il Ducato » il post http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » il post http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Moderare i commenti: un duro lavoro, ma qualche giornalista deve pur farlo http://ifg.uniurb.it/2015/04/18/ducato-online/moderare-i-commenti-un-duro-lavoro-ma-qualche-giornalista-deve-pur-farlo/71040/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/18/ducato-online/moderare-i-commenti-un-duro-lavoro-ma-qualche-giornalista-deve-pur-farlo/71040/#comments Sat, 18 Apr 2015 15:00:02 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=71040 UGC e news online: il buono, il brutto e il cattivissimo

Ugc e news online: il buono, il brutto e il cattivissimo

PERUGIA – I commenti dei lettori agli articoli pubblicati online sono una preziosa risorsa o una perdita di tempo? È la domanda che si stanno ponendo gli stessi giornalisti digitali. I lettori parlano, criticano (a volte insultano), integrano i contenuti, aggiungono valore al testo.

Per le redazioni si tratta di lavoro in più: gestire questo flusso di informazioni e opinioni trasforma il giornalista in un vero e proprio moderatore. Alcune testate hanno assunto nuovo personale proprio per “regolare il traffico” ma per farlo bisogna necessariamente investire. Ecco perché spesso gli editori preferiscono eliminare i commenti, ma neppure questa può essere la soluzione in un’informazione che è sempre più interattiva e ha un pubblico che vuole partecipare e dialogare con chi scrive, con la sua testata di riferimento.

La britannica Bbc e gli americani Washington Post e New York Times  sono alla ricerca di un compromesso. Commenti aperti, ma con il filtro. Bbc usa un algoritmo che filtra automaticamente i commenti e solo in determinati casi richiede l’intervento di un moderatore umano. I due giornali statunitensi hanno invece avviato un progetto in collaborazione con Mozilla chiamato Coral Project. L’obbiettivo è quello di creare un software open source creato dagli editori per gli editori per ottimizzare le interazioni tra le redazioni e il proprio pubblico. L’idea che sta alla base del progetto è che i commenti possono essere classificati in base alla qualità del loro contenuto. “Noi del Washington Post – dice Greg Barber, responsabile del progetto – diamo troppo spazio a chi ci offende mentre dovremmo dedicarne di più a chi scrive cose intelligenti. Gli utenti più fedeli sono proprio questi, che vanno incentivati a dire la loro opinione. Per noi è molto importante”.

Il punto è proprio il rapporto con i lettori. Per Luca Sofri, direttore de Il Post bisogna scegliere tra la qualità del lavoro giornalistico e il tempo da dedicare a chi commenta gli articoli. Secondo Sofri dedicare troppa attenzione a chi commenta non vale l’investimento in termini di tempo e di risorse che una redazione deve impiegare. “Sul nostro sito la maggior parte dei commenti rispecchia la qualità della nostra testata, questo è il motivo per cui li moderiamo quasi sempre. Tutto ciò, in un contesto in cui i contributi di qualità sono solo una minima parte rispetto a tutti i commenti inutili e offensivi che compaiono sotto tanti articoli in giro per il web”.

Tutto è commentabile ma non tutto è pubblicabile secondo Alessio Balbi, responsabile dell’area social di Repubblica.it. “I contributi dei nostri lettori vengono interamente moderati, controlliamo che non ci siano contenuti offensivi prima di dare il via libero”.

Molti editori hanno pensato di risolvere il problema semplicemente impedendo ai lettori di commentare sul proprio sito, lasciando questa possibilità ai social network.

È il caso di testate come Bloomberg Business e Reuters, che hanno demandato il ruolo di “forum” ai social network che, per definizione, si prestano alla conversazione e al commento. Ma la tendenza è ancora poco significativa. I giornalisti, infatti, tendono a non moderare i commenti alla pagina Facebook o su Twitter del proprio giornale. Gli editori dimenticano che nella percezione dei lettori scrivere un commento sul sito o sulla pagina social spesso sono la stessa cosa.

I commenti sono solo una tipologia di User generated content (Ugc), tutto il materiale prodotto dagli utenti e non dai professionisti dell’informazione. Contenuti che spesso sono le stesse testate a chiedere ai propri lettori (soprattutto in caso di eventi di cronaca o catastrofi naturali) e che integrano video, audio, immagini, informazioni. L’altro canale da cui attingere sono i social network. I dati sono impressionanti: in un monitoraggio sulle homepage dei principali giornali del mondo realizzato dal centro di ricerca EyeWitness Media Hub, durato tre settimane nell’estate del 2014, si è scoperto che su 27.802 articoli 4.974 contengono Ugc.

Con questo tipo di contenuti, però, più che moderare sono le testate a doversi auto-moderare. Da una così immensa mole di informazioni non si può infatti attingere in modo indiscriminato né senza autorizzazioni. Secondo l’avvocato Matteo Jori, esperto di nuove tecnologie e nuovi media, i problemi emersi sono di due ordini: il diritto d’autore e la privacy delle persone. “Spesso le testate si appropriano di foto e video postati sui social senza preoccuparsi di specificare chi li ha prodotti, questo viola i diritti dell’autore che nella maggior parte dei casi, 84%, chiede solo di essere indicato come fonte, senza pretendere compensi”, spiega Jori. Sono tre i casi in cui in Italia è possibile usare liberamente contenuti trovati online:

  • devono contenere informazioni di interesse pubblico;
  • essere di stringente attualità;
  • rientrare nel diritto di cronaca

Quello della privacy è un tema ancora più urgente: succede spesso che foto di privati cittadini finiscano sui principali canali di informazione perché magari ritraggono sullo sfondo personaggi famosi.

E’ quello che è successo a Maddy Campbell, una ragazza australiana il cui profilo Instagram è stato pubblicato su Nine News, un importante canale televisivo australiano, sul Sidney Morning Herald e sul Daily Mail solo perché in una sua foto compariva Redfoo, componente del duo musicale Lmfao.

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La Rete se ne frega: la cultura secondo il direttore de “Il Post” http://ifg.uniurb.it/2013/05/10/ducato-online/la-rete-se-ne-frega-la-cultura-secondo-il-direttore-de-il-post/46462/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/10/ducato-online/la-rete-se-ne-frega-la-cultura-secondo-il-direttore-de-il-post/46462/#comments Fri, 10 May 2013 16:00:17 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=46462 Il Post, spiega perché non ha senso parlare di pagine culturali per i contenuti online: "In internet gli articoli circolano per il loro valore intrinseco, non perché stanno rinchiusi in una categoria archivistica" LEGGI E SFOGLIA Il Ducato speciale L'INTERVISTA A tu per tu con "Dio": divo su Twitter, scrittore e cameriere nella vita reale]]> Quale sia la homepage de Il Post, come sia strutturata, in che sezioni sia divisa forse ai più può sfuggire, perché in genere chi fruisce dei contenuti di questa testata giornalistica nativa digitale, si ritrova a vederne scorrere gli articoli nella propria pagina Facebook o Twitter, magari subito dopo aver postato uno stato sul cielo plumbeo in piena primavera o dopo aver controllato le foto dell’amica appena tornata dalla vacanza.

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Il Post, giornale online aggregatore di notizie, nato appena qualche anno fa e diretto da Luca Sofri, è solo un grande contenitore dove si incasellano notizie che spiccano per il loro valore intrinseco a dispetto di categorie e costrizioni derivanti da una foliazione progressiva. “Noi non ci teniamo molto alla definizione di categorie – spiega il direttore della testata – investiamo molto di più sui singoli contenuti e sul loro valore di per sé indipendentemente da dove uno li voglia categorizzare. Su internet i singoli contenuti hanno capacità di diffusione e di proposizione molto autonoma: la maggior parte del nostro traffico viene ormai dai social network e dai motori di ricerca. Le persone raggiungono quei singoli articoli per il valore che hanno e per i temi di cui parlano; non lo raggiungono perché scelgono una sezione precisa del giornale nella quale cercare determinati argomenti”.

In un contesto simile di fluttuazione dei contenuti, come definire il concetto di giornalismo culturale? Sarà vera la storia da molti dibattuta che la Rete è la tomba del giornalismo culturale? Secondo Sofri, il concetto di “cultura” come categoria e recinto nel quale sistemare una certa tipologia di articoli è ormai superato in Internet. “La cosa che chiamiamo tradizionalmente pagina culturale – spiega il direttore de Il Post – è banalmente un raccoglitore di una serie di articoli ai quali associamo quella categoria, ma dietro non ci sono grandi riflessioni filosofiche o linguistiche. E’ un’etichetta archivistica non una linea editoriale, usata per classificare e ordinare i nostri contenuti da una parte e dall’altra ma non è particolarmente rilevante”.

La scelta degli articoli da convogliare nella pagina che riporta l’etichetta cultura si basa solo sui valori di qualità espositiva e contenutistica oltre che sull’interesse pubblico. I criteri sono quelli della notiziabilità giornalistica: nella pagina culturale del giornale online si possono trovare recensioni di film o libri, articoli sulla questione del diritto di autore di Harper Lee, amica di Truman Capote e autrice del noto Il buio oltre la siepe, ma anche anniversari di nascita di personaggi celebri. “Ci interessa un pezzo piuttosto che un altro, perché pensiamo possa meglio aiutare a comprendere il mondo e il cambiamento – continua Sofri – ma di fatto poco ci importa che stia nella pagina Cultura o nella pagina Mondo. Le categorizzazioni funzionano poco per l’online perché se domani cancellassimo le etichette e disassociassimo tutti i nostri pezzi, cambierebbe pochissimo. I pezzi de Il Post vivono da sé, per il loro valore e per quello che raccontano”.

Il linguaggio del web, anche in termini culturali, si presenta quindi più accessibile, meno costretto in recinti ideologici, più alla portata di tutti. E se da una parte le macrostrutture restano come grandi raccoglitori che consentono di mettere ordine nel flusso di informazioni, dall’altra anche la sintassi del giornalismo cambia e si sceglie un tipo di comunicazione che procede per immagini. Una delle prime cose che colpisce nello stile del giornale di Sofri è la grande varietà e il continuo aggiornamento di un racconto fatto da fotografie. “Abbiamo intrapreso un rapporto tradizionale con le agenzie fotografiche alle quali chiedevamo immagini per illustrare i nostri pezzi – spiega il direttore – ma la frequenza di questo rapporto ci ha fatto scoprire e trovare immagini di grandissimo valore e di grandissimo interesse di per sé. Abbiamo deciso di sfruttarle di più adattandole a dei modelli americani che qui non segue praticamente nessuno, ovvero di riproduzione e visualizzazione delle foto in formati molto grandi, valorizzati già dai computer ma molto di più dai tablet. Le sfruttiamo, quindi, per quello che ci sembra essere il loro valore e la loro qualità in termini fotografici e contenutistici ma anche in termine banalmente estetico”.

Un discorso che rimane in superficie e colpisce l’occhio senza scavare nell’anima e nella mente al contrario di quanto si ripropongono le pagine culturali dei giornali cartacei e i fortunati inserti del nostro Paese, tra i quali La Lettura del Corriere e la Domenica de Il Sole 24 Ore? “Noi – spiega Luca Sofri – tendiamo a privilegiare il racconto delle cose, delle informazioni, dei dati, vogliamo fornire strumenti per capire i fatti che succedono piuttosto che alimentare la discussione”. Un tipo di giornalismo che non potrebbe essere tacciato di autoreferenzialità, nel quale si innescano dibattiti vuoti secondo quelle che Dorfles nell’ambito del Festival del giornalismo culturale ha annoverato tra le grandi falle del nostro giornalismo culturale. Ma per il dibattito c’è spazio anche nelle testate online, tra i commenti o nelle pagine dei blogger che affollano le colonne laterali della homepage. “I blog esistono perché ci sia uno spazio di opinioni ed elaborazioni . Io non lo chiamerei – spiega Sofri – dibattito critico ma è comunque qualcosa che ci interessa ugualmente perché stimolante. Avviene in maniera molto autonoma per i singoli blogger, non c’è una progettazione complessiva”.

Se da una parte il giornalismo culturale su carta stampata, pur in una fase che è stata definita una primavera soprattutto per gli inserti e i supplementi, guarda alla Rete per sopravvivere e alimentare dibattito, riflessioni e raggiungere un numero consistente di lettori, dall’altra la Rete se ne frega. Nella Rete tutto sopravvive perché cammina sui propri piedi, scevro da categorizzazioni, mosso solo dal valore inestimabile di cui è portatore. E allora arrivederci cultura. Qualunque cosa tu sia.

 

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