Marmo di Carrara, costi e benefici delle cave da chiudere


Pubblicato il 8/04/2014                          
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CartelloCARRARA – Percorrendo l’A12 in direzione Genova, nel tratto in cui i confini toscani sfumano in quelli liguri, è impossibile non notare una città incastrata tra le montagne e accarezzata dal mare. Carrara è un paesone di 64.000 abitanti, famosa in tutto il mondo per il suo marmo bianchissimo. Estratto fin dai tempi dei Romani, plasmato da Michelangelo per La Pietà e trasformato in sculture, facciate e palazzi sparsi in giro per i continenti, oggi l’oro delle Apuane vive uno dei suoi momenti più difficili. Se il valore della materia rimane indiscusso, il prezzo da pagare per ottenerla appare sempre più alto.

Il Parco delle Alpi Apuane, una delle più grandi riserve naturali della Toscana, promosso Geoparco Unesco nel 2011, deve convivere con attività estrattive che ne ledono l’integrità. L’idea della Regione Toscana, contestata dagli industriali, ma anche da lavoratori e sindaci dei comuni interessati, è di far chiudere progressivamente tutte le attività di cava interne al Parco, non rinnovandone la concessione. Il presidente del Parco Alberto Putamorsi ha lanciato l’allarme: “In questo modo più di 1500 persone rischiano di andare a casa”.

Proprio la riduzione dell’impatto ambientale è al centro del nuovo Piano paesaggistico (ancora da approvare in Consiglio) elaborato dalla giunta Toscana e presentato dall’assessore regionale all’urbanistica Anna Marson. Secondo il Piano a chiudere dovrebbero essere 30 delle 45 cave attive all’interno del Parco, ma per il presidente Putamorsi si tratta di una decisione arbitraria presa senza consultare i comuni e soprattutto senza valutare le criticità ambientali sito per sito.

Ponti di VaraLe Alpi Apuane nei secoli hanno visto modificare profondamente i propri tratti, alcune cime si sono abbassate di decine di metri, altre sono state letteralmente mangiate da ritmi di escavazione sempre più serrati. Per le associazioni ambientaliste quello che si sta consumando nella zona è uno scempio, una rapina che trasforma il paesaggio in un simbolo di distruzione.

Solo nella zona di Carrara ci sono circa 80 cave di marmo, distribuite nei quattro bacini estrattivi della città. Che esistano problematiche ambientali e criticità legate all’escavazione è di fronte agli occhi di tutti: dall’evidente impatto visivo al rischio frane, fino al pericolo che le sorgenti vengano intorbidite a causa della marmettola, la polvere di marmo prodotta con il taglio dei blocchi.

Al centro del dibattito è la questione lavoro, non solo per quanto riguarda gli addetti al settore che operano all’interno del Parco, ma anche per tutti coloro che sono direttamente o indirettamente impiegati nel comparto. Secondo l’Istituto di Studi e Ricerche della Camera di Commercio di Massa-Carrara nella provincia ci sono 600 imprese che operano nel lapideo e gli addetti, considerato anche l’indotto, arriverebbero a 12.000. Mentre gli industriali ritengono che il settore sia ancora l’economia trainante della zona, che dà lavoro a un’intera comunità, gli ambientalisti contestano i numeri e accusano le imprese del marmo di monopolizzare l’area, impedendo qualsiasi forma di sviluppo alternativo.

Cava Gioia 2La materia prima in sé però non conosce crisi. In particolare, gli ultimi dati sull’export registrano una forte impennata del settore. La produzione e quindi la quantità di tonnellate scavate è diminuita, ma il valore dell’export è cresciuto ancora nel 2013. Secondo l’IMM, l’Internazionale Marmi e Macchine, l’alto grado di internazionalizzazione delle imprese Apuane ha fatto registrare un’incidenza media dell’export sul fatturato del 56,6%. Il grosso del guadagno delle aziende arriva quindi grazie agli acquisti di Paesi come Stati Uniti, Nord Africa e Cina.

Se il numero dei lavoratori nel settore si è ridotto anche in seguito all’introduzione, ormai risalente a più di 15 anni fa, di nuovi macchinari, l’attenzione alla sicurezza è però aumentata. Il prezzo che i cavatori hanno dovuto pagare negli anni in termini di vite è altissimo: prima era quasi un destino morire in cava. Oggi, grazie a una consapevolezza maggiore da parte di lavoratori e imprenditori e grazie ai corsi mirati organizzati dalla Asl, gli infortuni si sono ridotti di molto. In meno di 10 anni gli incidenti più o meno gravi si sono dimezzati passando dai 167 del 2005 agli 81 del 2013.

Tuttavia il lavoro per molti rappresenta ancora un’utopia. Massa-Carrara vanta un triste primato: in Toscana è la provincia con il tasso di disoccupazione giovanile più alto (64%). I ragazzi spesso non hanno alternative: o se ne vanno o scelgono il mestiere che è stato dei loro padri o dei loro nonni. Eppure per molti fare il cavatore è una scelta, una passione che li lega in maniera indissolubile alle proprie radici.

Camion bloccoL’altro primato di cui Carrara non può andare fiera è che il suo è il secondo Comune più indebitato d’Italia dopo Torino. Ciò è dovuto ai soldi spesi per la costruzione della Strada dei Marmi, un’arteria di 5 chilometri e mezzo costata 119 milioni di euro. Di questi 22 milioni sono stati forniti dai fondi europei, gli altri 97 sono stati invece attivati con mutui accesi dal Comune e quindi con soldi pubblici. La strada è stata pensata per far passare i camion che trasportano i blocchi dalle cave ai depositi lontano dal centro urbano, liberandolo dai rumori e dalle polveri che per anni hanno invaso Carrara. La strada, che in sostanza è stata pagata dai cittadini, ad oggi, e per almeno 5 anni, è riservata al solo passaggio dei mezzi pesanti carichi di marmo. In più, per le 68 famiglie che abitano a Miseglia, un paesino che si affaccia proprio sulla Strada dei Marmi, la vita è diventata un incubo a causa del rumore continuo del lavaggio camion e delle polveri che salgono fino alle loro terrazze.

Ma i prezzi da pagare non sono finiti. Il Comune di Carrara amministra le cave con due diversi sistemi: le concessioni e i beni estimati. Le concessioni vengono date a singole persone o a soci che temporaneamente (in media 29 anni) hanno il diritto di gestire la cava, che comunque resta proprietà del Comune e quindi bene pubblico. I concessionari, per estrarre il marmo, devono pagare un canone fisso al Comune e uno alla Regione. I beni estimati invece sono un retaggio del ’700, eredità di un editto della principessa di Carrara Maria Teresa Cybo-Malaspina. Vengono considerati come proprietà privata a tutti gli effetti, non hanno scadenza, e chi li gestisce non ha l’obbligo di pagare niente al Comune, ma deve versare solo un contributo alla Regione, pari al 5% del valore della produzione. A Carrara i beni estimati sono un terzo del totale, mentre la maggior parte delle cave rispondono a una forma mista a metà tra agro marmifero e bene estimato.

Il marmo, in un modo o nell’altro, continua a essere estratto e a essere venduto a peso d’oro. Oggi però conviene molto di più far lavorare la materia all’estero, dove la manodopera costa meno. La tendenza è quella di imbarcare su una nave il blocco di marmo grezzo. Negli ultimi anni infatti la crisi ha colpito soprattutto le segherie e i laboratori in piano, che hanno chiuso a dozzine. Un’ulteriore conferma è il vertiginoso calo degli iscritti alla Scuola del marmo, un istituto professionale presente solo a Carrara, nato a fine ’800 per formare maestranze da far lavorare in loco.

Il blocco viene quindi sempre di più spedito lontano e non è molta la ricchezza che rimane in zona. Ci sono però alcune eccezioni, o almeno, alcune resistenze. Nonostante molte aziende, soprattutto a gestione familiare, abbiano chiuso, c’è chi, come Bruno Canalini, proprietario di un laboratorio artigiano ereditato dal padre, non si è arreso e prova a far ripartire proprio da Carrara la forza dell’oro bianco.

Vele

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