La
storia
Il
terreno in contrada Piccio dove sorgerà il grosso centro
perviene all'associazione fra produttori di agrumi della Sicilia
con sede a Catania nel 1984. Nel 1991 il Comune
di Avola rilascia in data 24 gennaio una concessione intestata
all'onorevole Salvatore Urso, nato ad Aci Sant'antonio il
31 marzo 1925. La concessione viene a lui rilascita in qualità
di presidente dell'associazione Apas, con sede in piazza Bellini
n.19. La concessione viene ritirata da Sebastiano Inturri,
allora presidente della Coldiretti, in qualità di socio dell'Apas.
Viene poi costruito il capannone, inaugurato, mai aperto.
Dopo vicende giudiziarie avverse, mentre l'Apas di Catania
chiude, i soci vengono processati e condannati. Il capannone
è in mano ai creditori e il bene torna alla Regione. Sotto
la giunta Li Gioi Enzo Morale chiede al Comune di Avola di
rilevare l'Apas. Nessuna risposta. Dopo, solo vandali e drogati
ne hanno beneficiato.
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Il centro Apas, annunciato
e vagheggiato come traino di un'economia fondata sui limoni. "La
speranza dei coltivatori avolesi". Ora regno di vandali e drogati.
Passando per scandali, personaggi noti nel fango, delusione dei
coltivatori diretti. Apas: un nome scomodo, un ricordo che molti
rimuovono. (link file audio).
Ma qualcuno parla, qualcuno
anzi sfoga risentimento e rabbia. "L'Apas non è mai entrata in funzione.
Una delle tante cooperative che si sono "mangiate" i soldi della
Regione". Giuseppe Caruso, presidente dell'Agricoop di Avola dal
1989, spesso consultato anche dall'amministrazione comunale: un'autorità
nella zona quando si parla di limoni e limoneti. Ad Avola, come
in altri centri della zona, i braccianti sono tanti, 1.800 su una
popolazione di circa trentamila abitanti. La sera la piazza principale
brulica di persone in cerca di ingaggio per i giorni a venire. Dei
tanti piccoli e grandi coltivatori diretti della zona, pochissimi
riescono a sopravvivere dei soli frutti della campagna. "Il 90%
nun ci campa che i limiuna,", il 90% non ci vive con i limoni, dice
Caruso.
L'Apas, nato come centro
di lavorazione degli agrumi, doveva essere un'ancora di salvataggio
per un'economia che andava lentamente a fondo. Per un sistema che
i limoni nella maggior parte dei casi li mandava al macero per non
sovraccaricare l'offerta e quindi far scendere troppo il prezzo.
"Il centro venne solo inaugurato - racconta Caruso - mi ricordo
ancora quel giorno, erano venuti pure da Catania. Ma non funzionò
mai. Per un periodo, prima della fine dei lavori al capannone in
contrada Piccio, i camion che avevano preso accordi con l'Apas scaricavano
qui da noi". Attorno al signor Caruso, mentre un ragazzo provvede
a scaricare in un camion centinaia e centinai frutti gialli e succosi,
altri coltivatori diretti, altri soci della cooperativa. Hanno i
volti abbronzati, nonostante è inverno, sono curiosi e guardinghi
insieme. C'è chi vive, o sopravvive, dei soli limoni, c'è chi ha
altre attività (e sono i più), c'è chi ha qualche ettaro di terreno
e chi decine. Ci sono giovani e meno giovani, generazioni differenti.
Ma il coro è unanime, la rabbia è uguale, così l'orgoglio negli
occhi di questi lavoratori che un tempo con la loro terra riuscivano
a vivere.
"La storia dell'Apas
- aggiunge Caruso - non è storia nuova. Sono nate tante cooperative
del genere, soprattutto negli anni '70. Erano cooperative fasulle,
pigliavano contributi, poi fallivano. Servendosi di prestanome".
Altra scena, altro luogo.
Alla Coldiretti di Avola c'è il presidente Giuseppe Tiralongo a
raccontare dell'Apas. La storia di un fallimento. "L'Apas è stata
creata dalla Coldiretti di Catania, allora presieduta dall'avolese
Sebastiano Inturri e dalla Unione
agricoltori di Catania. Oltre al capannone di Avola, costruito con
i soldi della Regione, avevano creato strutture del genere anche
nel catanese. Poi ai membri della Coldiretti di Catania fu mandato
un avviso di garanzia per le vicende di altri centri simili all'Apas
di Avola, sorti nel catanese. La storia era sempre uguale: l'associazione
nata ad hoc si prendeva i soldi della Regione, i centri venivano
costruiti, ma non entravano mai in funzione. I responsabili, come
Inturri, finirono in prigione. A Piccìo adesso è tutto in rovina".
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