L’odissea di chi soffre di disturbi alimentari: emergenza cure in mezza Italia. Per salvarsi bisogna ‘emigrare’

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Foto di Francesca De Giacomo

di Valentina Ruggiu

Dall’accesso alla continuità delle cure. Per chi soffre di disturbi alimentari chiedere aiuto in alcune regioni d’Italia può diventare un calvario. E quando mancano i servizi, si scappa. Alla ricerca di mani fidate

“Bevi. Bevi più che puoi”. Quando Laura viene ricoverata al Bambin Gesù di Roma è un “giorno della pesa”: “L’unico in cui faresti di tutto per riavere indietro almeno due chili”. Sono le 10:30, l’acqua bevuta di nascosto inizia a farsi sentire ma si deve concentrare, sforzarsi e trattenerla perché davanti a lei ci sono ancora due ragazze. Passa mezz’ora, la chiamano e al termine della visita può finalmente tirare un sospiro di sollievo: l’ago segna un chilo in più. “Ce l’ho fatta”, pensa. Eppure si ritrova con una flebo nel braccio, su un letto del reparto di psichiatria infantile. Ha 15 anni, soffre di anoressia nervosa e per curarsi, dalla Sardegna, è dovuta arrivare nel Lazio.

In Italia sono tre milioni le persone affette da un disturbo del comportamento alimentare (anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata etc.). Ma chi abita in Calabria, Sardegna o Molise non ha accesso alle cure con la stessa facilità di chi vive in Lombardia o Emilia Romagna. E’ così che la storia di Laura diventa quella di Clarissa, Roberta o Sofia. Sono tutte in cura A Palazzo Francisci di Todi, in Umbria, tra le poche eccellenze italiane nel campo. Vengono tutte dalla metà sbagliata d’Italia: quella in cui le strutture non ci sono o non sono adeguate e loro, per salvarsi, hanno dovuto emigrare.

LE RETI DI CURA CENTRI INADEGUATI

COSTRETTI A EMIGRARE  I COSTI DELL’EMIGRAZIONE PRIGIONIERI DELLE REGIONI QUANDO I MEDICI SONO INCOMPETENTI

I centri in Italia, la mappa di un’assistenza a macchia di leopardo

In Italia  le strutture per curare i disturbi alimentari sono 143: quasi tutte concentrate al centro-nord, mentre al sud regna il vuoto assistenziale. Sono poche e mal distribuite ma non è solo una questione di numeri: non tutte offrono i servizi necessari alle varie fasi della malattia e, soprattutto, molte non operano secondo gli standard di cura consigliati dal Ministero della sanità.

Le reti regionali. Il trattamento dei disturbi alimentari prevede quattro livelli di assistenza: l’ambulatorio, il day hospital, il ricovero salva vita e quello in regime residenziale. Non è obbligatorio che il paziente li affronti tutti, ma la loro presenza è necessaria per creare una rete di cura regionale in cui si può passare da un trattamento all’altro senza rischiare di rimanere scoperti.

Il primo progetto per le reti regionali per i disordini alimentari del ministero della Sanità risale al 1998, cioè da quando per la prima volta si tentò di omologare la cura di queste patologie in tutto il paese. Ciò nonostante, a distanza di quasi 20 anni, solo 10 regioni su 20 l’hanno completata. Di solito a mancare sono i livelli più intensivi come i due ricoveri, ma in alcune parti d’Italia è difficile trovare anche l’assistenza più semplice.

Oltre i numeri, questione di metodo. Su 143 strutture solo 88 sono adeguate alla cura. A sostenerlo è “Consulta Noi”, un’associazione di genitori e parenti di malati di disturbi alimentari, che da anni lotta per migliorare la qualità dell’assistenza a queste patologie. Per trattare i sintomi di una malattia che colpisce anima è corpo c’è bisogno di un’approccio “psico-nutrizionale” in grado di agire contemporaneamente su entrambi i fronti. Per questo il ministero della Sanità ha previsto che all’interno delle strutture operino almeno uno psicologo, un medico e un nutrizionista. In tanti centri però sono presenti solo psichiatra e nutrizionista, mentre in tanti altri si opera addirittura con solo una delle tre professionalità richieste. La presidente di Consulta Noi Mariella Falsini non ha voluto fornire i nomi delle singole strutture ma, conoscendo i criteri di ricerca da loro utilizzati e consultando i dati nel portale www.disturbialimentarionline.it, è stato possibile individuarne almeno 51.

Alle regioni rosse si aggiungono il Lazio, la Liguria e la Sicilia. Saliamo a quota 13 e ora, vista con gli occhi di chi cerca aiuto, l’Italia non ha più nulla dello Stivale. Non ha tacco, punta o gamba. È mozzata sino all’Umbria e all’Emilia Romagna. Via le isole e qualche regione del nord. E se seguire un percorso di cura completo diventa impossibile, allora si scappa. Alla ricerca di chi le cure le offre e anche bene.

COSTRETTI A EMIGRARE

Torino – Todi – Torino: 1200 km in 48 ore. Per tre mesi, ogni week end, i genitori di Maristella dovranno lasciare le altre due figlie ai nonni e arrivare in Umbria. “In Piemonte strutture residenziali che accettano bambini al di sotto dei 14 anni non ce ne sono e Ginevra di anni ne ha solo 12”. Alle spalle però ha già un anno e mezzo di anoressia e un ricovero di sei mesi.

Dal Piemonte alla Calabria, dal Lazio alla Sicilia. L’Italia s’incontra a Todi quando si tratta di curare i disturbi alimentari in modo intensivo. L’Umbria è stata tra le prime regioni a sviluppare una rete per la cura e da anni ormai è un punto di riferimento nel trattamento di queste patologie. È qui infatti che si trova una delle poche eccellenze italiane: Palazzo Francisci, una struttura residenziale inserita in un percorso terapeutico che accompagna gradualmente i pazienti sino al ritorno alla vita normale. Il ricovero può durare dai tre ai sei mesi, in base alla profondità con cui i comportamenti e i pensieri malati si sono radicati nella personalità del paziente. Un luogo protetto, quasi una campana di vetro, in cui i ragazzi ospitati si sentono in condizione di abbassare le barriere costruite in anni di malattia.

 Ed è qui, parlando con pazienti e genitori, che emergono i problemi di cui nessuno parla: la fatica di trovare mani sicure a cui affidare la propria vita o quella del figlio, l’ignoranza incontrata nelle soluzioni sbrigative di tanti medici. E poi le lungaggini burocratiche: autorizzazioni attese all’infinito o addirittura negate. Problemi che mettono in luce come in molti casi la rete di cura non è altro se non un insieme di nodi senza alcun collegamento. Reti che talvolta si trasformano in catene.

I costi di una ‘emigrazione’ forzata

Per le famiglie.  I continui spostamenti non sono viaggi di piacere. Ogni sabato mattina a Palazzo Francisci le mamme e i papà dei pazienti in cura si confrontano tra loro e con i terapeuti. Nel trattamento dei disturbi alimentari, specialmente nei pazienti giovani, la famiglia ha un ruolo chiave nella guarigione. Molti dei problemi alla base di queste malattie infatti hanno origine proprio nel contesto familiare, per questo è necessario risanare il legame e le dinamiche sbagliate. Ma non tutti possono assentarsi dal lavoro o hanno i soldi per fare su e giù per l’Italia. E l’assenza di una persona cara incide anche sulla motivazione e la psiche del paziente, di chi per guarire già è in lotta con se stesso. Il percorso lo si affronta da soli, ma ogni tanto una mano da stringere serve a tutti.

E se i sacrifici non bastano ci sono le spese per la benzina, quelle dei week end fuori casa tra dormire e mangiare e per alcuni anche i soldi di un appartamento in affitto. Come per Francesca, romana, che dopo il ricovero a Palazzo Francisci ha deciso di continuare il percorso in regime semi residenziale a Todi: dal lunedì al venerdì ha i pasti assistiti al centro “Nido delle Rondini” mentre il sabato e la domenica deve essere in grado di gestirsi da sola. A Roma sarebbe impossibile ottenere lo stesso servizio, senza contare che ormai con quei dottori-amici si è stretto un legame terapeutico difficile da ricreare.

Il Lazio è una di quelle Regioni che sulla carta ha tutti i livelli di assistenza necessari, ma “a Roma funziona solo una Asl per i disturbi alimentari”, spiega la mamma di Clarissa. Mentre la struttura residenziale presente sul territorio è in realtà una clinica psichiatrica in cui vengono curati disturbi psicologici di ogni tipo. Un ambiente completamente diverso rispetto a quello di Todi. “Quando i pazienti la vedono scappano”, dice la dottoressa Laura Dalla Ragione, referente al Ministero della Sanità per i disturbi alimentari e responsabile dei centri Palazzo Francisci e Nido delle Rondini. E la conferma arriva dai genitori di Francesca: “camici bianchi, lettini d’ospedale, sbarre alle finestre. Qui voleva farla curare la nostra Asl”.

I costi per le regioni. Le spese svuotano le tasche delle famiglie, ma anche le casse delle Regioni. Un ricovero di cinque mesi in una struttura residenziale come Palazzo Francisci può arrivare anche a 50mila euro. Per questo non tutte le aziende sanitarie concedono con il sorriso l’autorizzazione a curarsi in centri extraregionali. Anche perché registrare la mobilità passiva dei pazienti significa ammettere che la propria sanità ha dei buchi. “Se una regione attivasse tutti i livelli di cura, o almeno li rendesse adeguati, risparmierebbe molti soldi è ovvio – continua Dalla Ragione – ma non c’è l’interesse a farlo”.

Secondo l’associazione Fenice Lazio Onlus, dal 2008 a oggi il Lazio ha speso oltre 500mila euro per inviare pazienti a sanità extra regionali. Di più si calcola per le Marche: minimo 805mila euro tra il 2013 e i primi mesi del 2016. Il dato però è incompleto, una stima ottenuta consultando manualmente l’albo pretorio online di tutte le aziende sanitarie della regione e individuando le autorizzazioni firmate attraverso delle parole chiave. Con questa malattia non è facile nemmeno ottenere dati, tra mille rimbalzi e chi invece non li ha.

Prigionieri delle regioni: quando le autorizzazioni non arrivano

Nel caso dei disturbi alimentari ci sono tre tipi di pazienti extra regionali: quelli che ottengono subito l’autorizzazione, quelli che se la sudano e quelli a cui viene negata. La legge italiana prevede che un paziente possa usufruire di prestazioni mediche extraregione a carico del Sistema sanitario solo nel caso in cui dove vive non ci siano strutture che erogano i trattamenti necessari. La Sardegna è uno di questi casi ma Antonello Contini il 25 febbraio ha dovuto denunciare la Asl di Nuoro per ottenere un po’ di ascolto: “Mia sorella Sara è malata da 20 anni di anoressia e ha già subito quattro ricoveri coperti dall’azienda sanitaria nuorese, ma ora, che si sta concedendo un nuovo tentativo a Parma, il medico che ha esaminato il suo caso non vuole mettere la firma per il via libera. È una vergogna”.

A minacciare la denuncia sono anche i genitori di Sofia, ragazza minorenne in cura a Palazzo Francisci, a cui un medico dell’azienda sanitaria di Siena non vuole rinnovare l’autorizzazione per restare a Todi. Per lei è il secondo ricovero e già con il primo i genitori avevano avuto problemi. “Si è rivolta ai privati? Continui da loro. Io non sono qui solo per mettere firme”, questa la risposta che hanno dato a una madre disperata. Colpevolizzata per essersi rivolta a un’associazione privata, dopo che la pediatra di famiglia si era rifiutata anche solo di visitare la ragazza. Poi la minaccia: “L’altra volta qualcuno ha fatto una procedura non autorizzata per darle la liberatoria, non speri che accadrà di nuovo”.

Se non avere un centro nella propria regione è un problema, averne uno non idoneo lo è due volte: per la sanità regionale il servizio è  comunque offerto e se ci si vuole rivolgere a strutture veramente competenti, ma fuori regione, c’è il rischio che l’autorizzazione per ottenere le cure non arrivi mai. Lo stesso accade se la struttura della propria regione è al completo. In una situazione drammatica, in cui una ragazza perde chili ogni settimana, piuttosto il consiglio delle Asl è quello di aspettare che si liberi un posto.

Le liste d’attesa, una corsa contro il tempo

Le strutture residenziali extra ospedaliere sono poche: circa il 7% delle 143 totali. Se si considera poi che la maggior parte sono cliniche psichiatriche o posti letto all’interno di ospedali, il numero si riduce ulteriormente. E mentre la lista d’attesa per i centri validi aumenta, per le strutture diventa sempre più complicato dare una risposta nel momento del bisogno. Un problema che hanno anche i reparti ospedalieri in cui vengono effettuati i ricoveri salva-vita o i day hospital, servizi per cui la tempestività dell’intervento diventa elemento ancora più cruciale. Il problema emerge sempre dai racconti delle mamme: “Aspettavamo il day hospital a Roma ma non siamo mai riusciti a entrarci. Anche lì probabilmente ci sono liste d’attesa. Nel frattempo lei aveva tolto anche l’acqua e ho chiesto aiuto a mio fratello medico per farla ricoverare un paio di giorni in una clinica, almeno per idratarla – spiega la mamma di Francesca – per entrare a Todi poi abbiamo atteso due mesi solo per ottenere la prima visita. E da maggio, quando l’hanno valutata, il primo posto si è liberato a ottobre. è stata una fatica…si stava scoraggiando Francesca. Non ce la faceva più lei, non ce la facevamo più noi”. Sempre a Roma Clarissa e la mamma hanno passato due notti al pronto soccorso per cercare una via d’accesso diretta al reparto. L’unico tentativo possibile per saltare una fila, soprattutto in una regione in cui i posti letto dedicati ai disturbi dell’alimentazione sono pochi e coprire anche le mancanze dei territori limitrofi.

Non c’è nessuno che ti aiuta”: medici impreparati, si chiede aiuto ad amici e a Internet

“Non c’è informazione assoluta. Neanche un medico mi ha saputo dire dove potevo rivolgermi”. A parlare è la mamma di Clarissa, 18 anni e da un mese in cura a Palazzo Francisci. “Ho perso notti intere su internet a cercare di capire come curare questa figlia, altrimenti non c’è nessuno che te lo dice”. “E per una persona che non sa usare Internet?”. “E’ pericolosissimo”, risponde. Il tono è fermo, quasi duro. Come quello di tutti i genitori che hanno un figlio malato: è la forza di chi ha già fatto tanto e che se si lascia andare non si rialza. Con questa malattia non ci sono tempi o prognosi certe. Dipende tutto dalla forza di volontà e dalla capacità di lavorare sul proprio vissuto. Tuttavia ciò che può influenzarne positivamente il decorso sono due fattori: la tempestività dell’intervento e la continuità delle cure. Prima si agisce, meno la patologia si cronicizza. Ma se i medici di base non sono preparati a riconoscere i sintomi si perde tempo prezioso. E ogni minuto sprecato è un minuto regalato alla malattia.

“Cosa è necessario fare? – ripete la presidente di Consulta Noi Mariella Falsini – inserire nei livelli essenziali di assistenza, come prestazioni che il Sistema sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini. Solo così ogni regione sarà obbligata a creare un percorso di cura per i disturbi del comportamento alimentare, rendendo possibile il trattamento della malattia in ogni luogo, da Firenze a Siracusa. Ma per ora le persone vengono rimandate a casa con l’esortazione a non vomitare o mangiare di più”. E se proprio non vogliono farlo c’è chi si è sentito rispondere: “Signora stia tranquilla, gli attacchiamo un sondino”. Come Barbara, 29 anni, ripete ancora incredula le parole del proprio nutrizionista: “Se mangi o non mangi io lo stipendio lo prendo lo stesso”.