Nell’autunno del 2008 Ardo (principale marchio dell’Antonio Merloni Spa) è entrato in amministrazione controllata e tre commissari, nominati dal governo, hanno preso in mano la sorte e i bilanci dell’azienda. Con un debito di circa 300 milioni di euro e 3.200 dipendenti, di cui 1.200 nel fabrianese. A quel punto è praticamente finita ogni comunicazione con lavoratori e sindacati. Tutti attendono ancora una risposta sul futuro del gruppo industriale, tra cassa integrazione e commesse rimediate a singhiozzo da quasi sei anni.

L’Antonio Merloni è rimasta una grande terzista di elettrodomestici (ovvero: riceveva grosse commesse da fabbriche più grandi) ed è diffusa anche in Umbria (il più grande stabilimento è a Gaifana, in provincia di Perugia) e in Emilia Romagna (con il comparto bombole e gas di Reggio Emilia). La ristrutturazione è arrivata probabilmente troppo tardi, nel 2004, quando si decise di puntare tutto sul marchio principale: Ardo. L’azienda non ha saputo rinnovarsi ed è stata trascinata a fondo dalla crisi economica (contrazione dei mercati), dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo (soprattutto i terzisti dei paesi dell’Est europeo e asiatico) e da un investimento sbagliato nell’ovest dell’Ucraina, a Ivano-Frankivsk (mappa). Dove un polo produttivo, aperto nel 2008, pensato per 3.000 dipendenti e costato 40 milioni di euro, non è mai partito davvero, per la scarsa preparazione della manodopera del posto e, dicono voci in azienda, per lo scarso impegno o addirittura il sabotaggio delle maestranze italiane spedite lassù per insegnare il mestiere agli ucraini. Quello che è certo, comunque, è che si è trattato di una delocalizzazione fallimentare e le fette di mercato, che si era progettato di catturare nel paese ex-Urss grazie alla nuova fabbrica, sono rimaste un miraggio.

Qualcuno accusa il gruppo di aver assunto nel corso degli anni, come operai, intere famiglie con logiche clientelari. Per la Dc prima (Antonio Merloni fu sindaco di Fabriano negli anni ’80) e per l’Udc poi. Luigi Viventi, responsabile del personale, è ancora consigliere regionale per il partito di Pier Ferdinando Casini. Quando Vittorio Merloni quotò la sua attuale Indesit (leader nel mercato Russo) in borsa nell’ ’87, Antonio andava ancora in cerca di voti porta a porta. L’allontanamento nel 2006 dell’amministratore delegato Valerio Fedeli, che voleva un pesante piano di ristrutturazione e licenziamenti (leggi il contenuto del piano per il 2006/2007) per salvare l’azienda, è emblematico. Il patron ha preferito una logica "familista" e ha nominato nel giugno 2008 la figlia Giovanna Merloni come presidentessa, mettendola a capo di un triumvirato che ha sostituito la figura dell'amministratore delegato. La stessa figlia definita da Merloni a Roma in presenza delle banche, ormai in pratica proprietarie del carrozzone vicino al collasso, come raccontato da un sindacalista che ha preferito rimanere anonimo, “non così stupida come pensavo”.

Per Antonio sarebbe stato troppo sforbiciare quella “roba sua”, per dirla alla Mazzarò, il personaggio della celebre novella di Giovanni Verga. Gli operai erano la parte viva della “roba”. Il senso comune dei cittadini di Fabriano dipinge ancora i membri della famiglia Merloni come dei “feudatari”. E come i veri responsabili del “monoprodotto”. Cioè trent’anni di elettrodomestici senza possibilità di differenziazioni nella produzione. Un modello economico chiuso e più volte criticato da sinistra, ma in realtà amato dalla maggior parte della gente. Che si è lentamente arricchita, tra turni in fabbrica e orticelli in campagna. Non a caso quegli operai erano chiamati "metalmezzadri". “Merloni ci salverà” diceva ancora qualche operaio prima del brusco risveglio: l’arrivo dei tre commissari straordinari del governo, senza alcun legame con il territorio. Oggi è chiaro che il monoprodotto ha fatto mancare l’alternativa alla crisi economica. Lo sostiene anche il sindaco Roberto Sorci (audio), dipendente Indesit Company e iscritto al Pd, lo stesso partito della deputata Maria Paola Merloni, figlia di Vittorio. Gli EC sono nati come avanguardia di una protesta contro questo sistema, ma probabilmente in ritardo. Creando non pochi problemi ai sindacati, abituati a un vecchio modello di concertazione.