il Ducato » crowdsourcing http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » crowdsourcing http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Tre freelance e le inchieste in crowdsourcing: dall’Irlanda arriva Investigate http://ifg.uniurb.it/2013/05/18/ducato-online/tre-freelance-a-caccia-di-inchieste-dallirlanda-arriva-investigate/46809/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/18/ducato-online/tre-freelance-a-caccia-di-inchieste-dallirlanda-arriva-investigate/46809/#comments Sat, 18 May 2013 01:00:15 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=46809 Investigate, un sito lanciato da due giornalisti irlandesi per far interagire pubblico e mondo dell'informazione]]>

Peadar Grogan, fondatore di Investigate.ie

Dalla strada alla prima pagina dei quotidiani nazionali. In Irlanda le notizie hanno a disposizione un modello di giornalismo che mette in contatto le redazioni con il pubblico per far emergere i problemi della collettività. Il nuovo protagonista dell’informazione nel Paese di James Joyce si chiama Investigate, uno spazio dove il crowdsourcing tenta il salto di qualità. per essere sempre più al servizio dei cittadini.

Fondato da Peadar Grogan e Maria Delaney, studenti con un master in giornalismo all’università di Dublino, Investigate è sulla “piazza digitale” dall’inizio di maggio, ma sta già attirando l’interesse delle testate irlandesi. Lo scopo non è soltanto quello di raccogliere le segnalazioni dei cittadini per trasformarle in notizie, ma anche quello di fornire servizi ai media tradizionali. Insomma, un ponte tra il pubblico e il giornalismo mainstream, uno spazio dove la testimonianza dell’uomo della strada può trasformarsi nell’ultima notizia di una grande testata.

Il meccanismo alla base di Investigate è semplice: i lettori irlandesi sono invitati a segnalare i problemi delle loro comunità, il team, composto da tre giornalisti freelance, indaga e realizza un’inchiesta da vendere ai quotidiani, utilizzando uno schema di lavoro illustrato nel loro sito. Allo stesso tempo, la squadra di Investigate si offre come sostegno ai giornalisti delle testate locali e nazionali per la realizzazione di servizi audio video, infografiche, live blogging e comunicazione online.

Ecco, ad esempio, come è nata una delle prime inchieste di Investigate. Attraverso le segnalazioni dei lettori, Maria Delaney ha scoperto che i donatori di rene non ricevono dallo Stato un compenso economico per i giorni di lavoro persi a causa del ricovero in ospedale. La giornalista ha approfondito la ricerca, intervistando pazienti, medici, rappresentanti di associazioni e il portavoce del dipartimento della Salute.  La storia è stata poi venduta al Sunday Times e pubblicata nell’edizione del 5 maggio.

Magari non è la rivoluzione copernicana del giornalismo, ma di sicuro è un passo avanti del modello crowdsourcing: “Abbiamo monitorato – spiega Peadar Grogan – come i media tradizionali e i nuovi media stanno usando internet per interagire con i lettori e abbiamo voluto fare qualcosa di più. Vogliamo dare alla gente una voce, creare uno spazio dove le persone possono parlare direttamente con i giornalisti. Il nostro obiettivo è rendere il giornalismo investigativo più aperto e trasparente. Non stiamo cercando di competere con le altre agenzie di stampa. Se le persone sono preoccupate che la loro voce possa non essere ascoltata da un organo di informazione più grande, noi siamo in grado di fornire un’alternativa. Ed essendo online, Investigate è sempre a disposizione della gente”.

Per il momento il progetto è ancora ai primi passi, ma Peader Grogan guarda avanti: “Saremo in grado di monitorare le tendenze nel corso del tempo e per posizione geografica, in modo da verificare se gli stessi problemi stanno interessando un gran numero di persone. Investigate si alimenterà grazie alle storie raccontate dal nostro team di liberi professionisti, ma potremo anche aiutare i giornalisti a realizzare i propri articoli, offrendo una piattaforma dove possono lanciare appelli al pubblico”.

L’esempio di Investigate potrebbe rappresentare un modello di business, un modo nuovo per rendere economicamente sostenibile una professione sempre più in crisi: “Per ora non pensiamo al nostro sito come un’impresa redditizia, ma più come un hub per aiutarci a raggiungere i nostri obiettivi e per parlare direttamente con i lettori – sottolinea Grogan – i soldi che guadagniamo vengono utilizzati per sviluppare il sito web e per renderlo uno strumento ancora più utile per il pubblico e per i media. Nel lungo termine, quando Investigate rappresenterà un marchio di fiducia, speriamo che possa diventare autosufficiente. Il punto è come farlo in modo sostenibile: stiamo cercando di ridurre i costi e i tempi necessari per il lavoro investigativo”.

“Abbiamo intenzione di sviluppare relazioni con redazioni in tutta l’Irlanda e speriamo di essere giudicati per la qualità del nostro lavoro – continua il cofondatore di Investigate -. Nonostante le difficoltà in cui versa il settore, questo è un momento interessante per diventare giornalista. È impossibile dire quale direzione prenderà in futuro, ma credo che il giornalismo è più importante oggi di quanto lo sia mai stato”.

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Ap detta regole per l’uso dei social media. Necessario proteggere le fonti http://ifg.uniurb.it/2013/05/09/ducato-online/lap-detta-le-regole-per-luso-dei-social-media-imperativo-proteggere-le-fonti/46210/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/09/ducato-online/lap-detta-le-regole-per-luso-dei-social-media-imperativo-proteggere-le-fonti/46210/#comments Thu, 09 May 2013 08:20:37 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=46210 Vietato mettere in pericolo le fonti. Ieri l’Associated Press, l’agenzia di stampa internazionale con sede negli Usa, ha aggiornato le linee guida sull’uso dei social network e del crowdsourcing per i giornalisti. La novità sta nelle regole per il trattamento delle persone che forniscono notizie mentre sono in situazioni di pericolo, come dopo un omicidio di massa, una calamità naturale o una guerra.

I consigli sono a cura del Social media editor Eric Carvin e dello Standards Editor Tom Kent, e vanno dalle più semplici regole di educazione ai suggerimenti per la sicurezza delle fonti:

  • Agire come un osservatore: se qualcuno sta condividendo delle notizie mentre si trova in una situazione pericolosa, inizialmente è meglio monitorare i posts senza chiedere di più. Si può pensare di contattarlo quando sarà più al sicuro;
  • Cercare foto o video: bisogna evitare di chiedere alle fonti in pericolo di creare materiale per Ap. Piuttosto, il reporter deve chiedere il permesso di utilizzare quello che la persona già riesce a produrre;
  • Entrare in contatto: mai stressare le fonti. Se ci si rivolge a qualcuno, bisogna ricordagli di agire in situazione di sicurezza e non spingerlo a mettersi in pericolo. Se possibile, è sempre meglio parlare per telefono che sui social network;
  • Invece di chiedere, offrire: il giornalista non dovrebbe twittare “Avete delle foto per Ap?”, ma piuttosto “Sono un reporter dell’Ap. Se vuoi parlare con me di quello che stai vivendo, contattami in privato”;
  • Adattare il proprio istinto al digitale: “Se questi consigli ti sembrano poco concreti, c’è una buona ragione: la maggior parte di queste decisioni devi prenderle caso per caso” concludono Eric e Tom. “Molti di voi hanno molta esperienza. Il trucco sta nell’adattare questi istinti al mondo digitale”. Sui social network, infatti, c’è poco spazio per scrivere e non si può modulare il tono della voce.

Tra gli altri aggiornamenti delle linee guida, l’Ap spiega ai suoi giornalisti come possono utilizzare siti personali e blog per condividere il loro lavoro. Consiglia inoltre di evitare la diffusione di voci non confermate attraverso tweet e post, e offre suggerimenti su come gestire gli scoop che appaiono sui profili di personaggi pubblici.

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“Meydan”, una web tv della gente contro il regime dell’Azerbaijan http://ifg.uniurb.it/2013/05/06/ducato-online/meydan-la-web-tv-di-emin-milli-contro-il-regime-dellazerbaigian/45725/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/06/ducato-online/meydan-la-web-tv-di-emin-milli-contro-il-regime-dellazerbaigian/45725/#comments Mon, 06 May 2013 17:43:39 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=45725

Emin Milli, fondatore di Meydan tv

Meydan” in lingua azera vuol dire piazza. Quella piazza che è stata troppo spesso soffocata dal regime del presidente Ilham Aliyev, ma che non ha mai smesso di respirare con i suoi polmoni digitali.  L’ultimo tassello di questo mosaico è la web tv ideata dal giornalista, blogger e scrittore Emin Milli, un azero di 33 anni imprigionato nel 2009, probabilmente a causa di un video satirico sulla presidenza di Aliyev.

Dopo 16 mesi di carcere, Milli ha costruito il suo progetto dall’Europa, dando vita alla prima emittente che sul web diffonderà critiche e attacchi al regime. Il flusso di contenuti sarà trasmesso da Berlino sul sito Meydan tv, per poi passare su un canale satellitare da metà maggio.

Milli potrà contare su uno staff di uomini e donne collegati dal filo rosso della dissidenza e dalla sete di democrazia, da declinare soprattutto come interazione collettiva e possibilità di espressione offerta a tutti. I loro nomi? Zuzu, Caroline, Jamal Ali, Qurban, Araz, Habib e Fardi.

Clicca qui per vedere il video incorporato.

Chiunque, come spiegato da Habib nel video di presentazione della Meydan tv, può comunicare dinanzi a una telecamera o decidere di realizzare un servizio su qualsiasi argomento. Il tutto sarà poi valutato dalla “redazione” diretta da Milli sulla base di un solo criterio: un livello qualitativo adatto alla messa in onda. Un principio vago e indefinito, questo, che potrebbe rivelarsi il tallone d’Achille del progetto, ma che per il momento si erge a speranza di libertà per molti azeri.

L’Azerbaijan, secondo l’ultima stima dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, offre una garanzia delle libertà civili nettamente peggiore a quella di dieci anni fa. Si tratta di un paese in cui è vietato manifestare e dove il bavaglio all’opposizione è legittimato dalle istituzioni; per averlo violato in nome della libertà d’espressione, nove giornalisti sono in prigione dal 2012.

Ayan, 14enne azera sostenitrice di Meydan tv

Tra gli azeri emigrati, molti sono fieri di contribuire alla realizzazione della Meydan tv. Una di loro è Ayan, 14 anni, residente a Magonza e con 20 euro da donare al progetto. Perché quello che Milli e la sua squadra hanno voluto precisare è il marchio di autosufficienza della neonata piattaforma.

“Non vogliamo dipendere da nessuno, non vogliamo che qualcuno ci etichetti come servi di una certa propaganda ideologica”, sottolinea Habib nel video di presentazione, che su youtube ha avuto quasi 18.000 visualizzazioni. Milli ricorda che anche “solo uno o cinque euro sono un grande aiuto”, come piccoli finanziamenti di questo centro di protesta in cui ogni azero “possa sentirsi responsabile del proprio destino”, afferma Qurban.

Un sentimento di responsabilità che sicuramente anima la partecipazione di Zuru, azera arrivata a Berlino dalla Norvegia per frequentare uno stage di musica elettronica e che, inaspettatamente, in Germania è tornata ad accarezzare una delle sue debolezze, “un qualcosa di molto intimo”, come quell’Azerbaijan lasciato da bambina.

Dall’Azerbaijan verso la Scandinavia se ne sono andati in molti, e dalle punte più a nord dell’Europa i sostegni alla Meydan tv arrivano già da qualche mese, come le 4800 corone svedesi (575 euro) donate dagli azeri che vivono a Linkoping, oppure la torta preparata da Tamara in occasione della presentazione del progetto nella cittadina svedese di Goteborg .

La Meydan tv è una cassa di risonanza, una voce di protesta che vuole scuotere non solo la realtà azera, ma anche tutta la comunità internazionale. È un progetto di crowdsourcing, come già altri se ne sono visti nel mondo della dissidenza: ad esempio, nel 2010, Natalia Sindeeva fondava in Russia la tv Dozhd, l’unico canale che ha mostrato le piazze ribelli e aperto le dirette delle manifestazioni contro Putin. Natalia ed Emin hanno avuto lo stesso coraggio, ma in tre anni le sorti del giornalismo sono cambiate. Il crowdsourcing era un bozzolo oggi diventato maturo, un bozzolo che oggi affatica e facilita allo stesso tempo la ricerca della verità.

Sullo stesso argomento:

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La folla nelle redazioni: nuove app e strumenti sul giornalismo dal basso http://ifg.uniurb.it/2013/03/26/ducato-online/il-crowdsourcing-entra-nelle-redazioni-le-novita-del-giornalismo-dal-basso/40237/ http://ifg.uniurb.it/2013/03/26/ducato-online/il-crowdsourcing-entra-nelle-redazioni-le-novita-del-giornalismo-dal-basso/40237/#comments Tue, 26 Mar 2013 12:02:44 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=40237 crowdsourcing offre ai reporter nuovi strumenti per verificare e raccogliere le notizie. Tra nuovi software e app, molti dei quali legati ai social network e ai telefoni, il futuro dei media prende sempre nuove forme]]>

il crowdsourcing consente di attingere alla folla come fonte

Crowdsourcing: un neologismo composto tipicamente all’inglese, una crasi delle parole crowd (folla) e outsourcing (esternalizzazione di una parte delle proprie attività). Ed è, come dice la fusione dei due significati, la tendenza a utilizzare i contributi  di una folla per raggiungere uno scopo. E’ una tecnica aziendale, grafica, architettonica, e dal 2013 anche musicale. Ma anche una nuova frontiera del giornalismo, capace di scardinare la tradizionale comunicazione top-down (dall’alto in basso) per passare a un sistema bottom-up (dal basso in alto).

Un giornalismo dal basso, insomma, dove le fonti sorgono e crescono senza la consapevolezza di esserlo, nei social network e nelle piccole realtà locali.

Il 27 febbraio il dj Avicii lanciava “X You”, il primo brano al mondo che ha unito le note di 4.000 musicisti sparsi in 140 paesi. Lo stesso giorno, Italia2013 concludeva il suo esperimento. E’ stata l’unica, e anche la prima, redazione italiana a seguire l’intera campagna elettorale attraverso l’aggregazione di notizie raccolte dai social media. Twitter, Facebook, Instagram e Youtube sono l’eterogeneo flusso di informazioni e testimonianze che, dal 25 gennaio fino a fine febbraio, il team di Italia2013 ha passato al setaccio.

Perché la vera sfida del quinto potere non è più l’accettazione dei contributi esterni dalla redazione ma piuttosto la capacità di integrarlo con quello tradizionale. Una redazione che con un’attività continua di content curation (controllo del materiale raccolto) costruiva storie, dibattiti, gallery e video in modo che i lettori potessero avere un quadro completo di ogni candidato al Parlamento: questo il progetto avviato da Marco Pratellesi e Riccardo Luna, i due pigmalioni del sito e delle tre app corrispondenti.

Italia2013: la prima redazione online che ha raccolto post dai social media per stare al passo con la campagna elettorale

Come è stato possibile? Grazie a Seejay, il primo gestionale per il crowdsourcing dedicato alle redazioni online. Seejay  è uno strumento ideato dalla società romana Maior Labs per intrecciare in modo nuovo i fili del giornalismo, e soprattutto per semplificare il lavoro di quelle testate che accettano contributi dal giornalismo partecipativo. Non più valanghe di mail da spulciare all’alba, ma piuttosto canali tematici in cui ricevere notizie catalogate e georeferenziate: ecco la formula di questo Saas (software as a service) nato a ottobre 2012, al momento in fase beta privata ma che punta al passaggio in beta pubblica entro aprile 2013.

Gli strumenti a disposizione del giornalismo crowdsourcing sono sempre di più. Uno di questi è salito agli onori della cronaca perché, usato insieme ai social network, ha permesso di verificare una notizia diffusa dalla tv. In Pennsylvania, nella Contea di Montgomery, il 4 gennaio 2012 Andy Stettler, direttore di Main line media news, venne a sapere che il centro commerciale King of prussia era stato evacuato a causa di una bomba. Iniziando a twittare con un suo follower che si  trovava proprio lì scoprì che solo una parte del centro commerciale era stata evacuata, a differenza di quanto comunicato da alcune stazioni televisive.

E per farlo non ha usato solo Twitter ma un’altra applicazione che ha dimostrato così la sua funzione ‘giornalistica': Banjo, nato per Apple e Android nel 2010 e sbarcato in Italia solo a dicembre 2012. Banjo è in grado di aggregare e geolocalizzare i post provenienti da tutti i social network a cui siamo iscritti, in modo da ordinare gli utenti in base al luogo in cui si trovano.

Per arrivare alla “folla” il giornalista ha a disposizione sempre più app. Quelle nate dalla frenesia della socialità e dell’interazione, che il giornalismo crowdsourcing ha scoperto come utili strumenti.

Tra le app geolocalizzatrici, nel bagaglio (virtuale) di un giornalista potremmo trovare Sonar o Geofeedia. La prima, nata nel 2011, ci dice chi si trova vicino a noi e perché la sua presenza potrebbe essere importante sulla base dei legami individuati nei social network. La seconda, messa sul mercato nel 2012, permette di verificare una notizia in tempi da record, scavando tra i social media attraverso la geolocalizzazione, come Banjo.

Il giornalista ha a disposizione sempre più app per ottenere le testimonianze della folla

Dal 2012 gli avvenimenti sono crowdsourced (testimoniati dalla folla) non solo attraverso l’aggregazione delle parole, ma anche delle immagini. E’ stato più semplice con la nascita di Vyclone, l’applicazione brevettata dal figlio di Sting e che da inizio marzo è anche su Android. Vyclone è in grado di unire e comprimere in un solo video più video realizzati in una stessa occasione da telefoni diversi. La pluralità contemporanea di prospettive entra nel giornalismo per accrescere la veridicità di ogni notizia. Quella stessa pluralità alla base di Rawporter, una app che consente a tutti di realizzare foto e video per poi caricarle in un mercato online dove blog e giornali possono acquistarli. Ecco così che il crowdsourcing si unisce con il citizen journalism e  può rendere freelance chiunque.

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L’approfondimento giornalistico? Il futuro è a pagamento http://ifg.uniurb.it/2012/03/13/ducato-online/l%e2%80%99approfondimento-giornalistico-il-futuro-e-a-pagamento/28403/ http://ifg.uniurb.it/2012/03/13/ducato-online/l%e2%80%99approfondimento-giornalistico-il-futuro-e-a-pagamento/28403/#comments Tue, 13 Mar 2012 18:17:23 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=28403 URBINO - Siamo disposti a pagare il costo di un caffè per un approfondimento online puntuale, preciso, fatto da professionisti? In un momento di crisi per il mondo dell’informazione di qualità, un gruppo di giornalisti – di testate del calibro di New York Times, Wired, Guardian, Economist, New Yorker – ha scommesso di sì. E offrono i loro servigi a un editore di eccezione: l’internauta.

Non aspettiamoci vecchi redattori in cerca di un’occupazione: i promotori di Matter, questo il nome del progetto, sono dei giovani di 30, massimo 40 anni.

CALIFORNIA – Scienze, tecnologia, economia, ambiente e futuro, sono gli argomenti tra i quali spazieranno gli articoli della start-up pensata in California.  In dieci giorni è riuscita a racimolare oltre 50mila dollari di contributi, indispensabili per iniziare il suo lavoro. La sua campagna di sottoscrizione terminerà il 19 febbraio, ma ha già abbondantemente superato l’obiettivo, in poco più di 38 ore.

ACQUIRENTI – La loro idea è di fare uscire un articolo a settimana. Non un articolo qualunque. “Non una recensione da quattro soldi – dicono nel loro manifesto - un articolo irriverente, o una classica lista di 10 link. Sarà proprio una storia imperdibile” I suoi promotori ne sono convinti: “Molte storie di interesse pubblico non vengono raccontate”. E qualcuno è disposto a pagare per averle.

L’iniziativa risponde a quanto sottolineato dallo State of The News Media 2011. Si tratta di un rapporto annuale, pubblicato negli Stati Uniti dal 2004, che costituisce un appuntamento importante per capire la crisi e l’evoluzione dei giornali. Secondo il Report “c’è ormai consenso sul fatto che la pubblicità online non riuscirà mai a sostenere l’industria delle news. Mentre le vecchie fonti di reddito continuano a declinare, la ricerca di nuovi canali di finanziamento diventa più urgente”.

THE MATTER IS – Il problema è che, mentre aumenta esponenzialmente il pubblico dei giornali online, negli Stati Uniti esattamente come da noi, si fatica a capire come trasformare la lettura online in fatturato.

Da marzo 2011 il New York Times, dopo 14 anni di fatiche in digitale, ha risposto al problema trasformandosi in quotidiano a pagamento. Arthur Sulzberger, editore del quotidiano, intervistato da Hubert Burda ha dichiarato la sua convinzione: “Il futuro digitale del quotidiano è a pagamento”. Attualmente sul sito si può approfittare di un’offerta: quattro settimane di quotidiano per iPhone, iPad o pc, allo stesso prezzo che propongono in casa Matter per un solo servizio: 99 centesimi.

In Italia siti simili alla mission di  Matter sono quelli di crowdfounding come Pubblicobene e youcapital.it. Vittorio Pasteris, coordinatore editoriale del progetto youcapital spiega quanto sia difficile in Italia trovare risorse sul web: “Non so se ce la faremo, al momento non abbiamo risorse sufficienti. Ma vogliamo restare sul mercato. E attendere. L’anno che verrà sarà importante per tutti i media tradizionali. Una parte di loro sarà strozzata dal peso della carta. Il modello di fare giornalismo delle grandi redazioni è ormai anacronistico, troppi giornalisti abituati a scrivere un pezzo al giorno.  Prima o poi una parte del sistema crollerà e allora si libereranno spazi che cercheremo di riempire”.

Il metodo crowdfounding è diverso da quello di Matter. Viene proposta un’inchiesta, viene fatta una specie di asta, che deve raggiungere un minimo di finanziamento (di solito 500 euro). Se la cifra viene raggiunta, l’inchiesta viene svolta. Su Matter invece l’utente trova già il prodotto finito e delineato nelle sue linee principali. In quel momento deve solo scegliere se acquistarlo.

“Il costo unitario proposto da Matter – spiega Pasteris – è molto basso ma se riescono a ottenere un traffico notevole potrebbero avere successo. A mio parere il modello del giornalismo investigativo e di approfondimento è un modello che a lungo andare paga. Un giornale come il Fatto Quotidiano in fondo è riuscito a fare qualcosa di molto simile”.

Resta da capire se l’internauta sia disposto a pagare, anche una cifra così irrisoria, per avere un contenuto proposto da un giornalista sconosciuto. Nel nostro Paese, dove l’idea di pagare per un contenuto web non è diffusa,  sembra difficile.

“L’Italia deve fare un percorso più lungo – spiega Pasteris – ma resta il fatto che ci sono molte notizie che non vengono pubblicate per scelte mainstream (ovvero legate al ruolo dei giornali più diffusi, ndr) e per motivi politici. I siti come il nostro e come Matter, se funzionano, possono dare informazione di qualità su temi altri”.

Eppure fare affari sul web deve convenire se Cnn (la notizia è del New York Times) ha deciso di acquistare Mashable, un avviato sito di informazione che fa di tecnologia e social network il suo focus. Il prezzo che Cnn è disposta a pagare? 200 milioni di dollari.

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Nuovi mestieri nel giornalismo: animatori di comunità cercansi http://ifg.uniurb.it/2010/03/31/ducato-online/nuovi-mestieri-nel-giornalismo-animatori-di-comunita-cercansi/1914/ http://ifg.uniurb.it/2010/03/31/ducato-online/nuovi-mestieri-nel-giornalismo-animatori-di-comunita-cercansi/1914/#comments Wed, 31 Mar 2010 14:02:02 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=1914 In America ci sono già le selezioni. Un nuovo sito web che si occuperà delle notizie locali della città di Washington cerca un nuovo genere di giornalisti, accanto a quelli tradizionali:  un “Senior community host“, una specie di padrone di casa che si occuperà di formare il gruppo con cui lavorare e cercare notizie sulla rete; un “community host” per mantenere le relazioni con i blogger, mediare le discussioni e seguire la realizzazione dei progetti della comunità; un “social media producer” che gestirà social media come Twitter, Facebook e YouTube e un “mobile producer”  per seguire la comunità sui cellulari.

L’ “animatore di comunità” è un ruolo non ancora molto conosciuto nel nostro Paese, ma già affermato all’estero, una figura chiave in grado di fidelizzare, clic dopo clic, una comunità di internauti da utilizzare come fonte e pubblico di informazione.

In Italia l’unica figura che un po’ gli si avvicina è quella del community manager: persone che si occupano di gestire le pagine che le testate hanno creato nei social network.

“Io non sono giornalista professionista – spiega Maurizio Monaci, community manager di Repubblica.it – e come me tantissimi che svolgono questo lavoro”. In Italia non è richiesto, chiunque può gestire le comunità purché sia in grado di farlo, mentre all’estero questo lavoro è riconosciuto come una funzione prettamente giornalistica.

Nel nostro Paese l’animatore di comunità deve ancora farsi strada nelle redazioni. Quello che chiedono i giornali online è che i loro contenuti siano rigirati e linkati su altre piattaforme, come Facebook, senza ulteriori attività di animazione. “C’è un giornalista – continua Monaci –  che mi dice i contenuti da inserire. Io li metto in pagina e poi gli internauti commentano tra loro. L’articolo circola e il giornale si fa pubblicità”.

E’ una forma di distribuzione e di marketing, ancora lontana dal complesso lavoro di selezione e tessitura delle conoscenze della rete per creare informazione nuova e originale. Non ci sono interventi per moderare i commenti, monitorarli, prendere spunto da questa o quella riflessione e rilanciare un altro argomento.

“Questo tipo di giornalismo qui da noi non esiste ancora – spiega Luca Dello Iacovo, freelance e collaboratore di Nova, inserto del Sole 24 ore – perché secondo me non sono ancora stati colti i benefici del cambiamento o nessuno è stato in grado di interpretarlo. Basta confrontare i siti dei nostri maggiori quotidiani con quelli inglesi, francesi o spagnoli”. In Francia Le Figaro e L’Express hanno assunto giornalisti che si occupano solo di questo: mettere insieme i vari elementi del discorso che si anima in una comunità per scriverci e ragionarci sopra. Come spiega Antoine Daccord, ex animatore di MySpace, oggi redattore di Le Figaro.fr: “Il giornalista animatore di comunità scrive l’articolo come se avesse fatto una ricerca per strada, salvo che la strada in questo caso è il web”.

All’estero questa figura sembra assai più affermata. In Italia le prospettive sono ridotte notevolmente anche dal ritardo nelle strutture di connessione: “L’accesso all’alta banda – spiega Stefano Lamorgese, multimedia project manager di Rai News 24 –  è molto più indietro da noi rispetto ad altri Paesi e questo influisce sull’arretratezza nella creazione e la necessità di figure come l’animatore di comunità”.

Ma se l’Italia è ancora lontana dalla creazione di un giornalismo frutto di conoscenza condivisa e compartecipata, c’è comunque un settore che sta conquistando ampi margini di autonomia, l’informazione legata a moda e spettacolo. “Sarà che le donne sono più pettegole – spiega Domitilla Ferrari, community manager di donnamoderna.com – ma noi siamo riusciti a creare un pubblico fedele con il quale fare e scambiare informazione”.

La Ferrari utilizza piattaforme interattive per confrontarsi e interagire con la community tramite chat, forum e iniziative varie. “Il mio lavoro – spiega  – consiste un po’ nello scegliere le ciliegie migliori dal cesto (cherry picking): faccio una selezione in rete cercando di individuare contenuti validi dei quali servirmi”.

Monitorare la rete, quindi, e cercare di capire cosa e chi si può aggiungere alla squadra. Poi il manager deve trovare un’angolazione particolare e scoprire il modo efficace di trattare le informazioni che provengono dagli utenti. “Noi viviamo di Ugc, user generated content – continua Ferrari –  Per dirla all’italiana: di contenuti generati dagli utenti e ritenuti interessanti e validi. Capita che mi piaccia una fashion blogger trovata in rete e decida di avere questo contenuto di valore nella mia community e quindi tra le pagine stesse di donnamoderna.com”.

La nuova sfida è questa: condividere e creare insieme informazione. Utilizzare “gli occhi e le orecchie degli internauti come fonte preziosa di notizie”, come dice Laurie Gauret di l’Express.fr .

Il rischio di questo giornalismo “dal basso” è di perdere credibilità e autorevolezza, ma secondo i “community manager” italiani e i più esperti “animatori” dell’estero, l’importante è avere sempre buon senso nella selezione.

Steve Buttry, che lavora da anni in questo campo, è il nuovo responsabile del servizio di “community engagement” del nuovo sito di Washington, ed è lui che proprio in questi giorni sta scegliendo la sua squadra cui si è accennato sopra.  “Cerchiamo persone che sappiano lavorare a 360 gradi con il web 2.0. Che sappiano gestire blogger e relazioni con altri utenti – spiega Buttry al Ducato Online – e poi bisogna saper moderare discussioni nei forum e commenti nei blog. Ma quello che caratterizza maggiormente questo lavoro è la selezione e l’utilizzo di contenuti generati in rete per creare, alimentare e appunto, animare, la comunità”.

(Articolo aggiornato il 12-04-2010 per specificare le funzioni del community manager di donnamoderna.com)

Guida alla rete:

Blog di Steve Buttry

New web site (Washington d.c.)

Selezione personale per New web site

Donnamoderna.com

Pagine facebook di Repubblica.it

Le Figaro.fr

L’Express.fr

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Haiti, dal terremoto una cronaca via sms http://ifg.uniurb.it/2010/01/27/ducato-online/haiti-dal-terremoto-una-cronaca-via-sms/708/ http://ifg.uniurb.it/2010/01/27/ducato-online/haiti-dal-terremoto-una-cronaca-via-sms/708/#comments Wed, 27 Jan 2010 11:50:44 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=708 di Andrea Tempestini e Veronica Ulivieri

Haiti, 26 gennaio: quattro persone sono intrappolate al secondo piano di una fabbrica, una di loro è gravemente ferita e non riesce a muoversi. Con il telefonino, mandano una richiesta di aiuto alla piattaforma haiti.ushaidi.com. Un volontario, Roz, intercetta il messaggio, contatta con Skype la Guardia costiera statunitense e fornisce le coordinate per il salvataggio. “Working on it”, rispondono dall’altra parte, e subito partono i soccorsi. Roz traduce il messaggio in inglese (spesso le segnalazioni arrivano in creolo) e lo localizza su una mappa.

Nei tempi del citizen journalism e del crowdsourcing, accade che nei casi di disastro anche gli sos diventino più tecnologici. Arrivano in un attimo, e i soccorsi sono più efficienti, più veloci, più mirati. E’ quello che succede su Ushahidi.com, una piattaforma web nata all’inizio del 2008 per raccontare i sanguinosi disordini in Kenya con l’aiuto di blogger e comuni cittadini, utilizzata in seguito per la condivisione di informazioni in particolari situazioni di emergenza anche in altre circostanze. Haiti è solo l’ultimo caso.

Ushahidi è pensato per il Terzo Mondo: per mandare un messaggio non occorrono tecnologie particolari, basta un telefono cellulare o una connessione internet per usare la posta elettronica, Twitter o fare una segnalazione direttamente sulla piattaforma. “Più dati abbiamo e meglio è. L’importante è che le informazioni vengano condivise, non immagazzinate”, dice Patrick Meier, responsabile del Crisis mapping e delle Strategic partnerships. E infatti ad Haiti chiunque tramite Ushahidi può lanciare un sos. Le segnalazioni sono divise per categorie: Emergenze, Minacce, Problemi logistici, Soccorsi, Notizie di persone, altro. Quando un messaggio arriva ai gestori della piattaforma, un volontario ne controlla la pertinenza, lo geolocalizza sulla mappa e ne verifica l’attendibilità (le segnalazioni sono classificate come verified o not-verified). Filtrare i messaggi è fondamentale: Twitter, per esempio, è invasa da messaggi che hanno come hash tag #haiti o #haitiquake, ma che in realtà non sono utili per i soccorsi.

Il tipo di segnalazioni ricevute da Ushahidi ad Haiti

Sulle cartine si possono consultare le emergenze divise per categoria: si scopre così che al General Hospital di Port au Prince le forniture mediche per la sala operatoria stanno per finire o che un medico di Delmas, che ospita 150 persone a casa sua, ha bisogno di cibo, acqua e medicine. Si possono anche leggere i report lasciati dagli utenti: più di 1.500. Quelli che si distinguono per la scritta “action taken” indicano che qualcuno si è mosso per fronteggiare l’emergenza. Con Ushaidi è possibile anche impostare gli alerts e i feed Rss, per essere avvertiti in automatico delle novità. Si possono taggare foto per aiutare i soccorritori a riconoscere le persone e utilizzare il Person finder (cercapersone), un’applicazione creata appositamente da Google per scambiarsi informazioni sui dispersi.

Organigramma del team Ushahidi che opera ad Haiti

Ushahidi non è una piattaforma autoreferenziale, ma opera in una rete molto estesa. Le informazioni che riporta vengono utilizzate da organizzazioni come la Croce rossa internazionale, il dipartimento di Stato americano, la Fondazione delle Nazioni Unite, la Guardia costiera americana e altri enti governativi per la gestione dei disastri umanitari. Anche il New York Times ha fiutato l’importanza della piattaforma: secondo l’aggregatore di blog Huffington Post, vorrebbe integrare sul sito web il software Ushahidi per seguire gli sviluppi della situazione ad Haiti.

La piattaforma è nata per raccontare i disordini scoppiati in Kenya in seguito alle elezioni presidenziali del 30 dicembre 2007 che videro vincitore il presidente uscente Mwai Kibaki. L’esito della votazione fu subito contestato, anche dagli osservatori europei. Libera, uno slum contiguo a Nairobi, e Kismu furono il teatro delle prime violenze post-elettorali: in 24 ore si contarono oltre cento morti. Lo scontro politico assunse subito i connotati di un conflitto etnico fra i Kikuyo e i Luo, le dinastie di Kibaki e Raila Odinga, il candidato sconfitto.

In questo contesto un pool di blogger e di programmatori che vivevano o avevano vissuto in Kenya si sono uniti per creare Ushahidi, che nella lingua Swahili significa “testimonianza”. Con il Kenya sull’orlo della guerra civile, su Ushahidi vengono mappati i focolai delle violenze e i centri d’aiuto grazie alle segnalazioni che arrivano per email o dai telefonini (nei Paesi del Terzo mondo spesso le reti cellulari funzionano assai meglio di quelle fisse). Ushahidi raccoglierà anche le testimonianze dei crimini commessi dalle forze dell’ordine impegnate in una sanguinosa repressione, e sarà successivamente utilizzato per facilitare le donazioni provenienti dagli altri Paesi.

Dopo i primi passi mossi in Kenya, Ushahidi è cresciuto, trasformandosi in una vera e propria organizzazione che continua a sviluppare la piattaforma perché sia utilizzata in situazioni di emergenza. Viene sosì utilizzata in Sudafrica, dove vengono mappate le violenze xenofobe, e successivamente nella Repubblica democratica del Congo.

Anche Al-Jazeera ha sfruttato le potenzialità di Ushahidi, utilizzando le sue cartine all’interno del sito “War on Gaza”, creato dall’emittente televisiva del Qatar per monitorare le operazioni di guerra che hanno sconvolto Gaza durante l’operazione Piombo Fuso del gennaio 2009. Ushahidi è stata inoltre utilizzata per mappare i casi di influenza suina, il percorso degli aiuti umanitari in Uganda, Malawi e Zambia, i reati della città di Atlanta, negli Usa, e gli avvistamenti di animali selvatici, ancora una volta in Kenya.

Il codice di Ushahidi è open source ed è in continua evoluzione. Per lo sviluppo l’organizzazione ha ricevuto dei finanziamenti dalla fondazione del colosso dell’informatica Cisco e supporto tecnologico da InSTEDD, una multinazionale per la tecnologia applicata alle emergenze. Nel 2008, l’associazione umanitaria Humanity United, ha contribuito con 200.000 dollari per lo sviluppo iniziale del software.

Guida alla rete:

Ushaidi
Ushaidi per Haiti
Blog di Ushaidi-Haiti
Ushaidi su Facebook
Twitter del NY Times per Haiti


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