il Ducato » giornalismo d’inchiesta http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » giornalismo d’inchiesta http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Longform: nuova frontiera del giornalismo multimediale di qualità http://ifg.uniurb.it/2013/12/10/ducato-online/long-form-journalism/53755/ http://ifg.uniurb.it/2013/12/10/ducato-online/long-form-journalism/53755/#comments Tue, 10 Dec 2013 15:35:28 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=53755 Una foto dall'inchiesta del New York Times

Una foto dall’inchiesta Invisible Child del New York Times

Leggereste questo articolo sul vostro computer dalla prima all’ultima riga se fosse lungo oltre tre pagine? La risposta è sì, se questo fosse un racconto che oltre alle parole includesse foto, video e documenti multimediali.

Si chiama longform journalism ed è la ricetta che il New York Times sta portando avanti dall’anno scorso e che, a quanto pare, sta dando grossi frutti.

L’ultima in ordine di tempo è Invisibile Child, un’inchiesta che racconta la storia di Desani, una dei 22.000 bambini senza casa e assistenza sociale che vivono in condizioni disumane nei sobborghi della Grande Mela. Una giornalista e una fotografa hanno vissuto per un intero anno con Desani, 11 anni, e la sua famiglia, sette fratelli e genitori tossicodipendenti, in un asilo per senzatetto di Brooklyn. Il risultato è un fotoracconto lungo oltre 100 cartelle, divise in cinque “capitoli”, con 250 pagine solo di documenti originali. Il lavoro è stato pubblicato integrale online, mentre sulla carta sono uscite ieri e oggi le prime due delle cinque puntate.

Invisibile Child , analizzato per primo in Italia da Mario Tedeschini Lalli nel suo blog “Giornalismo d’altri”, è un racconto di un Dickens postmoderno, forte della base giornalistica dell’inchiesta ma più potente grazie alla comunicazione multimediale e ha capovolto una delle regole auree che gli esperti avevano redatto per il giornalismo online, la brevità. Il suo successo arriva dopo quello ottenuto dallo stesso giornale con A Game of Shark and Minnow e soprattutto con Snow Fall, il primo esperimento a sdoganare il tabù della lunghezza online. Un team di 30 persone ha lavorato per sei mesi consecutivi per realizzarlo, un investimento notevole per un giornale online che indica forse la consapevolezza del NYT che lungo o corto, un lavoro giornalistico di qualità ha la certezza del successo. Nella comunità digitale l’inchiesta ha coniato anche il verbo to snowfall ovvero “un racconto giornalistico multimediale complesso fuori dai modelli classici dei siti dei giornali e a sviluppo prevalentemente verticale”.

In Europa anche il Guardian, che ogni anno fattura una perdita (in sterline) a sei zeri, ha deciso di investire in questo modello con il suo NSA files decoded.

E venerdì scorso la Columbia Journalism School, nella conferenza “The Future of Digital Longform”, aveva rivalutato la lunghezza come elemento ugualmente fruibile online. Secondo il professore Michael Shapiro i lettori riescono a leggere articoli online anche di oltre 8.000 battute senza particolari problemi persino dallo schermo di uno smartphone; lui stesso ha dato vita a The Big Roundtable, un sito solo per lunghi racconti.

Shapiro però sostiene poi che “un articolo di giornale non è definito dalla sua lunghezza ma dallo stile” e proprio qui sta il punto. Non è tanto la lunghezza di un articolo a determinare il suo successo fra i lettori, ma sono il contenuto e la capacità comunicativa. Le proposte del NYT non sono lunghi mattoni di testo scritto alla “Guerra e Pace” ma il prodotto dell’incrocio di uno scritto ottocentesco dalla forte narratività e gli strumenti dei nuovi media. Video e testo, foto e parole, racconto e mappe si uniscono creando un prodotto meta-giornalistico che è sì estremamente lungo ma allo stesso tempo anche semplice da leggere, e il successo di pubblico lo dimostra.

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Usa, la politica affossa per legge un corso di giornalismo d’inchiesta http://ifg.uniurb.it/2013/06/13/ducato-online/wisconsin-la-politica-affossa-per-legge-un-corso-di-giornalismo-dinchiesta/51106/ http://ifg.uniurb.it/2013/06/13/ducato-online/wisconsin-la-politica-affossa-per-legge-un-corso-di-giornalismo-dinchiesta/51106/#comments Thu, 13 Jun 2013 10:22:14 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=51106

Università del Wisconsin

La politica spesso attacca la stampa libera, ‘colpevole’ secondo loro di mettere il naso dove non dovrebbe. Frequenti le querele e le intimidazioni, a volte anche fondate. Ma negli Stati Uniti, i senatori dello Stato del Wisconsin hanno fatto un passo ulteriore: hanno colpito con una norma di legge addirittura l’esistenza stessa di un Centro per il giornalismo investigativo, vietandone la collaborazione con l’università.

È successo all’università del Wisconsin che qualche anno fa per permettere agli studenti di entrare in contatto diretto con la professione avevano creato una convenzione con il Centro di giornalismo investigativo della città, un luogo in cui gli alunni avrebbero imparato a usare le armi della professione. Alla felice collaborazione però si è opposto ora il Senato: con un emendamento al bilancio ha imposto all’Ateneo di interrompere i rapporti con il centro.

Il centro era diventato l’anello di congiunzione tra i libri polverosi su cui gli aspiranti giornalisti imparano le regole teoriche e il ritmo frenetico della vita del reporter. Qui gli studenti, vestendo i panni dei giornalisti, cercavano notizie, raccoglievano testimonianze e raccontavano fatti. Fino al 5 giugno: “ I repubblicani- spiega Deborah Blum, insegnante della scuola di giornalismo dell’Università - hanno introdotto nel budget di Stato un emendamento in cui impongono all’Università di non ospitare il centro investigativo nelle sue aule e vieta a tutti gli impiegati di lavorare con loro”.

Il decreto, proposto da un senatore repubblicano, è stato approvato dal Joint Finance Commitee (una sorta di commissione bicamerale economica) è formata da 12 repubblicani e 3 democratici. “I repubblicani dimostrano di non amare il giornalismo investigativo- continua Deborah Blum – non solo hanno votato a favore del decreto ma non ci hanno informati prima di votarlo e, una volta approvato, non hanno voluto giustificare la decisione”.

Tagliare le spese in eccesso: questa sarebbe la motivazione inserita nel provvedimento ma dall’Università ribattono che il centro è un’azienda finanziata con soldi privati e non dipende economicamente dall’Università. “Non ci sono reali ragioni economiche – spiega la Blum – l’Università metteva a disposizione del centro solo qualche aula ma in compenso riceveva un grande apporto in termini di formazione professionale per i nostri allievi”.

Allora perché il Senato si è preoccupato di entrare nel merito dei rapporti tra centro e Università? La risposta, secondo l’insegnante americana, va cercata in una querelle nata tra un senatore repubblicano e i giornalisti del centro. “Un rappresentante repubblicano del comitato- spiega la professoressa Blum- era protagonista di una delle storie trattate da uno dei reporter del centro. Probabilmente non è un caso che proprio lui abbia favorito l’approvazione del decreto.”

Reazioni al provvedimento e alle modalità con cui è stata presa la decisione non sono mancate anche tra le fila dei Repubblicani. Dale Schultz, esponente di vecchia data del partito e noto per le sue posizioni moderate, ha giudicato “estrema” la decisione presa dal comitato. Schultz, commentando le 10 ore di negoziazioni segrete che hanno preceduto la votazione in aula, ha usato parole dure nei confronti dei repubblicani protagonisti della vicenda paragonandoli a Vladimir Putin e Hugo Chavez.

A prescindere dai dissidi interni al partito, ciò che rimane della vicenda è la fine di una collaborazione non solo utile alla formazione degli studenti universitari ma importante per la qualità del giornalismo americano dei prossimi anni. “Che il legislatore decida cosa si possa o non si possa insegnare è una violazione della libertà accademica ma è anche una perdita per lo Stato del Wisconsin- conclude con amarezza Deborah Blum- la Costituzione americana stabilisce la libertà non solo di insegnare ma anche di esprimere le proprie idee. Quel decreto è un’infrazione diretta della nostra libertà e ai principi costituzionali”.

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Tre freelance e le inchieste in crowdsourcing: dall’Irlanda arriva Investigate http://ifg.uniurb.it/2013/05/18/ducato-online/tre-freelance-a-caccia-di-inchieste-dallirlanda-arriva-investigate/46809/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/18/ducato-online/tre-freelance-a-caccia-di-inchieste-dallirlanda-arriva-investigate/46809/#comments Sat, 18 May 2013 01:00:15 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=46809 Investigate, un sito lanciato da due giornalisti irlandesi per far interagire pubblico e mondo dell'informazione]]>

Peadar Grogan, fondatore di Investigate.ie

Dalla strada alla prima pagina dei quotidiani nazionali. In Irlanda le notizie hanno a disposizione un modello di giornalismo che mette in contatto le redazioni con il pubblico per far emergere i problemi della collettività. Il nuovo protagonista dell’informazione nel Paese di James Joyce si chiama Investigate, uno spazio dove il crowdsourcing tenta il salto di qualità. per essere sempre più al servizio dei cittadini.

Fondato da Peadar Grogan e Maria Delaney, studenti con un master in giornalismo all’università di Dublino, Investigate è sulla “piazza digitale” dall’inizio di maggio, ma sta già attirando l’interesse delle testate irlandesi. Lo scopo non è soltanto quello di raccogliere le segnalazioni dei cittadini per trasformarle in notizie, ma anche quello di fornire servizi ai media tradizionali. Insomma, un ponte tra il pubblico e il giornalismo mainstream, uno spazio dove la testimonianza dell’uomo della strada può trasformarsi nell’ultima notizia di una grande testata.

Il meccanismo alla base di Investigate è semplice: i lettori irlandesi sono invitati a segnalare i problemi delle loro comunità, il team, composto da tre giornalisti freelance, indaga e realizza un’inchiesta da vendere ai quotidiani, utilizzando uno schema di lavoro illustrato nel loro sito. Allo stesso tempo, la squadra di Investigate si offre come sostegno ai giornalisti delle testate locali e nazionali per la realizzazione di servizi audio video, infografiche, live blogging e comunicazione online.

Ecco, ad esempio, come è nata una delle prime inchieste di Investigate. Attraverso le segnalazioni dei lettori, Maria Delaney ha scoperto che i donatori di rene non ricevono dallo Stato un compenso economico per i giorni di lavoro persi a causa del ricovero in ospedale. La giornalista ha approfondito la ricerca, intervistando pazienti, medici, rappresentanti di associazioni e il portavoce del dipartimento della Salute.  La storia è stata poi venduta al Sunday Times e pubblicata nell’edizione del 5 maggio.

Magari non è la rivoluzione copernicana del giornalismo, ma di sicuro è un passo avanti del modello crowdsourcing: “Abbiamo monitorato – spiega Peadar Grogan – come i media tradizionali e i nuovi media stanno usando internet per interagire con i lettori e abbiamo voluto fare qualcosa di più. Vogliamo dare alla gente una voce, creare uno spazio dove le persone possono parlare direttamente con i giornalisti. Il nostro obiettivo è rendere il giornalismo investigativo più aperto e trasparente. Non stiamo cercando di competere con le altre agenzie di stampa. Se le persone sono preoccupate che la loro voce possa non essere ascoltata da un organo di informazione più grande, noi siamo in grado di fornire un’alternativa. Ed essendo online, Investigate è sempre a disposizione della gente”.

Per il momento il progetto è ancora ai primi passi, ma Peader Grogan guarda avanti: “Saremo in grado di monitorare le tendenze nel corso del tempo e per posizione geografica, in modo da verificare se gli stessi problemi stanno interessando un gran numero di persone. Investigate si alimenterà grazie alle storie raccontate dal nostro team di liberi professionisti, ma potremo anche aiutare i giornalisti a realizzare i propri articoli, offrendo una piattaforma dove possono lanciare appelli al pubblico”.

L’esempio di Investigate potrebbe rappresentare un modello di business, un modo nuovo per rendere economicamente sostenibile una professione sempre più in crisi: “Per ora non pensiamo al nostro sito come un’impresa redditizia, ma più come un hub per aiutarci a raggiungere i nostri obiettivi e per parlare direttamente con i lettori – sottolinea Grogan – i soldi che guadagniamo vengono utilizzati per sviluppare il sito web e per renderlo uno strumento ancora più utile per il pubblico e per i media. Nel lungo termine, quando Investigate rappresenterà un marchio di fiducia, speriamo che possa diventare autosufficiente. Il punto è come farlo in modo sostenibile: stiamo cercando di ridurre i costi e i tempi necessari per il lavoro investigativo”.

“Abbiamo intenzione di sviluppare relazioni con redazioni in tutta l’Irlanda e speriamo di essere giudicati per la qualità del nostro lavoro – continua il cofondatore di Investigate -. Nonostante le difficoltà in cui versa il settore, questo è un momento interessante per diventare giornalista. È impossibile dire quale direzione prenderà in futuro, ma credo che il giornalismo è più importante oggi di quanto lo sia mai stato”.

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Ojetti: “La controinformazione è diventata inutile” http://ifg.uniurb.it/2013/05/14/ducato-online/ojetti-controinformazione-e-diventata-inutile-i-grandi-misteri-ditalia-sono-esauriti/46647/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/14/ducato-online/ojetti-controinformazione-e-diventata-inutile-i-grandi-misteri-ditalia-sono-esauriti/46647/#comments Tue, 14 May 2013 00:55:58 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=46647 [continua a leggere]]]>

Paolo Ojetti

Parlare di controinformazione e di giornalismo investigativo significa riflettere su un passato importante del giornalismo italiano ma anche sul suo futuro. Due forme di comunicazione che in tempi non troppo lontani “sono state il termometro che con efficacia ‘ha misurato la febbre’ del nostro Paese” (Controinformazione, Massimo Veneziani).

E c’è una data precisa, un momento esatto, in cui il modo di fare informazione cambiò per sempre volto: è il 1968. Un anno-spartiacque tra due modi differenti di fare informazione antagonista: prima c’era “il Mondo” di Mario Pannunzio con le sue inchieste sull’abusivismo edilizio e gli attacchi al sistema democristiano; poi ci saranno le battaglie sociali, come quella per il divorzio nel 1974, le lotte operaie, le inchieste sulle “trame nere” e sul coinvolgimento di apparati dello Stato nelle vicende stragiste che hanno violentato il nostro Paese.

Ma a cambiare non furono solo i contenuti, cambiò anche la tecnica dell’inchiesta, con la perdita di fiducia nei confronti delle fonti istituzionali, delle notizie velinarie, con la classe politica che iniziò ad essere criticata senza troppa riverenza. Paradossalmente, però, questo nuovo giornalismo, se si vuole figlio dei movimenti sessantottini, si ritrovò a subirne le degenerazioni terroristiche e l’attacco alla stampa venne visto come il tentativo di colpire una struttura portante dell’intero sistema capitalistico. Molti giornalisti, infatti, pagarono con la vita l’essere stati contro-informatori.

Nell’arco di un ventennio, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’90, il giornalismo d’inchiesta visse una sorta di parabola esistenziale. Dalla militanza della controinformazione a ridosso di avvenimenti come Piazza Fontana e il rogo di Primavalle, al periodo delle grandi inchieste degli anni’80, prima fra tutte Ustica, per degenerare poi con Tangentopoli, in cui il meccanismo perverso dell’informazione spettacolo trasformò imputati in colpevoli prima ancora di un giudizio definitivo.

E oggi è ancora possibile un giornalismo d’inchiesta coraggioso e militante come quello di trent’anni fa? Risponde Paolo Ojetti, giornalista del Fatto Quotidiano e docente all’Ifg di Urbino. Forse “non ci sono le condizioni politiche favorevoli”, oppure “c’è un’altra amara verità: un’inchiesta fa vendere di più? Non sempre”.

Come ha vissuto o percepito lei questa evoluzione del giornalismo d’inchiesta?
Tangentopoli? Non vedo degenerazioni particolari. Certo, ci furono errori, ma i giornalisti seguirono indagini, procedimenti e processi soprattutto come parti di un unico e sorprendente ‘fenomeno’. Ci furono episodi spiacevoli, come il suicidio del socialista Moroni e di Cagliari. In tutti e due i casi il suicidio apparve come reazione sproporzionata. Oggi come oggi non si suiciderebbe nessuno. Cambiati i tempi, è cambiata anche l’etica dell’onore personale. Poi, diciamoci la verità, noi giornalisti venivamo da un periodo eccezionalmente oscuro: si era davvero ‘suicidato’ Sindona? Si era davvero impiccato da solo, di notte e con alcuni mattoni in tasca , Roberto Calvi? Insomma, eravamo molto scettici anche di fronte alla verità.

Perché, dopo un decennio di militanza, la controinformazione sparisce negli anni ’80?
Sparisce proprio perché la riforma della procedura penale aveva – diciamo – aperto all’informazione le istruttorie dopo l’iscrizione al registro degli indagati. In quel momento, gli avvocati venivano coinvolti nella fase d’indagine e, dunque, sia la difesa che le parti civili potevano passare notizie alla stampa. Con la richiesta di rinvio a giudizio, i fascicoli e la trascrizione delle intercettazioni depositate sono a disposizione di chiunque e – inutile dirlo – anche se la richiesta di rinvio non è una condanna, la cronaca può persino avanzare congetture, ipotesi. Abbiamo visto i processi anticipati nei talk show, con ospiti che parlano spesso a vanvera: ci meravigliamo ancora di un articolo scritto da un cronista di giudiziaria che certamente ne sa più del criminologo a gettone o – nel caso di vicende politico-giudiziarie – dell’amico del politico indagato? Controinformazione, dicevamo. Beh, è diventata inutile. I grandi ‘misteri’ di Italia sono al momento esauriti. Se ci occupiamo di malasanità, corruzione politica, vicende di camorra e mafia, non stiamo più facendo controinformazione, ma informazione pura e semplice.

Agli inizi degli anni ’90 la carta stampata sentiva già la crescente rivalità della televisione, allora perché non sfruttare un’occasione come Tangentopoli per riaffermare la qualità, in particolare del giornalismo d’inchiesta, anziché limitarsi alla ‘caccia al verbale d’interrogatorio’, riducendosi così a semplice spettatore degli eventi?
Non è del tutto vero che ci si limiti alla ‘caccia’ ai verbali. Ancora adesso esistono le inchieste. Solo che si è ristretto il campo ai fenomeni di corruzione. Mi viene in mente il caso Formigoni, la parentopoli di Alemanno, gli innumerevoli casi di malasanità, le case a sua insaputa di Scajola. L’ultima vera controinformazione si è vista per la Diaz nel 2001. Ecco, il potere poliziesco voleva rifilare all’opinione pubblica la falsa molotov, i pestaggi come inevitabile reazione alle violenze. E invece sono state le migliori giornate del giornalismo nazionale, di tutte le tendenze, a eccezione di tre testate e tutte di destra: il Giornale, Libero, il Foglio che presero subito per buone le versioni ufficiali.

La controinformazione è stata un fenomeno circoscritto agli anni ’70, ma ha influito notevolmente nel modo di fare inchiesta imponendo un approccio spregiudicato nella ricerca delle notizie e nel rapporto con le fonti. Oggi, invece, in alcuni casi sembra che editori, direttori e giornalisti si accontentino della superficie delle notizie senza voler andare in profondità. Si fa sempre meno giornalismo d’inchiesta. Perché?
È vero, si fa meno giornalismo di inchiesta. I giornali sono diventati macchine che occupano i giornalisti più al desk che a caccia di notizie. È il momento dei free lance, aspetto difficilissimo del mestiere. Ci vogliono coraggio, iniziativa, non si hanno le spalle coperte da una testata, si rischia molto e non è facile ‘vendere’ storie, soprattutto se toccano i poteri costituiti. Pubblicare vuol dire avere totale fiducia nel free lance ed essere disposti a difenderne l’operato fino in fondo. Non tutti gli editori vogliono correre questi rischi. E poi c’è un’altra amara verità: un’inchiesta fa vendere di più? Non sempre. Purtroppo vendono più le ‘confessioni’ di zio Michele a favore di telecamera che le mazzette della cricca per il terremoto dell’Aquila.

È possibile prevedere un’evoluzione del giornalismo investigativo nei prossimi anni?
Tutto cambia, ma nessuno sa in che modo. Non sono favorevoli nemmeno le condizioni politiche. Una opposizione ‘alla Grillo’ non porta controinformazione, non fa venire a galla verità nascoste o oscure complicità. È un’opposizione di chiacchiere e non di fatti, di battute e non di vere denunce. Dopo aver attraversato tanti anni di giornalismo e aver seguito per anni la strage di Piazza Fontana, i misteri del sequestro Moro, Sindona, il caso Pecorelli, lo Ior e Calvi, la P2, il fallito golpe Borghese, lo scandalo dei finanziamenti occulti ai partiti elargiti dai petrolieri degli anni ’70, l’Enimont, lo stragismo degli anni ’80 e ‘90, i legami fra i servizi segreti del Viminale e il terrorismo nero di Delle Chiaie, sono arrivato alla conclusione che se qualche verità è venuta a galla, è arrivata talmente in ritardo e talmente sfilacciata da aver perduto, strada facendo, tutto il suo potenziale. Insomma, mi sembra sia stato un lungo lavoro, faticoso, da ricordare con orgoglio, ma del tutto inutile.

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Irpi lancia la sfida: inchieste italiane con spirito transnazionale http://ifg.uniurb.it/2013/05/13/ducato-online/irpi-lancia-la-sfida-inchieste-italiane-con-spirito-transnazionale/46308/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/13/ducato-online/irpi-lancia-la-sfida-inchieste-italiane-con-spirito-transnazionale/46308/#comments Mon, 13 May 2013 18:55:28 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=46308 LEGGI "La controinformazione è diventata inutile"]]>

Il sito di Irpi

Si chiama Irpi, è l’acronimo di Investigative reporting project Italy ed è la prima associazione di giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese. È stata creata concretamente quattro mesi fa, anche se l’idea embrionale nacque a Kiev, nell’ottobre 2011, nel corso della settima edizione della Global Investigative Journalism Conference (Gijc). E non è un caso, visto che il suo tratto distintivo è proprio la doppia natura nazionale e internazionale.

Otto fondatori, sette reporter e alcune delle firme più importanti del giornalismo d’inchiesta tra soci onorari e advisor, come Milena Gabanelli e Charles Lewis (fondatore del Center for pubblic integrity e considerato tra i 30 giornalisti investigativi più importanti negli Stati Uniti dai tempi della prima guerra mondiale). Inchieste, notizie ma anche servizio di fixing, che va dall’assistenza logistica a quella linguistica, per giornalisti stranieri e agenzie di stampa internazionali.

Leo Sisti

“L’idea è stata di Guia Baggi, è stata lei la molla. Al ritorno in Italia ha contattato tutti i giornalisti italiani presenti a Kiev e a gennaio è nata Irpi”. A parlare è Leo Sisti, direttore esecutivo dell’associazione, giornalista dell’Espresso, del Fatto Quotidiano e collaboratore di Repubblica. “Abbiamo scelto la formula non-profit perché tutto ruota intorno ai finanziamenti, organizzazioni di questo tipo – spiega Sisti – vengono finanziate da fondazioni che spesso per statuto scelgono di sostenere inchieste giornalistiche che non provengano da società capitalizzate”.

E quando parla di fondazioni Sisti si riferisce soprattutto a realtà internazionali che hanno un ruolo fondamentale nel giornalismo d’inchiesta, come il network americano The International consortium of investigative journalist (Icij) e la Gijn. Organizzazioni di cui Sisti fa parte ormai da molti anni e con cui ha realizzato inchieste del calibro di Offshoreleaks. “Quando nel 2000 mi chiesero di entrare nell’Icij accettai volentieri perché mi interessava molto l’esperimento, un sistema rivoluzionario basato su una rete, oggi, di 160 giornalisti di tutto il mondo e di testate differenti”.

LEGGI Offshoreleaks, un’inchiesta a 172 mani

Una nuova frontiera del giornalismo in cui la chiave è la collaborazione tra colleghi di varie nazionalità. La lingua d’uso è ovviamente l’inglese, così quando l’inchiesta è pronta viene immessa nel circuito internazionale attraverso il web a disposizione di tutte le testate mondiali che possono prenderla senza pagare. Una realtà impensabile prima d’ora in Italia: da qui l’esigenza di creare un centro specifico per il giornalismo investigativo. “In Italia non dico che l’inchiesta sia morta, ma ci manca poco, perché richiede molto tempo, denaro e risorse; le testate oggi hanno sempre meno giornalisti attivi a disposizione che non possono essere distaccati dalle redazioni per tempi troppo lunghi. Quello che cerchiamo di fare con Irpi è importare il modello internazionale di fare inchiesta”.

Ma qual è il modello da seguire? Leo Sisti e la sua squadra di reporter hanno scelto il metodo anglosassone, quello dell’inchiesta approfondita che impone tempi lunghi, tanta documentazione, ricerca attenta delle fonti e, soprattutto, citazione di tutte le posizioni. “Oggi un grande aiuto viene da Internet, Google è una grande fonte, ma non basta. Molto più importante è il data journalism, cioè la possibilità di accedere a banche dati e ricavarne notizie”.

Ma per farlo bisogna imparare non solo a cercare ma anche ad usare i dati e l’Italia solo adesso comincia a muovere i primi passi in questo senso. “Ho iniziato a seguire conferenze internazionali sul data journalism già dieci anni fa – racconta Sisti – e proprio in una di queste, a Boston, il caporedattore del Seattle Times mi disse che le ultime assunzioni loro le avevano fatte in questo settore; c’è bisogno di gente che sappia ‘smanettare’, che sappia fare ricerche su internet a livello approfondito”.

LEGGI Simon Rogers lascia il Guardian: sarà data journalist di Twitter

Questo non esclude il contatto umano che, secondo il giornalista dell’Espresso, resta sempre la fonte primaria, specialmente nella cronaca giudiziaria dove la ricetta è sempre la stessa: frequentare i tribunali, parlare con gli avvocati, con i magistrati e con le forze dell’ordine. “Il mix di ricerca sui siti web, data journalism e ‘fonti umane’ crea un circuito di notizie che poi sfocia in un’inchiesta”.

L’inchiesta di Irpi pubblicata dal Guardian

Il problema però poi è piazzare, vendere il lavoro e immetterlo nel circuito mediatico. “L’Irpi è nato da meno di quattro mesi, un’inchiesta è stata venduta al Guardian e un’altra spero verrà pubblicata sull’Espresso”. Ma quello che conta di più per Leo Sisti è spiegare come si riesca a realizzare un’inchiesta: “Come Irpi abbiamo fatto richiesta di alcune sovvenzioni allo European journalism fund, ne abbiamo ottenute due e siamo stati gli unici italiani a vincere su circa 40 domande presentate. Ci hanno finanziato per 5000 euro che abbiamo utilizzato per le ricerche e le spese dei viaggi. Il ricavato della vendita dell’inchiesta, invece, andrà ai giornalisti che ci hanno lavorato, anche perché dei nostri reporter solo tre hanno un contratto stabile con delle redazioni, gli altri sono freelance e non hanno introiti mensili”.

Nonostante l’associazione sia appena nata, il riscontro da parte dei colleghi è stato positivo. L’inchiesta-lancio di Irpi sulle frodi nell’agricoltura, intitolata “Concentrato di pomodoro cinese ‘Made in Italy’ venduto in Inghilterra”, è stata pubblicata lo scorso febbraio dal Guardian proprio per la sua caratteristica trasnazionale. Non solo perché scritta in inglese, ma soprattutto perché incentrata su una partita di 200mila barattoli di concentrato di pomodoro immessi nella grande distribuzione inglese e spacciati per prodotti italiani. Un’inchiesta che nel nostro paese ha portato alla condanna in primo grado del titolare di un’azienda per il reato di utilizzo fraudolento del marchio di produzione italiano.

In chiusura non poteva mancare una considerazione amara sullo stato del giornalismo d’inchiesta nel nostro paese. “Il fatto che nella televisione italiana, che resta comunque lo strumento mediatico più forte, – afferma Sisti – ci sia un solo programma che fa veramente inchiesta, ed è Report della Gabanelli, la dice lunga sullo scarso interesse da parte dei media televisivi su questo tipo di giornalismo”.

Il problema, secondo il giornalista dell’Espresso, è principalmente di tipo politico, il timore di trattare temi scottanti deriva da una non totale libertà di espressione, che relega il nostro paese agli ultimi posti della graduatoria dell’informazione d’inchiesta.

Ma quindi quale futuro si prospetta per i futuri giornalisti? “Io vengo da una scuola, come quella dell’Espresso, dove la cura del dettaglio e della notizia è fondamentale. E la notizia costa fatica, gambe, cervello e disponibilità illimitata di tempo. Ai giovani giornalisti posso solo dire di essere umili, curiosi, determinati, di non guardare in faccia nessuno e non avere timori reverenziali nei confronti di nessuno”.

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