il Ducato » guardian http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » guardian http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Simon Rogers lascia il Guardian: sarà data journalist di Twitter http://ifg.uniurb.it/2013/04/20/ducato-online/simon-rogers-lascia-il-guardian-sara-data-journalist-di-twitter/43812/ http://ifg.uniurb.it/2013/04/20/ducato-online/simon-rogers-lascia-il-guardian-sara-data-journalist-di-twitter/43812/#comments Sat, 20 Apr 2013 08:33:42 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=43812

Se fin ora i giornalisti hanno usato Twitter per trovare dati e notizie, da oggi sarà Twitter ad “usare” i giornalisti. Il social network diventa, infatti, editore e assume uno dei pionieri del Data journalim: Simon Rogers.

Rogers sarà il primo data editor di Twitter: siederà dietro una scrivania nell’assolata San Francisco e leggerà i tweet che ogni giorno riempiono le nostre timeline per costruirci sopra delle storie. Quello che fanno già ora molti giornalisti? Si; con la differenza che, per la prima volta, non lo farà per un giornale.

Quello di Rogers è un nome tutt’altro che sconosciuto per gli addetti ai lavori. Giornalista del The Guardian, Rogers è diventato famoso come uno dei pioniere del Data journalism: una forma di giornalismo che, invece di usare solo le parole, fa uso intensivo di database, mappe digitali e software per analizzare, raccontare e visualizzare un fenomeno o una notizia.

Rogers – oltre a guidare il team che produce prodotti interattivi per il sito del quotidiano, facendo collaborare strettamente giornalisti, grafici e programmatori – è anche il “papà” della sezione del quotidiano londinese Datablog and Datastore, una banca dati online che mette a disposizione dei lettori dati grezzi perché li analizzino. Numeri e dati ad accesso libero per trasformare il lettore in citizen journalist.

Dopo 15 anni passati nella redazione del Guardian, Rogers ha appena annunciato la sua decisione di lasciare il giornale per unirsi al team di Twitter media dove si occuperà, appunto, di analizzare i “cinguettii” e trasformarli in prodotti giornalistici perché:

Twitter è diventato un elemento così importante nel nostro modo di lavorare come giornalisti. E’ impossibile ignorarlo, perché è sempre al centro di ogni evento importante, dalla politica allo sport, allo spettacolo. Come editor di dati, aiuterò a spiegare come funziona questo fenomeno. E non riesco a immaginare un lavoro migliore per arrivare a raccontare storie sulla base di alcuni dei dati più sorprendenti in giro.

Una risposta – indiretta e forse un po’ scomoda – a chi continua a chiedersi se quello fatto su e con i social network sia vero giornalismo.

 

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Wikileaks, grafici e tabelle: il giornalismo punta sui dati http://ifg.uniurb.it/2012/03/09/ducato-online/wikileaks-grafici-e-tabelle-il-giornalismo-punta-sui-dati/27795/ http://ifg.uniurb.it/2012/03/09/ducato-online/wikileaks-grafici-e-tabelle-il-giornalismo-punta-sui-dati/27795/#comments Fri, 09 Mar 2012 18:28:17 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=27795 data journalism vanta ora un premio internazionale. Presto sarà pronto anche il primo manuale per insegnare ai giornalisti come trasformare i numeri in notizie LEGGI Dieci punti per il data journalism]]> URBINO – Non più solo parole ma dati. È sempre più frequente, soprattutto sul web, trovare tabelle, grafici interattivi, mappe che accompagnano un articolo o sono essi stessi l’articolo. È il cosiddetto data journalism, un tipo di giornalismo che parte dai dati e li usa come mezzo per arrivare alle notizie.

Una competenza sempre più richiesta oggi nei giornalisti, tanto che è appena nato il “Data journalism award”, un riconoscimento internazionale proprio per il giornalismo dei dati. Tra il 30 maggio e l’1 giugno, a Parigi,  verranno premiati per la prima volta i sei migliori lavori giornalistici basati su dati, siano essi inchieste, applicazioni, visualizzazioni o storytelling.

A promuoverlo il Global Editors Network (un’associazione che unisce direttori editoriali e altri vertici editoriali delle principali testate del mondo con l’intento di rompere le barriere tra i vecchi e i nuovi media e creare nuovi strumenti per il giornalismo) in collaborazione con l’European Journalism Center e con il supporto di Google. Partner italiana Wired Italia.

Quello che ha tutta l’aria di essere il Pulitzer del data journalism mira a diffondere  questo nuovo modo di fare giornalismo. “Come giornalisti – dice il presidente della giuria Paul Steiger al Daily Wired.it – stiamo utilizzando sempre più massicciamente dati numerici e banche dati per produrre informazione. Il premio punta proprio a premiare l’innovazione in questo settore e a stimolarne l’evoluzione”.

Un settore, quindi, in rapida espansione. Soprattutto in un momento in cui la rete pullula di dati, grazie agli open data (i dati accessibili a tutti senza alcuna restrizione o controllo) e a politiche di open government (secondo cui l’attività dell’amministrazione pubblica dovrebbe essere aperta e a disposizione di tutti i cittadini). Ma non solo.  “Le più importanti storie degli ultimi due anni – ci spiega Simon Rogers, direttore del Datablog e del Datastore del quotidiano The Guardian – sono state modellate dal data journalism. WikiLeaks, la crisi finanziaria, le rivolte in Inghilterra: senza il data journalism il modo in cui avremmo compreso questi eventi sarebbe stato completamente diverso”.

Tutto questo, però, non dovrebbe essere una novità. Rogers ha scritto una guida con la quale spiega cos’è il data journalism e come viene usato nella sua redazione. Nel primo punto si legge: “Il giornalismo dei dati esiste da quando esistono i dati”. Niente di nuovo, quindi? La differenza, secondo Rogers, è che mentre prima “i dati venivano pubblicati in libri molto costosi” oggi abbiamo fogli di calcolo e computer che aiutano a fare gran parte del lavoro.

Detta in questo modo sembrerebbe quasi che chiunque, grazie a strumenti semplici come Many Eyes, Google Fusion Tables o Timetric, sia in grado di raccogliere e aggregare insieme dati grezzi, dandogli un significato. Ma non è esattamente così.
Dire che i dati sono ‘aperti’, liberi, pubblici non equivale a dire che sono anche facilmente accessibili. C’è bisogno di una mediazione, di qualcuno che sappia leggerli, interpretarli  e spiegarli. Che sappia ‘tradurli’ in un linguaggio comune e comprensibile a chiunque. Qualcuno che faccia le domande giuste e tiri fuori le storie che stanno dietro i numeri. Quel qualcuno è il giornalista che continua, quindi, a rivestire un ruolo fondamentale.

Perché, come scrive Rogers nel suo decalogo, “siamo noi la connessione tra i dati e le persone che vogliono capire di cosa si sta effettivamente parlando”.

L'immagine rappresenta i collegamenti tra i 11.616 documenti - rilasciati da WikiLeaks - riguardanti le azioni più importanti della guerra in Iraq nel solo mese di dicembre del 2006. Ogni punto è un documento, etichettato con le tre parole più rilevanti che lo riguardano. I documenti simili sono collegati tra loro da una riga. Le posizioni dei punti sono astratte e non indicano una posizione geografica.

Un esempio tra tutti WikiLeaks. Dal novembre 2010 centinaia di migliaia di documenti segreti sono stati pubblicati on line nel sito creato da Julian Assange. Il suo intento era quello di dare ai cittadini le informazioni in modo diretto e allo stato puro. Ma senza l’intermediazione dei giornali, a cui poi Assange ha dovuto cedere, difficilmente si sarebbe venuti a conoscenza delle notizie celate in migliaia di pagine.

Sono proprio i giornalisti che le hanno cercate, trovate e rese ‘leggibili’ a tutti. Le hanno ordinate, filtrate, rese comprensibili. E ne hanno permesso la diffusione a livello mondiale.

Che si usino grafici, mappe o numeri, dietro ognuno di essi, quindi, ci deve essere una storia. L’abilità del giornalista sta nel nel trovare il modo migliore per raccontarla.

Anche per questo motivo a novembre è nato un progetto, il “Data Journalism Handbook”, un manuale che vuole essere una guida per gli stessi giornalisti che si avvicinano a questo tipo di giornalismo, dando indicazioni sulla tipologia dei dati disponibili ma dispersi disordinatamente nel web e sugli strumenti di lavoro migliori per aggregarli.

Un libro alla cui stesura partecipano circa quaranta giornalisti di diversi Paesi, ma aperto anche al contributo di chiunque voglia collaborare con la propria esperienza e professionalità. Basta iscriversi alla mailing list del sito Data Driven Journalism e quando il libro sarà terminato, forse tra poco più di un mese si augurano i coordinatori del progetto, lo si potrà poi scaricare gratuitamente online.

Essere un data journalist oggi è sempre meno una scelta o qualcosa da cui un bravo giornalista può prescindere. “Usare dati e numeri per raccontare le storie – conclude Rogers – non è più inusuale. E’ semplicemente giornalismo”.

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Dieci punti per spiegare il giornalismo dei dati http://ifg.uniurb.it/2012/03/09/ducato-online/dieci-punti-per-spiegare-il-giornalismo-dei-dati/27876/ http://ifg.uniurb.it/2012/03/09/ducato-online/dieci-punti-per-spiegare-il-giornalismo-dei-dati/27876/#comments Fri, 09 Mar 2012 18:19:48 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=27876 URBINO – Il giornalista del Guardian Simon Rogers, direttore di Datablog, il blog del quotidiano inglese dedicato al data journalism, ha stilato una guida in dieci punti per spiegare cos’è questo ‘nuovo’ tipo di giornalismo. Eccola:

1. Forse oggi va di moda, ma non è qualcosa di nuovo
Il giornalismo dei dati esiste da quando esistono i dati. A metà dell’Ottocento Florence Nightingale, un’infermiera britannica,  scrisse una relazione sulle condizioni dei soldati inglesi nel 1858. Nella prima edizione del Guardian (1821) venne pubblicata una tabella che elencava tutte le scuole di Manchester, il costo e il numero degli studenti. La differenza è che mentre in passato i dati venivano pubblicati in libri molto costosi, ora computer con fogli di calcolo e programmi specifici fanno da soli metà del lavoro.

2. Open data significa anche open data journalism
Oggi i numeri e le statistiche non sono più riservate a pochi ma sono a disposizione di tutti coloro che hanno un foglio di calcolo sul proprio computer, tablet o smartphone. Chiunque può accedere a un database e dargli la forma che preferisce. Per un giornalista è facile sbagliare, ma è altrettanto facile trovare l’aiuto di alcuni gruppi indipendenti (per esempio ProPublica, Wheredoesmymoneygo?Sunlight Foundation) che si muovono con semplicità nel mondo dei dati.

3. Il data journalism è diventato una vetrina?
Qualche volta. Oggi ci sono così tanti dati a disposizione che si cerca di dare ai lettori i fatti chiave di una vicenda. La loro ricerca è, quindi, tanto complessa e importante quanto lo è la ricerca dell’intervista giusta per un articolo di giornale.

4. Database sempre più grandi su questioni specifiche
I dati a disposizione dei giornalisti sono sempre più numerosi (basta solo pensare ai 391 mila documenti rilasciati da WikiLeaks sull’Iraq) e riguardano questioni specifiche. Un bravo data journalist dovrebbe riuscire a rendere tali dati accessibili e comprensibili a tutti.

5. Il data journalism è 80% sudore, 10% grandi idee, 10% risultati.
Si passano delle ore a fare in modo che i database funzionino, a riformattare i dati e a mescolarli. I giornalisti agiscono soprattutto da ponte tra i dati e le persone che vogliono capire di cosa si sta davvero parlando.

6. Forma lunga e forma breve
Lavorare sui dati tradizionalmente significa passare settimane ad analizzare un singolo database, elaborarlo e infine estrapolarne qualcosa. A volte il risultato è un incredibile scoop, altre è un buco nell’acqua. Ma sempre di più oggi si sta affermando una ‘forma breve’ di data journalism, secondo cui i dati chiave vengono individuati immediatamente, analizzati e fornirli ai lettori mentre la notizia è ancora in circolo. Il trucco sta nel formulare queste analisi con le tecnologie a disposizione nel minor tempo possibile. E farlo comunque in modo corretto.

7. Tutti possono farlo…
Soprattutto grazie a strumenti come Google Fusion Tables, Many Eyes, Google Charts o Timetric, che si trovano gratuitamente nel web, è possibile creare grafici e tabelle di ogni genere e dimensione partendo dai dati in nostro possesso.

8…ma l’aspetto è molto importante
Un buon design è, però, ancora importante. Alcune delle migliori visualizzazioni del Guardian (come quella che spiega le relazioni tra i protagonisti delle intercettazioni telefoniche dello scandalo News of the World o la mappa sull’apparato governativo britannico) funzionano perché non sono state disegnate da un computer ma da persone che capiscono le vicende rappresentate.

9. Non c’è bisogno di essere un programmatore
Il compito principale è quello di pensare ai dati come un giornalista e non come un analista. Perché determinati numeri sono interessanti? Cosa c’è di nuovo? Cosa può succedere se si incrociano con altri dati? Rispondere a queste domande è ancora la cosa più importante.

10. Si tratta (ancora) di storie
Il data journalism non riguarda solo grafici, tabelle e visualizzazioni. Si tratta di raccontare le storie nel miglior modo possibile cercando nuove modalità di narrazione. I giornalisti se ne stanno rendendo conto sempre di più, tanto che essere un data journalist oggi non è più qualcosa di inusuale. È solo giornalismo.

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Gli stereotipi nella stampa europea http://ifg.uniurb.it/2012/01/26/ducato-online/gli-stereotipi-nella-stampa-europea/17069/ http://ifg.uniurb.it/2012/01/26/ducato-online/gli-stereotipi-nella-stampa-europea/17069/#comments Thu, 26 Jan 2012 13:57:35 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=17069 [continua a leggere]]]> In Svezia la nazionalità del reo non può essere indicata, in Francia bisogna specificare se è residente o no, in Gran Bretagna i media sono accusati di essere sessisti. Il problema degli stereotipi e luoghi comuni nella stampa non riguarda solamente l’Italia ma anche altri Paesi.

FRANCIA. “Se l’origine etnica è rilevante per la notizia – spiega Yann Guégan di Rue89 – deve essere inserita, altrimenti no. Qui in Francia La Provence è nota come la testata che ne fa un uso improprio”.

Claire Poinsignon di Arte France invece cerca di minimizzare: “La stampa riflette i cliché razzisti e sessisti che ci sono nella società. Fortunatamente c’è una certa stampa e certi giornalisti che attenuano o combattono gli stereotipi esistenti”.

Nei Paesi dell’Unione Europea, non essendoci un ordine dei giornalisti, prevalgono le carte interne alle redazioni. Come sostiene Poinsignon: “Qui siamo più favorevoli alla responsabilità individuale, piuttosto che adottare carte deontologiche per un buon comportamento da parte dei media”. Che come abbiamo visto,  in Italia vengono poco applicate.

Anche Guégan spiega che non ci sono carte deontologiche generali ma “sono presenti solo in alcune organizzazioni e soprattutto sul trattamento dei fatti di cronaca”.

Sono per lo più le testate economiche ad adottare carte interne come La Tribune o inerenti al trattamento di notizie di fatti di cronaca, come quella del quotidiano Ouest France. Il  quotidiano di Rennes raccomanda ai propri giornalisti di non definire il reo secondo “la professione, la comunità etnica e religiosa” e “non utilizzare termini peggiorativi, e se l’autore di un delitto è straniero, assicurarsene, precisare la sua nazionalità aggiungendo però se risiede o no in Francia”.

GRAN BRETAGNA. In Gran Bretagna sono diverse le redazioni che al loro interno hanno adottato delle carte deontologiche. E’ il caso del Guardian che ha realizzato la Carta etica nel 2003, come pure quella della Bbc .

Come conferma un giornalista del Guardian Ben Quinn, esiste un’autorità, la Press Complaints Commission , finanziata dagli editori inglesi, alla quale ci si può rivolgere per segnalare lamentele su errori e abusi della stampa. A causa della mancanza di sanzioni nello scandalo delle intercettazioni del News of the World, però, ha ricevuto diverse critiche, tra cui anche quella del primo ministro David Cameron. Solo alla fine del 2011 è stato siglato un Editors’code of practice .

Nei giorni scorsi un gruppo di rappresentanti di associazioni di donne ascoltata della Commissione Leveson, sorta dopo lo scandalo delle intercettazioni con l’obiettivo di monitorare la stampa inglese, ha denunciato l’uso degli stereotipi femminili nei media inglesi. Periodici come il Sun, il Daily Star e il Sunday Sport sono criticati per avere descritto le donne come “un riassunto di parti del corpo erotizzate” mentre dovrebbero “assolutamente condannare stupri e violenze contro le donne e le ragazze”.

GERMANIA. Il ‘German press council’ ha siglato nel 1973 a Bonn con le associazioni della stampa il ‘Codice della Stampa’.

E’ esplicitato all’articolo 12 che nelle notizie di cronaca nera “non è possibile fare riferimento all’appartenenza religiosa, etnica del sospettato se l’informazione non è strettamente essenziale alla comprensione dei fatti per il lettore. Bisogna ricordare che questi riferimenti possono incitare a pregiudizi contro le minoranze”.

 

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