La Liberazione delle Marche » Bombardamenti e rappresaglie http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche a cura della redazione de Il Ducato, testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino Wed, 04 Jun 2014 09:01:16 +0000 en-US hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.5.1 a cura della redazione de Il Ducato, testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino La Liberazione delle Marche no a cura della redazione de Il Ducato, testata dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino La Liberazione delle Marche » Bombardamenti e rappresaglie http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?cat=7 “A Ca’ Mazzasette i nazisti hanno ucciso mia nonna sulla porta di casa” http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=656 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=656#comments Wed, 02 Apr 2014 08:50:43 +0000 Federico Capezza http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=656

Il monumento alle vittime dello scontro di Ca' Mazzasette

“Mia nonna non ha avuto nemmeno il tempo di capire che cosa stava succedendo. Ha sentito degli spari, il verso dei cani, le urla in tedesco. Si è affacciata alla porta e le hanno sparato”. Tina Cecchini Corbucci il 1 novembre 1943 aveva 17 anni. La strage di Ca’ Mazzasette la vede con gli occhi di allora, di una ragazza affacciata alla finestra di casa, la stessa casa dove vive ancora oggi.

I poliziotti nazisti erano venuti da Rimini a cercare Erivo Ferri, il calzolaio del paese, comunista e, secondo un informatore dei fascisti, ben armato. Ma quello che doveva essere un semplice arresto si subito trasformato in uno scontro a fuoco che lasciò a terra tre civili e un soldato tedesco. “Ho visto il camion dei tedeschi salire dalla strada provinciale – racconta Tina – la sparatoria è cominciata quasi subito. All’altezza delle Casacce, alle porte del paese, un ragazzo è uscito di casa correndo, si era spaventato vedendo arrivare il camion carico di uomini armati. Gli hanno sparato alla schiena mentre fuggiva in direzione del fiume, al margine del bosco”. Il ragazzo si chiamava Pierino Bernardi, 19 anni. Il suo corpo sarà ritrovato una settimana dopo.

Arrivati nel centro del paese, i tedeschi iniziano a sparare in aria: “Non circondano subito le case, prima si schierano di fronte, poi entrano. Intanto sparano e sembra che sul tetto cada la grandine”. Una donna si affaccia alla porta di casa: è Adele Cecchini, la nonna di Tina. I soldati la freddano con una sventagliata di mitraglietta e la stessa sorte tocca ad Assunta Guarandelli, 30 anni, madre di due bambini e in attesa del terzo figlio. “Assunta si era affacciata dal balcone per chiamare i figli dentro casa dopo aver sentito i primi spari – ripercorre con la memoria Tina Cecchini – i tedeschi l’hanno vista sulle scale e l’hanno uccisa. Hanno sparato ai civili senza un motivo, indiscriminatamente”.

Ma cosa accade davvero a Ca’ Mazzasette? Perché quello che doveva essere un semplice arresto è diventato un triplice omicidio, una strage? La storiografia ufficiale dice che il primo reparto tedesco, dopo alcune raffiche a scopo intimidatorio, tenta di entrare nell’abitazione di Ferri, ma il calzolaio si difende sparando e lanciando granate.

“Sentivamo Erivo sparare. Anche suo cugino, Mario Ferri, prese il fucile appena vide che i soldati volevano arrestare Erivo. Mario sparò ai tedeschi mentre stavano davanti al portone della casa del cugino, e poi un tedesco è morto, credo ucciso da lui”. A quel punto i tedeschi chiamano i rinforzi e altri due camion carichi di soldati entrano in paese, ingaggiando una battaglia a colpi di mitragliatrice e bombe da mortaio.

“Ci hanno fatto uscire tutti – riprende Tina – ci hanno circondato con le mitragliatrici e ci hanno detto che avrebbero bruciato le case. Mia madre implorava che ci lasciassero vivere e che mi lasciassero finire gli studi. Ci hanno portato alle Casacce, dove era stato ucciso il ragazzo, e ci hanno tenuto lì mentre sentivamo che in paese si continuava a sparare, ma non riuscivamo a capire cosa stava accadendo. Dopo hanno portato via tutti gli uomini, 29 persone, compreso mio padre (Zilio Cecchini, arrestato perché era rimasto in casa durante il rastrellamento, ndr). Li hanno portati a Rimini, ma ne liberarono 25 nelle settimane successive. Mio padre era uno degli ultimi quattro e i tedeschi lo obbligavano a togliere le bombe inesplose dalla ferrovia. Un giorno, durante un bombardamento alleato, un ordigno è caduto è caduto sul carcere e mio padre e i suoi compagni di prigionia sono riusciti a fuggire ed è tornato a casa. Quando è tornato ha detto: ‘È giusto essere tornati oggi, è la festa degli innocenti”. Era il 28 dicembre 1943, sei mesi dopo sono arrivati gli inglesi”.

Erivo Ferri, invece, riesce a non farsi catturare. Per qualche giorno rimane nascosto in alcune abitazioni nei dintorni di Ca’ Mazzasette, poi viene trasferito a Cantiano, da dove guiderà il distaccamento d’assalto “Picelli”, una delle formazioni partigiane impegnate nella lotta contro i nazifascisti.

]]>
http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?feed=rss2&p=656 0
La vendetta tedesca nel luglio del 1944: le rappresaglie della Torre e dell’Orsaiola http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=245 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=245#comments Wed, 02 Apr 2014 08:24:20 +0000 Stefano Rizzuti http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=245 La guerra non è solo quella delle trincee e dei bombardamenti, ma è anche quella che viene a prenderti dentro casa. Che uccide tutti senza criterio: donne, anziani e bambini. Nella zona di Urbino è successo nel giro di pochi giorni: dal 5 al 14 luglio del 1944.

La rappresaglia della Torre. Il 5 del mese i partigiani decidono di dar vita a un atto dimostrativo: vogliono far saltare il ponte di Tre Archi, sulla strada che collega Urbania e Piobbico. In quel momento arriva da Apecchio un sidecar di un maresciallo delle SS. I partigiani lo uccidono e il soldato che è con lui morirà il giorno dopo. L’alba del 6 luglio ha inizio la rappresaglia tedesca.

A raccontarlo è don Sergio Campana, diventato il parroco della Torre pochi mesi dopo: “Hanno iniziato a seguire le tracce dei partigiani con i cani ma hanno risparmiato ‘Mamma Cesira’ che aveva dato da mangiare ai tedeschi – racconta don Sergio – subito dopo hanno fucilato quattro uomini e dato fuoco alle loro case”.

La risalita tedesca continua dando fuoco a tutte le case che trovano per strada. In undici si rifugiano dentro una stalla: vengono stanati e fucilati. Francesco Canti viene colpito a una gamba, cade a terra e sviene: “Non per il dolore ma per aver visto la sua casa in fiamme con i figli dentro – continua ancora don Sergio – i tedeschi passano a dare il colpo di grazia, ma Francesco è coperto da altri cadaveri e così si salva”.

Intanto Carmela Canti, la madre di quei bambini, chiede pietà ai tedeschi spiegando che lì dentro ci sono i suoi figli avvolti dalle fiamme, nel letto. I soldati non conoscono l’italiano e non capiscono quello che dice la donna: le danno un colpo sui denti col calcio del fucile. L’unico in grado di salvare i bimbi è il loro fratello maggiore, Giuseppe Canti, di 8 anni: “È entrato in casa e ha liberato la sorellina di un anno e il fratello di due”, continua don Sergio.

Tra i fucilati c’è anche Biagio Rossi, un settantenne che abita lì di fronte. Don Sergio racconta che l’uomo ha sentito gli spari e ha esclamato: “Vado a vedere, tanto sono vecchio, cosa ci possono fare i tedeschi con me?”. Ma i tedeschi non lo trattano diversamente dagli altri uomini della Torre.

Il rastrellamento dell’Orsaiola. Pochi giorni dopo, però, alla storia della guerra a Urbania si aggiunge un nuovo capitolo: il rastrellamento dell’Orsaiola. Quello che è successo il 7 luglio lo racconta un testimone dell’epoca che non vuole rivelare pubblicamente il suo nome perché l’importante è conoscere i fatti e non chi li riporta: “È successo a 200 metri da dove stavo io dopo esser fuggito dalla città bombardata – racconta chi ha vissuto quei momenti – i tedeschi sono entrati nella chiesa e hanno sparato alcuni colpi: ancora oggi ci sono i bozzi nella chiesa”.

Lì hanno preso alcune persone e le hanno portate in una casa: “Hanno fatto merenda insieme, sembravano volerli lasciare – spiega il testimone – loro si sono allontanati e quando erano a circa 50 metri di distanza hanno sparato loro”. “Ci furono 5 morti, tra cui una giovane ragazza che chiedeva pietà in lacrime, provando a convincere il fratello, passato dalla parte dei tedeschi, a risparmiarla”, conclude il suo racconto l’uomo.

Altri due uomini, Venanzio Maccarelli e Vincenzo Londei, ‘rastrellati’ in quei giorni, furono trasportati a Urbino e fucilati. Ora una lapide li ricorda nel parco della resistenza, sulla collina alla fine di via del Popolo che affaccia su Palazzo Ducale.

Stefano Rizzuti
Antonella Ferrara
Ilaria Betti

]]>
http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?feed=rss2&p=245 0
“Zio, mi dai un bacio?” poi lo scoppio. Il bombardamento ‘sbagliato’ di Urbania http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=265 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=265#comments Wed, 02 Apr 2014 07:44:25 +0000 Ilaria Betti http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=265 Arrivavano da tutte le parti d’Italia per rifugiarsi qui. Urbania sembrava un posto tranquillo, risparmiato dalla guerra. Le bombe erano lontane, gli aerei, diventati quasi una presenza “amica”, sorvolavano la città senza destare preoccupazioni. Nessuno aveva paura. Fino al 23 gennaio del 1944. Alle 12.42, mentre i fedeli uscivano dalla messa, gli americani iniziarono a bombardare la piazza. Su una popolazione di 6000 abitanti, più di 250 persone morirono, spazzate via dallo scoppio o sepolte sotto cumuli di macerie. I feriti furono 515. Anche la città subì gravissimi danni: 284 abitazioni vennero distrutte, oltre 1500 danneggiate. “Non eravamo preparati. Nessuno se lo aspettava – racconta Angela Bifaro, che all’epoca aveva 7 anni – ero scappata da Napoli insieme alla mia famiglia per venire qui. Sapevamo che a Urbania tutto era tranquillo. Cercavamo un rifugio ma trovammo la morte. Persi entrambi i genitori nel bombardamento, morirono anche i miei nonni e i miei due fratelli, di 3 e 10 anni. Rimasi da sola”.

Nessun presidio militare, nessuno snodo ferroviario importante, nessuna traccia dei tedeschi in città: ancora oggi il bombardamento di Urbania sembra a molti un mistero. E i sopravvissuti, colti alla sprovvista dalle bombe, sono ancora alla ricerca di una spiegazione. “Si dice che la città sia stata bombardata per sbaglio e che il vero obiettivo fosse Poggibonsi, in Toscana – afferma Don Piero, il parroco di Urbania, che conosce bene le vicende anche se all’epoca non era ancora nato – i rapporti ufficiali della missione americana non menzionano Urbania da nessuna parte mentre segnalano la presenza degli aerei su Poggibonsi nello stesso giorno e alla stessa ora in cui bombardarono la nostra città”. Ma c’è anche chi parla di un errore “umano”: “Accanto alla chiesa c’era allora un circo, una piccola giostrina azionata da un asino – continua Don Piero – probabilmente scambiarono il tendone per l’accampamento dei tedeschi”.

FOTOCONFRONTO La città bombardata e la città ricostruita

Mentre la paura di un nuovo attacco agitava ancora i cuori, gli abitanti di Urbania iniziarono la ricostruzione. Gli edifici danneggiati del centro storico vennero ricostruiti seguendo l’andamento dei vecchi palazzi. E nella chiesa dello Spirito Santo, colpita in pieno dal bombardamento e quasi completamente rasa al suolo, fu eretto nel 1949 un Tempio Votivo alla memoria delle vittime. Una porta in bronzo, una croce con le bombe ai piedi e un mosaico di 65 metri quadri ricordano la tragedia della guerra. E lo fanno anche attraverso i racconti e le fotografie di quel giorno esposte sulle pareti. Proprio in occasione dell’inaugurazione della porta, nel 2006, il Sindaco Luca Bellocchi e il parroco Don Piero scrissero una lettera per ribadire l’importanza del ricordo: “È necessario ravvivare la memoria di un avvenimento che, con il passare del tempo e delle generazioni, rischia di affievolirsi per poi disperdersi tra le tante pagine della storia della nostra città. Ma che non deve accadere mai più. Ricordare è fondamentale”.

Il bacio d’addio. “Avevo 26 anni all’epoca. Quella mattina – racconta Pietro Paci – ero uscito perché ero inquieto, non mi sentivo al sicuro. A casa c’erano cinque persone, tra cui mia mamma, malata a letto. Mi ricordo che scesi le scale e incontrai la mia nipotina di nove anni, che stava facendo i compiti. Mi disse: “Zio, mi dai un bacio?”. Io glielo diedi e mi incamminai nel vialetto. Feci in tempo a percorrere pochi metri prima di sentire lo scoppio. Istintivamente mi misi a correre verso casa ma prima di arrivare incontrai una persona che conoscevo che mi disse: ‘Pietro, la tua casa non esiste più’. Persi tutti e cinque i miei parenti ma i loro corpi non si ritrovarono mai, tranne quello di mia madre, sprofondata nella terra insieme al letto”

Amarsi fino alla fine. “In città si è sempre raccontata la storia tragica di due fidanzatini – racconta Don Piero – quella mattina lei era andata a messa, lui l’aveva raggiunta per salutarla. Si parlavano separati dal vetro della porta della Chiesa. Ma ad un certo punto arrivarono le bombe. Lei si salvò perché era all’interno. Di lui si recuperò solo qualche povero resto nella zona della piazza. Il suo corpo era volato oltre i palazzi e si era quasi disintegrato a causa dello spostamento d’aria. Il riconoscimento, se così si può dire, fu fatto con un pezzo della cintura che indossava”

Il posto giusto. “Arrivarono gli aerei, ebbi paura e mi nascosi in una piccola cappella – racconta il diacono Giuseppe Mangani – ma non mi sentivo al sicuro così mi spostai in un altro rifugio poco lontano. E così, per caso, mi salvai perché poco dopo venne bombardato proprio il posto in cui mi ero nascosto all’inizio. Mi ricorderò sempre la montagna di cose che volava e le grida della gente. Ma io i morti non li ho visti. Per tantissime notti dopo il bombardamento, però, continuai ad avere gli incubi. Non riuscivo a togliermelo dalla mente”

I segni del bombardamento. “Quando arrivarono le bombe, ero con mamma e papà – racconta Itala Spugnin, moglie di Giuseppe Mangani – mi ricordo che mio padre ci prese e ci mise sotto un arco, che fortunatamente non crollò. Ma non dimenticherò mai l’immagine di mio padre insanguinato e della sottoveste stracciata di mia madre, rimasta quasi completamente nuda. Ho ancora una scheggia in testa a ricordarmi quel giorno maledetto”

23 Gennaio 1944. Il Fumetto della scuola del Libro di Urbino

Ilaria Betti
Antonella Ferrara
Stefano Rizzuti

]]>
http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?feed=rss2&p=265 0
21 gennaio: la notte che cambiò Montecchio. Lo scoppio, la paura, la rinascita http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=138 http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=138#comments Tue, 01 Apr 2014 16:32:39 +0000 Giuseppina Avola http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?p=138 Montecchio. È una sera di fine gennaio del 1944. Gelida. Le famiglie si siedono a tavola. Poca roba, la guerra deve ancora finire. Al circolo di Piazza della Repubblica i soldati tedeschi e i montecchiesi bevono insieme qualche bicchiere di vino. Gino Ricci, 22 anni, è un soldato in licenza premio, da poco tornato dal fronte jugoslavo. Quella sera è insieme a due amici e decidono di cenare in casa. Vedono il paese da due chilometri di distanza e i piedi sui pedali delle loro biciclette iniziano a spingere più forte.

A un certo punto sentono le esplosioni delle capsule delle mine del deposito in piazza della Repubblica. Poi “boom”, scoppiano tutte insieme. Poi silenzio, poi grida. Una nube di fumo immensa inghiotte il cielo di Montecchio.

Il deposito di mine che i tedeschi avevano spostato da Pesaro a Montecchio è esploso. Sono stati i partigiani. Lo avevano promesso. E avevano anche detto: “Vi avviseremo”. “I tedeschi lo avevano messo lì perché tanto c’era la gente e non lo avrebbero fatto esplodere”, spiega Ricci a 70 anni di distanza. Ma bisognava distruggerlo lo stesso o l’avanzata degli inglesi sarebbe stata molto più lenta. Quelle mine avrebbero fatto saltare i cingoli dei loro carri armati. “La guerra è così”, sentenzia Ricci.

Placido Gulino, il prigioniero venuto dal sud, il piantone del deposito, corre da una parte all’altra del paese. “Via, via, andate via”, grida. Qualcuno lo ascolta e scappa a gambe levate. Altri non gli danno retta: “È un mese che ci dite che scoppia tutto, non vi crediamo più”. Gulino muore insieme a trenta montecchiesi; quelli che lo hanno ascoltato, tanti, si salvano. Il fratello e la sorella di Gino Ricci scappano da casa in mutande. Poi Gino scava e scava: i suoi genitori sono sotto le macerie. Li trova abbracciati nel letto.

(Le immagini storiche sono state gentilmente messe a disposizione dall’archivio della Biblioteca Bobbato di Pesaro e da Cristina Ortolani)

Gino Ricci, di quella notte ricorda “un raggio di fuoco alto due o tre chilometri”, i vetri rotti di tutti i paesi del circondario, le grida della gente, le case rase al suolo e una quercia alta quattro metri troncata nel mezzo: “Neanche quando hanno bombardato Fiume ho avuto tanta paura”.

Dopo lo scoppio, dopo quel 21 gennaio 1944, Montecchio non fu più la stessa. O forse sarebbe il caso di dire, Montecchio fu per la prima volta. Sì, perché l’evento storico dell’esplosione del deposito di mine divenne elemento fondante della memoria collettiva dei sopravvissuti.

“Ho raccolto molte testimonianze – spiega Cristina Ortolani, autrice di “Un paese lungo la strada” – volevo ricostruire la storia di questo paese tra Pesaro e Urbino, prima e dopo lo scoppio. Eppure ogni volta che chiedevo cosa ci fosse prima del 1944, tutti mi rispondevano che non c’era niente. Come se l’esplosione avesse cancellato tutto, spazzato via la memoria di quello che era stato. Non rappresentava la fine ma l’inizio di una civiltà”.

Le parole per descrivere ciò che avvenne si ripetono uguali sulle bocche di chi aveva sentito come una mazzata l’esplosione della dinamite e visto la nube di fumo levarsi alta su piazza della Repubblica. Di chi aveva visto i parenti morire, incastrati sotto le macerie, di chi aveva cercato di rientrare in casa, scavalcando macerie, polvere, brandelli di quel che restava di armadi, letti, seggiole o che aveva tirato su baracche di fortuna con quel poco che stavano lasciando i primi soldati alleati che già si aggiravano per i campi.

La memoria si è cristallizzata, ha unito la cittadinanza, facendo scomparire le differenze: dopo quel momento catartico non ci fu più la camicia nera che più nera non si può, né il partigiano, non si distinse più tra buoni e cattivi. Montecchio non era più il paese con l’osteria in cui si fermavano i viandanti che viaggiavano verso Pesaro, né la cittadina lambita dal Foglia, la cui portata spesso trascinava via il ponte che la collegava con Urbino. Era ormai la città dello scoppio, della fiamma di fuoco che aveva fatto alzare lo sguardo al cielo degli abitanti dei paesi vicini: Sant’Angelo in Lizzola, Monte Gridolfo, Ripe.

E da allora tale è rimasta. Nel ricordo degli anziani e nei loro racconti ai giovani montecchiesi che ogni anno, il 21 gennaio, si ritrovano a commemorare i caduti. Di quello scoppio rimane, ora, un monumento: marmo bianco al centro della piazza, una corona d’alloro con il tricolore, due lastre di bronzo con l’elenco dei morti.

La città tutto intorno è risorta spinta dall’urgenza: a gennaio fa freddo e bisognava procurarsi un tetto. Ogni montecchiese, soccorsi i feriti, seppelliti i morti, ha ricostruito la propria abitazione sulle spoglie di quella venuta giù. Così, una pietra sull’altra non erano quelli giorni in cui restava tempo per pensare. C’era solo la necessità di ritornare alla vita di sempre, ripartendo da se stessi, uniti attorno al ricordo confuso di un microcosmo spazzato via in una sera d’inverno.

Giuseppina Avola
Mario Marcis

]]>
http://ifg.uniurb.it/network/1944-guerra-marche/?feed=rss2&p=138 0