Viaggio nel mondo dell’accoglienza in Italia tra prostituzione, droga e violenze


Pubblicato il 6/04/2014                          


centro_accoglienzaAdam (nome di fantasia) non esiste. Ha smesso di esistere il giorno in cui ha deciso di lasciare il suo Paese, la sua casa, la sua famiglia. E’ morto un po’ alla volta, mentre attraversava il deserto, mentre veniva torturato, mentre vedeva le sue compagne di viaggio essere violate ad ogni frontiera. E’ diventato un fantasma, senza nome né storia.

Ufficialmente però è morto il 18 febbraio 2014 a bordo di un barcone diretto in Italia, forse per il freddo, forse per la fame. La sua terra promessa non l’ha mai vista. Se si fosse salvato, avrebbe saputo cosa significa essere un richiedente asilo nel nostro Paese.Avrebbe incontrato gli occhi spaventati di Sifi, un ragazzino di 14 anni scappato dal Mali, chiuso nel palazzetto dello sport di Augusta, la sua nuova casa. La notte l’avrebbe sentito piangere dal freddo.

Il palazzetto dello sport di Augusta è solo una delle settanta strutture temporanee di prima accoglienza aperte in tutta Italia in base legge n. 563 del 29 dicembre 1995, la cosiddetta legge Puglia, emanata durante l’esodo dall’Albania di migliaia di profughi sbarcati sulle coste pugliesi. La legge impone ai prefetti di trovare una sistemazione ai migranti. In queste strutture dovrebbero restare poche ore, il tempo di essere identificati. Rimangono lì per mesi. Il ministero dell’Interno le definisce “temporanee”, ma difficilmente vengono chiuse in tempi brevi. L’emergenza diventa normalità. Così ecco che hangar dei porti, tendopoli o fabbricati diventano la prima casa dei migranti arrivati in Italia.

Accanto a questi centri “provvisori” ci sono quelli di primo soccorso e quelli di primissima accoglienza. La loro funzione è sempre la stessa: identificare il migrante in attesa che venga trasferito altrove. Sono 14 in tutta Italia. Una volta usciti da lì, i percorsi possibili sono due: gli stranieri non richiedenti asilo vengono rinchiusi nei tredici Cie, centri di identificazione ed espulsione, dove restano fino a sei mesi in attesa di essere rimpatriati.

I migranti che invece chiedono protezione al nostro Paese vengono portati nei Cara, centri accoglienza per richiedenti asilo. Sono nove sparsi in tutta Italia. Donne, bambini e uomini di ogni età attendono che la Commissione competente gli conceda lo status di rifugiato. Dovrebbero rimanere lì 35 giorni, alcuni vi restano anche per due anni.

Così dopo Augusta, Adam sarebbe stato trasferito in due o tre centri di prima accoglienza, aspettando di entrare in un Cara. Come un pacco, spostato senza motivo da un posto a un altro. Avrebbe dormito in mezzo all’acqua accanto ad Abdul nella tendopoli allestita in fretta e furia a Messina. Lì avrebbe forse incontrato Asad che in Italia proprio non ci voleva restare. Così si è rifiutato di dare le impronte digitali. Per questo, racconta di essere stato picchiato dalla polizia per 25 giorni nel centro di prima accoglienza di Porto Empedocle e di Pozzallo.

Oppure Adam avrebbe atteso sotto un ponte insieme a Syed che si liberasse un posto nel Cara di Caltanissetta; i suoi “fratelli”, quelli che per pura fortuna sono diventati prima di lui ospiti del centro, avrebbero diviso con Adam i loro pasti e lo avrebbero fatto entrare di nascosto per riempire i barili d’acqua per lavarsi. Mesi e mesi buttati in questo modo, senza lavorare, aspettando di poter iniziare le pratiche per ottenere lo status di rifugiato.

E poi, finalmente, Adam sarebbe entrato in un Cara. Forse sarebbe finito in quello di Mineo, vicino a Catania: 4600 persone sistemate nella vecchia base militare americana di Sigonella a fronte di una capienza di 2000 posti. E’ il più grande d’Europa e il più affollato d’Italia, ma anche negli altri centri la situazione non è migliore: seicento persone in più del previsto a Crotone, settecento a Bari. Per ogni ospite, lo Stato paga all’ente gestore una cifra che varia dai 21 euro ai 40 euro al giorno. Al migrante spettano solo 2,50 euro, pagato in sigarette e schede telefoniche.

Solo per il mese di marzo 2014 il costo totale degli 11 Cara d’Italia è stato 9.582.614 euro, in un anno circa 108 milioni di euro. Soldi che arricchiscono le cooperative che hanno preso in appalto le strutture.

Adam nel Cara di Mineo avrebbe visto le donne uscire al mattino presto, caricate in macchina da alcuni uomini e riportate indietro la sera tardi. Forse avrebbe conosciuto l’operatore che a dicembre ha denunciato un giro di prostituzione nel centro: 5 euro per un rapporto sessuale. Un traffico che coinvolgerebbe anche alcuni dipendenti, tanto che la procura di Caltagirone ha aperto un’inchiesta.

Oppure sarebbe finito al Cara di Castelnuovo di Porto, vicino Roma. Avrebbe visto le donne costrette a prostituirsi negli stanzoni affollati davanti ai bambini, anche con clienti italiani. Avrebbe notato i ragazzini partire la mattina presto per andare a spacciare droga per le vie di Roma perché di 70 euro al mese, il loro pocket money, non si vive.

Lì sarebbe rimasto anche più di un anno, in attesa di essere ascoltato dalla Commissione che decide se concedere lo status di rifugiato. Un tempo infinito, in cui si può impazzire, come urla Hassan davanti al Cara di Mineo.

Se le cose fossero andate bene, dopo sarebbe finito in uno Sprar, sistema protezione richiedente asilo e rifugiati. Magari in quello di Monterotondo, dove avrebbe potuto finalmente imparare l’italiano, vivere in una vera casa, seguire dei tirocini lavorativi. E’ la cosiddetta seconda accoglienza. L’obiettivo degli Sprar è quello di inserire nella società e nel mondo del lavoro il richiedente asilo. Il progetto ha una durata di sei mesi, con possibilità di rinnovo di altri sei mesi.

Ogni migrante ha assistenza legale e sanitaria. Lo Sprar copre tutte le spese: dall’affitto alle bollette. Attualmente i posti disponibili per il triennio 2014-2016 sono 16.000 in vari comuni d’Italia. Le risorse assegnate dallo Stato nel 2013 sono state di 45,9 milioni di euro nel 2013. Meno della metà di quanto sono costati i Cara.

Adam nello Sprar di Monterotondo avrebbe conosciuto Fatima, una ragazza di 30 anni. Durante il suo viaggio verso l’Italia, hanno cercato di bruciarla viva, anche mentre era incinta. L’hanno violentata tutti i giorni per due anni. Lei e suoi tre bambini possono restare nello Sprar per un anno al massimo un anno. Così tra poco Fatima dovrà ricominciare da capo, senza un lavoro, senza una casa. Forse farà come Alina che, dopo lo Sprar, per mantenere suo figlio non ha avuto altra scelta che prostituirsi. Nel 2012 solo il 38% dei rifugiati finito il progetto ha trovato un’occupazione. Tra questi c’è Muntasjan che oggi fa l’operatore sociale nello Sprar di Fara Sabina.

Se fosse sopravvissuto Adam avrebbe conosciuto il volto dell’accoglienza in Italia, un volto che ha gli occhi spaventati di Sifi, la pelle bruciata di Fatima e la voce senza suono di tutte le donne costrette a vendere il proprio corpo dentro i centri d’accoglienza. Avrebbe conosciuto l’indifferenza di chi i migranti dovrebbe proteggerli e l’omertà di chi li sfrutta.

Avrebbe capito che per molti loro sono solo un grosso affare. Ma insieme a tutto questo, avrebbe visto anche l’altro volto di questa storia. Avrebbe incontrato Samantha, la volontaria che consola Sifi quando piange; padre Giuseppe che ogni giorno porta ai migranti di Augusta i vestiti donati dai suoi parrocchiani; avrebbe incontrato Gabriele e Patrizia che assistono i richiedenti asilo sistemati nella tendopoli di Messina. Perché se il sistema d’accoglienza in Italia non è un totale fallimento il merito è soprattutto di chi volontariamente si prende cura di questa umanità dimenticata.

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