il Ducato » guerra civile siria http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » guerra civile siria http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Banksy a Urbino, #withsyria il progetto della studentessa Claudia Trianni http://ifg.uniurb.it/2014/03/25/ducato-online/banksy-a-urbino-withsyria-il-progetto-della-studentessa-claudia-trianni/60297/ http://ifg.uniurb.it/2014/03/25/ducato-online/banksy-a-urbino-withsyria-il-progetto-della-studentessa-claudia-trianni/60297/#comments Tue, 25 Mar 2014 17:44:30 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=60297 GUARDA IL VIDEO]]> Nella foto, con il cuore, Claudia Trianni

Nella foto, con il cuore, Claudia Trianni

URBINO – Un palloncino a forma di cuore è passato di mano in mano tra le vie di Urbino. Un gruppo di ragazzi ha realizzato un video ispirato al famoso graffito di Banksy contro la guerra in Siria. Come la bambina che vede volar via il suo giocattolo preferito, i passanti hanno posato con il palloncino davanti all’obiettivo di Claudia Trianni.

“Volevamo generare interesse intorno al tema della guerra in Siria – racconta la studentessa di 21 anni – spesso coloro che fermavamo non sapevano di cosa si trattasse. Noi abbiamo raccontato di Banksy, del suo progetto nato per ricordare i tre anni dall’inizio del conflitto. In questo modo abbiamo fatto un pò di ‘informazione'”.

Da piazza della Repubblica a via Raffaello, dalle mura alla Fortezza, Claudia Trianni ha filmato e scattato foto a chiunque, facendosi aiutare da Sabrina Zennaro, Clotilde Bagnaresi e Sara De Benedictis, sia nelle riprese sia nel montaggio. In tutto ci sono voluti quasi dieci giorni di lavoro: “So che il video non è venuto perfetto ma era la prima volta che mi cimentavo in un progetto simile – racconta Claudia – studiando Sociologia, indirizzo ‘Informazione, media e pubblicità’, ho sempre avuto una passione per gli spot con finalità sociali“.

Il video, condiviso su Youtube e Facebook e inserito nel blog Pubblicity, sembra aver riscosso molto successo. “Lo scopo del nostro lavoro era proprio mandare un messaggio. Stimolare l’interesse della gente, far capire che sta succedendo qualcosa di ‘grosso’ poco lontano da qui”.

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Dai cortili alle trincee: il volto femminile delle rivolte arabe http://ifg.uniurb.it/2013/05/29/ducato-online/dai-cortili-alle-trincee-il-volto-femminile-delle-rivolte-arabe/49046/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/29/ducato-online/dai-cortili-alle-trincee-il-volto-femminile-delle-rivolte-arabe/49046/#comments Wed, 29 May 2013 13:04:39 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=49046

Amina Tyler

Nadia al Sakkaf questo mese ha vinto il premio “Oslo Business for Peace Award 2013”. Amina Tyler aspetta in carcere la prossima udienza, mentre la notizia della morte della giornalista Yara Abbas ha fatto il giro del mondo. Nel racconto dei media occidentali il ruolo delle donne nelle primavere arabe viene spesso sottovalutato. Ma partire dai volti di alcune delle protagoniste più note può aiutare a restituire la giusta importanza a questa folla silenziosa, spesso fuori dai flussi tradizionali dell’informazione.

“Le rivolte tunisine, egiziane, libiche e tutto quello che ne è conseguito sono un fenomeno corale, le voci che hanno tentato di raccontarle innumerevoli, ma identificarne alcune è utile per tenere viva l’attenzione ”. A ribadirlo è Leila Ben Salah, giornalista italo tunisina, coautrice di Ferite di parole, presentato all’ultimo Salone del libro di Torino. Insieme alla psicologa  Ivana Trevisani, ha raccolto le testimonianze di donne siriane, libiche, tunisine ed egiziane che hanno vissuto da  protagoniste le rivoluzioni, “restando,come gli veniva chiesto, in fondo ai cortei”, ma non sempre catturando l’attenzione di media e opinione pubblica.

Amina Tyler invece ha scelto di dare il suo contributo attraverso la provocazione. In Tunisia, per sollevare cori d’indignazione e finire in carcere sei mesi basta scrivere “Femen” sul muro di una città sacra. La giovane liceale, appartenente al gruppo femminista, lo ha fatto domenica scorsa a Kairouan, durante un raduno di salafiti. Amina è già nota ai media  per aver postato alcune sue foto a seno nudo su Facebook, ma dopo l’episodio di domenica scorsa si trova costretta ad affrontare un processo per attentato alla pubblica decenza, l’indignazione delle massime autorità tunisine, politiche e religiose.

Il governatore di Kairouan aveva detto che la giovane attivista si era mostrata a seno nudo davanti alla città sacra, ma un video delle stesse Femen lo ha smentito: la polizia è riuscita a impedirglielo. Il ministro dell’Interno vuole processare Amina perché “stava per commettere un gesto immorale”. Anche la famiglia ha faticato nel prendere le difese della giovane attivista. Solo ieri il padre ha dichiarato a RaiNews piena solidarietà alla figlia, mentre ancora qualche giorno fa la madre aveva detto “soffre di problemi psichici”.

Radhia Nasroui

Radhia Nasraoui

A difendere Amina in tribunale sarà la famosa attivista femminista Radhia Nasraoui, da sempre impegnata nei diritti umani. Precisa Ivana Trevisani: “Più che richiamare l’attenzione sulle ultime provocazioni delle Femen si deve ricordare che grazie alle primavere arabe le donne sono emerse come categoria sociale. Per sintetizzare ho usato l’espressione dai cortili alle piazze”.

Nadja Dariz

Nadja Dariz

Piazze, trincee ed ospedali: in questi terribili scenari si sono mosse le libiche del comitato 8 marzo, donne di Misurata, capitanate dalla coraggiosa Nadja Dariz, di trent’anni. Nel documentario di Laura Silvia Battaglia, Al Hurria, dice di aver fondato il comitato “per le donne rimaste senza punti di riferimento, che hanno perso mariti e padri in guerra”. Accanto a lei c’è Hana, vent’anni, sordomuta, rimasta orfana dal 2011.

Nadia Al Sakkaf

Nadia Al Sakkaf

Anche Nadia Al Sakkaf ha perso il padre, assassinato nel 1999. Era uno dei più aspri critici del regime yemenita e per far conoscere a tutti le condizioni del suo paese aveva fondato lo Yemen Times. Dal 2005 Nadia è responsabile della testata. Fra i primi cambiamenti sotto la sua direzione l’assunzione di donne e l’uso consistente delle nuove tecnologie. Durante le primavere arabe lo Yemen Times è stata una delle poche fonti d’informazione dirette per i media occidentali, che hanno acceso i riflettori anche sulle proteste di Sana’a. Due settimane è stata una dei premiati dal comitato Oslo Business for Peace  “per aver contribuito a costruire la pace e la democrazia nello Yemen”.

Sulle differenze esistenti fra i Paesi che nel 2011 hanno visto esplodere le proteste, la Ben Salah precisa: “Una prima distinzione  che si può fare sulle conseguenze delle primavere arabe è che, al contrario di quanto è accaduto in Tunisia e in Egitto, in  molti altri Paesi le proteste non hanno portato a cambiamenti significativi nell’assetto politico”.

Maryamal Khawaja

Il Barhein è uno di questi. Maryamal Khawaja ha 26 anni, è  presidente del Centro per i diritti umani del Golfo ed è una delle poche voci libere del suo paese, “poco interessante” per i media e per l’opinione pubblica, tranne durante il Gran Premio di Formula1. Approfittando della sua posizione di interlocutore con l’Occidente, nel suo ultimo viaggio in Italia ha denunciato con forza la scarsa attenzione nei confronti della sua nazione. Maryamal, grazie a Twitter, ha iniziato a far sentire la sua voce nel 2010, quando l’Arabia Saudita ha mandato i carri armati a reprimere le proteste esplose anche a Manama. Ora ha  90.000 follower  e continua a denunciare la repressione quotidiana del regime che, soltanto dopo le proteste del 2011, ha revocato il decreto sulla  sicurezza in vigore dal 1974. La legge autorizzava il ministro degli Interni a tenere in carcere sino a 3 anni e senza processo i cittadini politicamente sospetti.

Anche Asmaa Mahfouz deve la sua fama alla rete. Sul suo blog campeggia la scritta The girl who helped start the revolution in Egypt. È suo il video con cui il 19 gennaio 2011 ha lanciato la famosa sfida al regime di Murabak e invitato il popolo egiziano alla rivolta.

Clicca qui per vedere il video incorporato.

Pochi giorni dopo queste immagini, il 25 gennaio, in Piazza Tahrir c’erano 25.000 manifestanti. Un video considerato l’inizio della protesta egiziana. La sua famiglia è conservatrice, un fratello ufficiale di polizia e un altro ufficiale dell’esercito, e all’inizio è rimasta a dir poco sconcertata dal suo interesse per la politica. La Mahfouz,  in un’intervista, ha dichiarato: “Mi bloccavano Internet, così andavo a manifestare in strada , mi hanno proibito di andare in strada, così ho usato il telefono”.

Yara Abbas

Yara Abbas

Infine un volto che ha fatto il giro del mondo perché ha pagato con la vita le conseguenze delle primavere arabe. Due giorni fa, mentre raccontava il difficile conflitto siriano dalla prime linee, è stata uccisa Yara Abbas.  Lavorava per la Tv di Stato Al-Ikhbariyah. La giornalista è rimasta coinvolta insieme a un cameraman ed un suo assistente in quello che il governo siriano definisce “un agguato” da parte delle forze di opposizione: il cecchino ha ferito anche alcuni dei suoi colleghi. Da circa un mese la Abbas si trovava nella provincia di Homs, al confine con il Libano e documentava gli scontri anche per conto dell’Associated Press. La Abbas lavorava per la tv ufficiale del regime di Bashar al-Assad, dall’altra parte della barricata rispetto alle donne simbolo delle primavere arabe. Ma non è un buon motivo per non ricordarla.

 

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Susan Dabbous: “La Siria è un Paese ormai fuori controllo” http://ifg.uniurb.it/2013/05/01/ducato-online/susan-dabbous-la-siria-e-un-paese-ormai-fuori-controllo/44877/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/01/ducato-online/susan-dabbous-la-siria-e-un-paese-ormai-fuori-controllo/44877/#comments Wed, 01 May 2013 17:42:13 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=44877

Susan Dabbous

Un conflitto sporco fatto di tutti contro tutti: la Siria di Assad brucia, ma le informazioni che riescono ad oltrepassare la barriera del silenzio sono frammentate. I giornalisti che vogliono raccontare la rivoluzione siriana devono lavorare in clandestinità e rischiano ogni giorno di essere rapiti.

L’ultimo giornalista di cui si sono perse le tracce è l’inviato della Stampa Domenico Quirico: il giornale di Torino non ha sue notizie da due settimane, quando si trovava nella zona di Homs.

Ad aprile erano scomparsi altri giornalisti, tra cui Susan Dabbous, che in questi anni ha seguito gli scontri tra l’esercito ribelle e il regime di Assad: lei è stata la prima a raccogliere le testimonianze apparse sui giornali italiani dei disertori torturati dal regime di Damasco. Il 4 aprile scorso è stata rapita, insieme a tre colleghi (Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe e Andrea Vignali), da un gruppo islamista, per essere poi liberata dopo 8 giorni. Lei e i suoi colleghi erano stati accusati di spionaggio perché probabilmente avevano ripreso qualcosa che i ribelli non volevano si vedesse.

In Siria la diffidenza verso gli stranieri è alta e i giornalisti sono quelli più a rischio. Chi decide di partire per la Siria lo fa sapendo quello che rischia, ma in questo lavoro non vale improvvisare.

Qual è stata la tua preparazione prima di partire?
Quando ero al quotidiano Terra ho reperito informazioni lavorando dal desk: ho preso contatto con la comunità siriana in Italia, ho studiato il territorio e poi sono stata in Turchia per approfondire la situazione siriana da quella parte del confine. Ero una neofita in questo tipo di giornalismo e prima di entrare fisicamente in Siria mi sono creata una rete di contatti che ho avuto tramite colleghi. In casi come questi bisogna essere solidali con gli altri giornalisti, anche perché farsi concorrenza non porta da nessuna parte. La lunghezza del conflitto non permette di essere in competizione. Andare allo sbaraglio non conviene, si rischia la pelle; ti può andare bene, come ti può andare molto male. C’è chi l’ha fatto: ci sono alcuni freelance americani che sono scomparsi da 7 mesi e non si sa dove siano finiti. È fondamentale chiamare dei professionisti già presenti sul territorio per avere una rete: in questo modo si riesce a fare un lavoro straordinario.

Come hai fatto concretamente ad entrare in Siria?
La Siria ha proposto dei problemi abbastanza inediti: il regime non rilascia visti, perciò se vuoi entrare nel Paese lo devi fare illegalmente, nelle totale clandestinità. Per farlo ti devi affidare a qualcuno che può farti passare il confine. Una volta dentro devi affidarti ai tuoi contatti. Questi ti portano dalle persone da intervistare o dove c’è qualcosa da raccontare: campi profughi spontanei, città senza elettricità, villaggi bombardati e feriti senza assistenza. Tutte storie che ho raccontato in questi anni. All’inizio chi voleva entrare in Siria doveva affidarsi a dei contatti presenti sul territorio in grado di garantirti una protezione, ma a due anni di distanza quelle stesse persone non possono più darti protezione perché la situazione è totalmente fuori controllo.

In che senso “senza controllo”? Che tipo di conflitto è quello siriano?
Il conflitto siriano è una guerra civile, senza dubbio. Ma nell’ultimo periodo le cose stanno cambiando; si è aperta una nuova fase in cui non ci sono più solo due schieramenti ben distinti: l’esercito ribelle non è più compatto e l’opposizione siriana si è frammentata in molti gruppi che perseguono diversi scopi e sono in guerra fra loro. Non esiste più un blocco unico fatto di ‘tutti contro Assad’ come invece era all’inizio.

Chi sta prendendo le redini dell’opposizione? I gruppi laici o quelli islamici?
I gruppi islamici sono armati meglio e stanno avendo un ruolo da protagonisti nel conflitto militare. L’anima laica della Siria è in minoranza perché oppressa dalla propaganda islamista, ma è comunque presente sul piano politico. Ci sono molte figure interessanti all’interno dei gruppi laici che avranno sicuramente un peso nella leadership futura del Paese. Molti di questi esponenti sono in esilio e quando rientreranno si aprirà sicuramente una nuova partita. Ma per il momento questa prospettiva è ancora lontana, visto che la situazione militare è bloccata.

Avevi delle guardie del corpo in Siria?
All’inizio non avevo una scorta militare, poi quando mi sono unita ad una troupe televisiva è diventato necessario avere delle guardie armate. Eravamo molti e davamo nell’occhio, per questo avevamo due uomini delle sicurezza e una guida. Ma è servito a poco, dato che alla fine ci hanno preso…

Che ruolo hanno i paesi confinanti in questo conflitto?
In Iraq, il governo ufficiale appoggia il regime di Assad, ma Al-Qaeda sta con i ribelli islamici. La Turchia è la nazione confinante più potente e cerca di sfruttare questa situazione, anche politicamente. Il Libano, invece, è uno Stato troppo debole per avere una sua linea autonoma ed è sotto l’influenza del governo di Damasco. Però al suo interno, la comunità sunnita appoggia l’opposizione.

Ribelli siriani tra le strade di Aleppo

Quale potrebbe essere il futuro politico della Siria? Il nuovo governo sarà composto da islamici moderati sul modello egiziano di Morsi?
È veramente difficile fare un pronostico in questo momento, la composizione etnico sociale della Siria è molto diversa da quella dell’Egitto: lì c’è una quasi totalità di musulmani sunniti, circa il 90%, mentre in Siria questa componente è al 70%. La restante parte è fatta di altre confessioni religiose. Oltre a una consistente comunità cristiana c’è anche la minoranza musulmana alawita, di cui fa parte la famiglia di Assad, al potere da 40 anni. Prima questa comunità era la più svantaggiata e marginalizzata, mentre adesso è diventata classe media. Il colpo di Stato le ha fatto fare un salto di qualità e gli alawiti fanno di tutto per mantenere i privilegi acquisiti.

Tornando alla tua specifica esperienza, per una donna giornalista è più difficile lavorare in zone di guerra e raccontare un conflitto in prima persona?
Non credo che sia più difficile per una donna lavorare in una zona di conflitto. E non ci sono problemi per una giornalista lavorare in un Paese islamico: in Marocco, in Egitto o altri lo fai tranquillamente. Il problema è quando ci sono gruppi fondamentalisti islamici: loro vedono la donna come qualcosa di ‘impuro’, per semplificare. Nel mio caso, quando vieni rapita da uno di questi gruppi hai l’aggravante di essere una donna. Da parte loro c’è il rispetto del corpo, ma non quello dell’individuo”.

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