clan soldi da investire”. Ha detto quali fossero i rifiuti interrati – residui di pitture, solventi, sostanze tossiche, fanghi industriali e rifiuti di lavorazione delle concerie – e in che modo avvenisse l’operazione: “Avevamo scavi profondi 20-24 metri, anche oltre la falda acquifera”. Ettari di scavi abusivi, si legge nei verbali, creati appositamente per generare il cosiddetto rilevato stradale, cioè quel particolare strato che garantisce stabilità nella costruzione delle superstrade. (Nello stesso periodo Schiavone gestiva i lavori nelle cave per la costruzione della superstrada Napoli-Caserta n.d.r.) Solo che nel “rilevato stradale” prodotto dal clan misto alla sabbia non c’erano detriti speciali, bensì “terreno paesano”, come lo definisce Carmine Schiavone. I rifiuti venivano usati nella fase finale, per ricoprire gli scavi effettuati perlopiù nelle proprietà di contadini con l’esigenza di rialzare il terreno per piantare i frutteti. “Tuttavia i contadini – dichiara l’ex boss – non sapevano con che tipo di terra sarebbero stati coperti gli scavi”.

Ma soprattutto alla commissione sulle Ecomafie Carmine Schiavone ha indicato i posti dove in passato il clan interrava rifiuti tossici e radioattivi. “Rischiano di morire tutti di cancro entro vent’anni – si legge nei verbali – gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe e Castel Volturno”.

Un perimetro di morte che, a detta del pentito Schiavone, si estendeva anche oltre i confini del casertano: “Fino al 1992 noi arrivavamo nella zona del Molise (Isernia e le zone vicine), a Latina… Non so cosa è accaduto dopo”. Secondo le ricostruzioni del boss, il clan nel ’92 decise di “assorbire la zona di Latina e il Molise ovest perché c’erano le influenze bardelliane o dei Nuvoletta”, nonostante avesse ancora “tutte le cave della provincia di Caserta da riempire (…), circa dieci mila ettari di terreni che costeggiavano la Domiziana e tutte scavate a 30, 40 e 50 metri”.

Il 3 novembre, a distanza di un paio di giorni dalla desecretazione dei verbali Schiavone, la Regione Molise istituisce un gruppo di lavoro composto da Asrem, Arpa Molise, Protezione civile e tecnici di enti regionali. L’obiettivo, si legge nel comunicato diffuso dal Presidente Di Laura Frattura, è “individuare, verificare, accertare con immediatezza e puntualità le aree del Molise teatro del presunto sversamento di rifiuti tossici”. Viene elaborato un piano di interventi coordinato da tutte le forze dell’ordine insieme al Corpo Forestale e ai Vigili del fuoco.

Nella prima fase, partita il 10 dicembre scorso, viene ispezionato il territorio con il georadar, una sorta di calamita in grado di rilevare la presenza di materiale ferroso nel terreno anche a notevoli profondità. Dall’analisi emerge una lista di siti potenzialmente sospetti, in tutto sarebbero 15 i terreni da esaminare.

L’8 gennaio parte la fase operativa: il primo terreno si trova in località Torciniello, lungo la strada di Bonifica di Venafro. Il proprietario è Vittorio Nola, presidente del Consorzio di bonifica, ente pubblico per il controllo e la gestione delle risorse idrauliche del territorio. Il signor Nola viene avvisato dalla Procura 24 ore prima degli scavi, dà piena disponibilità anche perché – dice – è “incuriosito da tutta quella gente con tute e mascherine”. È convinto che sotto i suoi alberi da frutto, il suo mais e i suoi uliveti non ci sia nulla. Ma il georadar ha rilevato tracce di ferro e le ruspe dei vigili del fuoco riportano in superficie scarti edili, due fusti di olio esausto e una trave di ferro. Non si tratta di rifiuti tossici o radioattivi, ma sono rifiuti e di certo non sarebbero dovuti essere lì. “Mi ritengo parte lesa, sono stato truffato – dichiara Vittorio Nola – farò di tutto per capire chi sia il responsabile, perché né io né i miei mezzadri abbiamo mai autorizzato nessuno a scaricare rifiuti in questo terreno”.

Nei primi tre giorni di scavi, saranno due i siti controllati dall’autorità, entrambi a pochi metri l’uno dall’altro. I contadini, che hanno proprio lì le loro campagne, si chiedono perché abbiano iniziato proprio da quei terreni dove “si sa non c’è nulla di pericoloso”. A preoccupare è un altro campo. Si trova al di là della strada di Bonifica, nella masseria Lucenteforte, a pochi metri dall’oasi naturalistica Le Mortine. È di Ernesto Nola, cugino del presidente di Bonifica Vittorio Nola.

La signora Anna lo dice chiaramente: “lì ci veniva a scaricare la Fonderghisa, i camion li hanno visti tutti, ma nessuno parla”. Da quel terreno – ormai nero e inaridito – teloni di plastica, pezzi di ferro, scarti di ghisa emergono come se fossero fili d’erba. Quando piove l’acqua ristagna in superficie insieme ad una melma verdastra. E tutto intorno ettari di ulivi. Mentre gli scavi delle autorità si sono fermati al 10 gennaio, una testimone ha deciso di voler parlare: “Ho visto tutto, è giusto che io racconti tutto”.

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