il Ducato » web 2.0 http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » web 2.0 http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Tutti pazzi per le #webstar http://ifg.uniurb.it/2012/04/29/ducato-online/tutti-pazzi-per-le-webstar/31531/ http://ifg.uniurb.it/2012/04/29/ducato-online/tutti-pazzi-per-le-webstar/31531/#comments Sun, 29 Apr 2012 22:59:44 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=31531 l'hashtag #webstar WEBTALK #reportersottozero / #viralmarketing #sfigatimonotoniemammoni / #parolepietre #controinformazione / #socialtv / #inviati2.0 #mobilitatevi / #occupyscampia / #precarisulweb]]> URBINO – Non sono più i tempi della “Corrida di Corrado”, oggi per raggiungere la celebrità basta molto meno: una webcam e una buona idea. Tanti sono gli esempi, da Clio, una ragazza che attraverso corsi online di trucco fai-da-te è diventata una star specialista di make up, alla rock band “i Cani” che hanno lanciato in rete i propri singoli, senza bisogno di un produttore per diventare famosi. Quali sono le caratteristiche comuni a tutti per diventare una famosi sul web? Rispondete su twitter digitando #webstar

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a cura di Nadia Ferrigo e Maddalena Oculi

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L’immagine della donna nei media, tra stereotipi e silenzi http://ifg.uniurb.it/2012/04/26/ducato-online/limmagine-della-donna-nei-media-tra-stereotipi-e-silenzi/30615/ http://ifg.uniurb.it/2012/04/26/ducato-online/limmagine-della-donna-nei-media-tra-stereotipi-e-silenzi/30615/#comments Thu, 26 Apr 2012 14:42:50 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=30615 URBINO – Antonella, Cristina, ma anche giovane cinese e ucraina,  senza nome,  senza ricordo,  a volte senza un colpevole. Sono questi i nomi e i volti delle donne che sono state uccise da sconosciuti o vicini di casa, da mariti e amanti.

Follia omicida, delitto passionale, drammatico gesto, sono i termini che la maggior parte della stampa regala ai reati che le riguardano, parole che spesso la rete denuncia come stereotipi e luoghi comuni.

Sono già 46 le donne uccise nel 2012  nel nostro paese: una ogni due giorni. “Con dati statistici che vanno dal 70% all’87%, la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il Paese”, ha detto al termine della sua visita in Italia la relatrice speciale delle Nazioni Unite Rashida Manjoo.

C’è chi dice basta. Ai lettori più attenti non sfuggono i piccoli inciampi della stampa sia essa cartacea che online. Durante l’iniziativa su Twitter #parolecomepietre si è riflettuto più volte sull’abuso del termine delitto passionale. E sempre su questa linea è la rubrica di Michele Serra del 6 marzo (L’amaca su La Repubblica): “Fa male sentire che qualche tigì chiama ancora ‘delitto passionale’ mattanze come quelle di Brescia”.

Riguardo al modo di diffondere in rete notizie del genere, Lettera 43 ha realizzato una mappa che evidenzia i casi più eclatanti di violenza sulle donne. La redazione di Giornalesentire ha inviato invece una lettera di protesta all’Ansa, contro la morbosità della parola video allegata alla notizia di uno stupro di una donna mentre aspettava un treno alla Stazione Termini: “Quel filmata con i telefonini accanto a video aiuta solo ad aumentare il picco di clic”.

Sul blog di GiULiA (GIornaliste Unite LIbere Autonome) si criticano le modalità con cui vengono stesi gli articoli: “Non si agisce per raptus o peggio per amore: il movente è criminale, non passionale. Ci chiediamo se la reiterazione, nel linguaggio giornalistico, di queste facili e un po’ trite categorie, non finisca per abbassare la soglia di attenzione dell’opinione pubblica verso un fenomeno sempre più diffuso e che richiede una maggiore consapevolezza e una seria presa in considerazione da parte delle istituzioni”.

Il grande buco nero. Il problema che ricorre in Italia è la mancanza di un costante e preciso monitoraggio tra media e femminicidio. Sul nostro paese, esistono le ricerche Eures - Ansa ma l’ultima risale al 2009.

Dati forniti dall'associazione Casa delle Donne

Un contributo lo fa l’associazione bolognese Casa delle donne per non subire violenza che ogni anno effettua una raccolta dati sulle uccisioni di donne registrate dalla stampa italiana locale e nazionale. Quello che emerge dalla loro ultima ricerca è allarmante.

In Italia ogni anno oltre 100 donne vengono uccise per mano di un uomo: 84 nel 2005, 101 nel 2006, 107 nel 2007, 113 nel 2008, 119 nel 2009, 127 nel 2010. “È un tasto dolente. Si parla di donne solo nei casi di salute, bellezza e nella cronaca nera, l’analisi condotta da Casa delle donne sui quotidiani locali romagnoli fa emergere proprio quest’aspetto” commenta Giovanna Cosenza, professore presso il Dipartimento di Discipline della Comunicazione dell’Università di Bologna.

“Anche i titoli e le fotografie non aiutano, come l’immagine femminile – aggiunge Cosenza – in un angolo o che si copre in difesa. E’ come un cane che si morde la coda: più si rappresenta così e più si dà una immagine sbagliata e stereotipata”.

Come evidenzia Patrizia Romito nel libro Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori nella stampa il femminicidio viene come mistificato. Il movente è portato alla luce da termini come conflitti coniugali, raptus, talvolta omettendo che ci siano episodi precedenti di violenza domestica o situazioni disagio familiare. Tanto caos, poca chiarezza, senza far emergere il dato della problema sociale.

Rapporto ombra. La Convenzione Cedaw (Committee on the Elimination of Discrimination against Women), adottata dall’Onu nel 1979 e ratificata dall’Italia nel 1985, è il trattato internazionale più completo sui diritti delle donne. Il rapporto annuale 2011 denuncia “il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica” e ha chiesto all’Italia di “predisporre campagne di sensibilizzazione attraverso i media e delle campagne di educazione pubblica”.

I vicini europei. In Francia dal 2004 c’è una  Charte de l’Egalité des femmes e des des hommes. La Carta si occupa di monitoraggio dell’immagine della donna in pubblicità, previsione di clausole sull’immagine femminile nei contratti di servizio dei canali televisivi pubblici, monitoraggio sui cartelloni pubblicitari e valorizzazione dei percorsi di donne eccezionali nei media.

In Spagna invece esistono leggi e piani regionali su donne e media, mentre nel Regno Unito idee innovative sulla rimozione degli stereotipi di genere nei media è attiva la promozione della rappresentanza femminile nei vari livelli dell’organizzazione della Bbc.

In Italia è presente una tavola rotonda “Donne e Media” organizzata da Usigrai. “Si parla da oltre un anno di un comitato Rai che monitori il fenomeno, ma ancora nulla di concreto” afferma Cosenza. Una soluzione possibile potrebbe essere l’autodisciplina nelle redazioni: “Bisognerebbe aiutare chi lavora nei media – conclude Cosenza –  per evitare che si cada nei classici stereotipi, basterebbe un po’ di autoregolamentazione”.

 

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Basta con i luoghi comuni, le parole hanno un peso (come le pietre) http://ifg.uniurb.it/2012/03/29/ducato-online/basta-con-i-luoghi-comuni-le-parole-hanno-un-peso-come-le-pietre/30309/ http://ifg.uniurb.it/2012/03/29/ducato-online/basta-con-i-luoghi-comuni-le-parole-hanno-un-peso-come-le-pietre/30309/#comments Thu, 29 Mar 2012 13:56:15 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=30309 WEBTALK: #reportersottozero #sfigatimonotoniemammoni / #socialtv ]]> URBINO – ‘Omicidi passionali’, ‘ambienti omosessuali’ e ‘tragedie annunciate': sono solo alcuni degli stereotipi del giornalismo. Su Twitter un gruppo di blogger e scrittrici italiane ha lanciato l’hashtag #parolecomepietre, una campagna anti-luoghi comuni, per sensibilizzare i giornalisti sul peso effettivo delle parole. Ma il dibattito è internazionale: in Gran Bretagna un’associazione di donne ha denunciato l’uso inappropriato del corpo femminile nei periodici inglesi, mentre in Francia il direttore di Rue89 ha inventato un algoritmo che ‘pesca’ gli stereotipi da Google.

E per voi quali sono le peggiori #parolecomepietre? Rispondeteci su Twitter

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A cura di Nadia Ferrigo e Maddalena Oculi

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L’addetto stampa dell’ambasciata Usa: “I giornali italiani poco obiettivi” http://ifg.uniurb.it/2012/03/14/ducato-online/laddetto-stampa-dellambasciata-usa-i-giornali-italiani-poco-obiettivi/28552/ http://ifg.uniurb.it/2012/03/14/ducato-online/laddetto-stampa-dellambasciata-usa-i-giornali-italiani-poco-obiettivi/28552/#comments Wed, 14 Mar 2012 20:46:44 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=28552 URBINO – Nonostante i social network abbiano rivoluzionato la vita nelle ambasciate, i media tradizionali sono rimasti al centro della loro attività. “La prima cosa che faccio quando arrivo in ufficio -rivela Stephen Anderson, 42 anni, addetto stampa dell’ambasciata americana a Roma dal 2005, ospite all’Ifg di Urbino per un incontro con gli allievi – è fare la rassegna stampa per l’ambasciatore”. Il vaglio dei giornali gli ha riservato, soprattutto agli inizi del suo lavoro qui in Italia, alcune sorprese. L’aspetto più complesso per un neoarrivato è “capire che certi giornali hanno una linea editoriale netta, mentre altri un’altra: occorre tentare di individuare qual è il motivo che sta dietro la posizione di quella testata e leggere ogni volta tre o quattro giornali per mettere insieme un collage che permetta di capire bene che cos’è successo”.

Anderson individua una differenza essenziale tra stampa americana e stampa italiana. Una sottigliezza stilistica e culturale: “Mentre in America i giornalisti inseriscono tutti i dettagli della notizia nelle prime tre righe, e in molti casi non occorre leggere altro, i servizi dei giornalisti italiani iniziano girando attorno al problema, magari con belle parole. Ma costringono il lettore a dare una scorsa a tutto il documento”.

Il mezzo di comunicazione che raggiunge il numero di persone maggiori e quindi più interessante ai fini della comunicazione per l’ambasciata, resta la televisione. Ma “la tecnologia cambia e noi dobbiamo cambiare con essa”. Internet, Twitter, Facebook, i blog, i siti dei giornali, sono strumenti essenziali anche per capire il popolo dove l’ambasciata risiede, oltre che per fare comunicazione. Ecco allora che nasce il blog dell’ambasciata americana su La Stampa.itIl Taccuino, dove l’ambasciatore racconta a modo suo le elezioni americane.

Ecco che le ambasciate di tutto il mondo sbarcano su Facebook: dalla più social, quella di Jacarta, indonesia, che conta 474.432 fan, a quella nel nostro paese, l’U.S. Embassy to Italy, con 6.000 like. Ecco che episodi come la morte di Lucio Dalla, la tragedia della Costa Concordia,  l’arrivo di Lady Gaga in Italia per il Gay Pride diventano uno strumento digitale per farsi conoscere meglio e attrarre consensi social.

“Il segretario di Stato Hillary Clinton in un recente discorso – ha ricordato Anderson – raccontava  come 150 anni fa il telegrafo permetteva agli ambasciatori di fare comunicazioni ogni giorno e non più ogni 4 settimane come accadeva in precedenza”. Oggi Twitter sembra lo strumento prediletto. “E’ stato molto importante per la primavera araba e per noi è uno strumento fondamentale”. Con la consapevolezza che i tempi corrono sempre più veloci e lo stesso social network dei cinguettii potrebbe essere presto superato, ad esempio da Pinterest, il neonato social media che aggrega foto e informazioni in base agli interessi personali dell’utente.

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Twitter sfida gli accademici: così cambia l’informazione culturale http://ifg.uniurb.it/2012/03/12/ducato-online/twitter-sfida-gli-accademici-cosi-cambia-linformazione-culturale/27810/ http://ifg.uniurb.it/2012/03/12/ducato-online/twitter-sfida-gli-accademici-cosi-cambia-linformazione-culturale/27810/#comments Mon, 12 Mar 2012 02:16:40 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=27810 URBINO – “Un uomo che legge ne vale due”. Così parlava l’editore Valentino Bompiani, lanciando una provocazione e al tempo stesso una sfida. Quella dell’interesse per la cultura, che è prima di tutto vita ed esperienza di crescita. Dal suo tempo le cose sono cambiate parecchio.

QUALI SPAZI PER LA CULTURA?
La nota terza pagina è ormai un vecchio, caro ricordo delle pagine dei quotidiani e sono poche le testate che dedicano ancora un adeguato spazio, su carta, all’informazione culturale. E quando questo c’è, è più facile che a esprimersi siano professori universitari, accademici ed esperti del settore. La carta è uno spazio chiuso, spesso per pochi, costruito in modo definito, non plasmabile. Così, in tanti hanno deciso di intraprendere nuove strade.

VERSO NUOVI LINGUAGGI
Il progetto inaugurato da poco dal Corriere della Sera è pilota in questo senso. Lo portano avanti Serena Danna, redattrice della sezione Cultura, insieme ad Alessia Rastelli. Si chiama ‘Club la Lettura’ e ha già fatto la sua apparizione su carta. E’ un inserto domenicale del Corriere e si occupa di cultura e nuovi linguaggi digitali. Da qualche tempo a questa parte, la redazione ha deciso di portare ‘La Lettura’ anche sul web.

“Quello che volevamo costruire era un ‘luogo’ ideale dove ci fosse compresenza degli attori della comunicazione culturale, ossia di lettori e produttori dell’informazione insieme”, spiega la Danna,  “e ci stiamo rendendo conto che la gente vuole questi spazi. C’è un gran bisogno di cultura e di luoghi di confronto e approfondimento”.

La difficoltà è conciliare le modalità di scrittura per il web con le necessità dell’informazione culturale, che spesso è indagine e approfondimento dei fenomeni e che non ammette la lettura rapida della notizia. “La sfida è saper trovare i linguaggi adeguati: si andrà sempre di più incontro a una ibridazione delle forme. Approfondire vorrà dire anche saper aggiungere i link giusti al pezzo, i rimandi a video o audio di pertinenza, fornire insomma al lettore gli spunti per un ampliamento degli orizzonti. Non per forza scrivere articoli di grande lunghezza”.

Anche Jan Reister, responsabile del progetto web di Nazione Indiana, una delle prime testate culturali online comparse a partire dal 2003 e a cui ha collaborato anche Roberto Saviano, è d’accordo: “Un articolo culturale in rete deve seguire certe regole di base: la segmentazione del testo, la costruzione di agganci visivi come i titoli di paragrafo, o contemplare la presenza di immagini che facilitino l’ancorarsi al pezzo. E oggi credo che spesso la carta stampata tenti di accostarsi a queste modalità, che sono proprie dell’online. Molti articoli che vi si trovano vengono proprio dal web”.

Serena Danna

L’APERTURA VERSO IL BASSO
I visitatori delle riviste culturali online, intanto, crescono e si mostrano interessati a sapere. E a dire la loro. “Ci apriamo molto al commento dei lettori – spiega ancora Reister, che è anche responsabile web di un’altra rivista culturale, Alfabeta 2 – e ne escono conversazioni molto interessanti. Possono anche inviarci dei pezzi e in passato è accaduto che qualcuno entrasse a far parte della redazione, per la qualità dei contenuti espressi”.

Anche il Corriere rispetta questa tendenza. “Su ‘La Lettura’ – dice Serena Danna – ci apriamo alle recensioni dei lettori su libri ed eventi culturali. E’ interessante vedere quanta voglia di partecipazione ci sia, a dispetto di quanto si possa pensare”.

E a confermare le sue parole interviene anche Roberto Marone, responsabile redazionale di Doppiozero, rivista culturale online nata da un’idea di Marco Belpoliti, scrittore e critico culturale de La Stampa e L’Espresso. L’apertura all’interazione con i lettori rimane una costante anche nel loro caso. “Notiamo che la gente si è stancata del giornalismo iperinformativo che non guarda oltre una certa soglia – dice – e noi cerchiamo di offrire altro. Abbiamo anche promosso iniziative di espressione rivolte al lettore in collaborazione con la stessa Stampa”.

Doppiozero è un’altra delle sfide lanciate in rete per diffondere l’informazione culturale. Una sfida riuscita, e ben organizzata.“Il nome viene da uno dei libri di Marco, e i due zeri sono quelli del nuovo millennio – dice Marone – E’ lui che ha messo in piedi tutta la squadra, e oggi sono sei i soci fondatori. Ci sono collaboratori esterni e un editor che segue i testi. Poi abbiamo i curatori delle varie sezioni. Facciamo approfondimento, non lanciamo semplici notizie. E’ quello che cerca l’utente”.

TWITTER SCARDINA LE GERARCHIE
Ed è un utente che desidera trovare certi contenuti in rete, che altrove non trova. E che stimola i professionisti dell’informazione a lavorare in una certa direzione. Come? Usando i social network. Twitter, in particolar modo, è ormai diventato piattaforma di scambio continuo fra giornalisti e lettori. E anche editori.

Se finora il percorso della comunicazione è sempre stato univoco (dall’editore al giornalista, fino al lettore), gli strumenti oggi a disposizione degli informatori culturali consentono di sondare possibilità diverse. “Noi siamo su Twitter da poco più di una settimana – spiega la Danna – e ci rendiamo conto che le potenzialità dello strumento sono immense: i lettori ci danno continui spunti di approfondimento e riflessione, come sulla carta non può avvenire perché l’informazione è precostituita, e spesso aggiorniamo la piattaforma a seconda di quelle che vediamo essere le tendenze della rete”.

Jan Reister

E c’è un altro aspetto di grande rilievo: “Twitter ci offre una opportunità mai considerata prima, quella del rapporto diretto e contemporaneo tra l’editore, il lettore e il giornalista”. Ossia un cambio epocale di prospettiva: se prima l’editore sceglieva da sé cosa pubblicare e l’informatore lo comunicava al pubblico per far sì che questo lo recepisse, oggi il rapporto è stravolto: l’editore è in continuo confronto con il lettore, in tempo reale. E il giornalista assume il ruolo di ponte tra i due mondi, prima distanti.

“Anche noi stiamo cercando di capire dove ci porterà la rivoluzione in corso -continua la Danna – e intanto portiamo avanti iniziative come quella del #Twitter Guest, l’ospite della settimana, un esponente del mondo della cultura che consiglierà ai follower un libro da leggere. E a breve lanceremo anche nuove iniziative”.

PIÙ RETE, PIÙ CULTURA
Twitter è solo uno dei tanti strumenti a disposizione dei professionisti per diffondere l’informazione culturale, e, come spiegano alcuni, porta molti visitatori al sito. “Il 50% ci giunge da lì e il restante 50% dalla ricerca su Google”, spiega Marone.

La caratteristica del tempo odierno, al di là della natura di questo e altri strumenti, è proprio la possibilità più ampia d’accesso all’ informazione, fattore che favorisce l’incremento dei visitatori ai siti culturali. Più alla rete c’è accesso, più si usano i suoi strumenti, più si entra nel circolo dell’informazione e lo si alimenta. “Ecco perché a mio avviso la cultura e il dibattito intorno a essa non moriranno, anzi cresceranno”, dice Reister.

Lettori, dunque, come nuovi attori della comunicazione culturale e principali stimolatori, protagonisti di un processo destinato non a spegnersi, anzi, a crescere.

ERODERE L’AUTORITÀ
E gli attori più tradizionali della comunicazione culturale, specie di quella cartacea, come gli accademici o i critici? Proprio loro potrebbero risentirne sempre di più, con il tempo. Perché proprio il concetto di autorità è destinato ad essere scardinato sul web.

“La rete mette in discussione la posizione di autorità. Quella dell’accademico è erosa”, dice Reister. “Non esiste nelle pagine culturali in rete, che sono oggetti privi di consistenza, di materia. Online è invertito il concetto di autorità: questa sta nelle idee che si propongono, non più nella persona dell’accademico che si esprime”.

Autorità scardinata, inversione dei ruoli, gerarchie abituali che vengono sconfessate, protagonisti dell’informazione che si moltiplicano e che divengono centrali nel processo di scambio culturale. Forse, quindi, è davvero iniziato il tempo dei cambiamenti. Forse è vero che, grazie alla diffusione della rete, i lettori alla ricerca della cultura si moltiplicheranno e daranno un contributo sempre più grande al suo sviluppo sul web.

Forse, allora, se Valentino Bompiani fosse ancora qui, potrebbe allora accettare una piccola rivoluzione della sua massima: un uomo che legge non vale più solo il doppio di sé, ma molto, molto di più.

 

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#parolecomepietre, la protesta in Rete http://ifg.uniurb.it/2012/01/26/ducato-online/storify-le-parolecomepietre-del-giornalismo/16906/ http://ifg.uniurb.it/2012/01/26/ducato-online/storify-le-parolecomepietre-del-giornalismo/16906/#comments Thu, 26 Jan 2012 14:12:12 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=16906 [continua a leggere]]]>

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Un sito per le verità online http://ifg.uniurb.it/2011/12/16/ducato-online/un-sito-per-le-verita-online/14640/ http://ifg.uniurb.it/2011/12/16/ducato-online/un-sito-per-le-verita-online/14640/#comments Fri, 16 Dec 2011 17:35:55 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=14640 URBINO – Il fact checking arriva anche in Italia. Nel 2012, gli utenti della rete avranno a disposizione uno strumento per la verifica delle informazioni e potranno esserne parte attiva. L’idea è in cantiere alla Fondazione Ahref, nata dall’ottobre 2010 per migliorare la qualità dell’informazione online.

“Si tratta di un meccanismo di collaborazione – dice Giancarlo Sciascia, community manager della fondazione – aperto a tutta  la rete. Ci saranno frasi, documenti o eventi da monitorare e verranno valutati dagli utenti. E chiunque voglia aggregarsi può dare il suo contributo”. Ogni valutazione comporta la presentazione di dati o fonti che avvalorano la verità o la smentiscono fino ad ottenere un risultato partecipativo: attendibile, non attendibile o con una percentuale di attendibilità.

Il progetto nasce sulla falsa riga del sito Politifact made in Usa, dove la pratica del fact checking si è affermata negli anni ’30. “Il nostro progetto – puntualizza Sciascia – introdurrà anche altri elementi, ma è presto per entrar maggiormente nel dettaglio”.

La piattaforma di verifica diventerà uno dei pilastri della Fondazione Ahref andando ad affiancare, oltre a studi di sociologia applicata a internet e progetti di educazione all’uso e alla consapevolezza dei nuovi mezzi di comunicazione, un serie di strumenti già esistenti nelle loro versioni beta. Si tratta di Timu, Wavu e iData.

Timu, che in Swahili significa ‘squadra’, è un ‘organizzatore’ di contenuti multimediali (come Dipity o Storify) per persone, associazioni e comunità allo scopo di sviluppare delle inchieste o a raccontare delle storie che contribuiscono all’informazione civile attraverso un metodo comune di raccolta delle informazioni.

Wavu, ‘rete’ sempre dal Swahili, è invece un aggregatore per navigare tra le discussioni sull’informazione di qualità e sul citizen journalism, fra blog, giornali, social network, con la possibilità di ricercare per località o tematiche.

E infine iData, la bozza della prima piattaforma italiana open source per il giornalismo basato sui dati. La piattaforma, interamente in licenza creative commons, sarà collegata alle community che potranno collaborare per la raccolta, produzione ed elaborazione dei dati.

Unica clausola per utilizzare questi strumenti è accettare il metodo di raccolta delle informazioni promosso dalla fondazione. La metodologia utilizzata si divide in quattro parti:

  • Accuratezza: attribuire correttamente fatti e nomi e verificare i dati e le loro fonti;
  • Imparzialità: evitare posizioni preconcette;
  • Indipendenza: rendere pubblica la presenza di interessi personali;
  • Legalità: rispettare il diritto alla privacy degli altri e non copiare.

La Fondazione invita chiunque sia di opinioni affini di esplicitarlo pubblicando sul suo blog il logo di Timu.

Il ‘bollino’, una specie di autocertificazione, ha però suscitato un dibattito vasto – partito da un articolo sul Fatto quotidiano – incentrato sulla necessità dei blogger di poter esprimere “imparzialmente” la loro opinione. Polemica a parte, il metodo della Fondazione Ahref tenta di dare una risposta al problema dell’affidabilità delle notizie online.

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Spotus.it: la versione italiana del crowdfunding http://ifg.uniurb.it/2010/04/27/ducato-online/spotus-it-la-versione-italiana-del-crowdfunding/3151/ http://ifg.uniurb.it/2010/04/27/ducato-online/spotus-it-la-versione-italiana-del-crowdfunding/3151/#comments Tue, 27 Apr 2010 13:55:26 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=3151 Finanzia quel che vuoi e leggi quel che chiedi Spot.us: due anni d’inchieste pagate dai lettori]]> E’ nata sabato scorso la versione italiana del sito americano di crowdfunding. A dare vita al progetto, un gruppo variegato: Antonio Badalamenti è un economista, manager e ricercatore, Federico Bo è un ingegnere informatico che si occupa di web 2.0 e social media, mentre Antonella Napolitano è social media consultant, community manager e giornalista.

Inizialmente i tre progettavano un altro genere di piattaforma. Un’idea che poi hanno preferito abbandonare. Si tratta di ToReport, anch’esso presentato appena qualche giorno fa. “Quello – precisa – è un modello business to business, il nostro è un po’ più social: sono due prospettive diverse”.

Rispetto alla versione americana, quella italiana presenta differenze di fondo e una novità: “Abbiamo ricevuto il benestare di David Cohn (fondatore di Spot.Us) ma si tratta di due entità giuridiche differenti”, dice Badalamenti. Mentre quella è appoggiata anche finanziariamente da fondazioni, in Italia ciò non accade: si è deciso di adottare una forma societaria diversa, che comunque punta ad avere sostenibilità economica. “Noi abbiamo introdotto la promessa di finanziamento”, spiega Badalamenti: ci si impegna a finanziare le inchieste giudicate interessanti, ma i soldi non vengono effettivamente versati fino a quando non viene raggiunta la cifra prestabilita. In ogni caso, se entro 60 giorni dall’inizio della raccolta dei fondi l’inchiesta non parte, i soldi vengono restituiti.

Importante sarà anche l’interesse delle testate, che possono anch’esse, come qualsiasi altro cittadino, finanziare i progetti di indagine. Se poi decidono di investire almeno il 50 per cento della cifra necessaria, oltre a occuparsi della supervisione dell’inchiesta, avranno il diritto della pubblicazione in anteprima. “Stiamo iniziando a contattare le testate, abbiamo alcuni feedback positivi. Ma il vero legame da instaurare sarà con le testate locali, per ragioni di naturale affinità”, chiarisce Badalamenti.

Ma come ci si assicura che i soldi investiti vengano spesi bene, senza sprechi? In primo luogo occorre dire che non si corre il rischio di trovarsi di fronte ad una situazione del tipo “prendi i soldi e scappa”. “Le risorse – rassicura Badalamenti – non vengono date tutte insieme all’inizio del lavoro”. La cifra viene infatti corrisposta al reporter per intero solo alla fine, e durante il lavoro questi viene affiancato da un redattore (all’inizio anche i tre fondatori svolgeranno questa mansione, insieme ad altri collaboratori) che controllerà la bontà del lavoro svolto. Inoltre ogni reporter avrà un suo blog per tenere aggiornati gli utenti-investitori. “Certo, non possiamo garantire di soddisfare tutti”, mette in chiaro Badalamenti. Ma questo non lo fanno neanche le testate più quotate e popolari.

Il sito è ancora piuttosto scarno, ma è nato da appena qualche giorno. Per ora ci sono solo due proposte di inchiesta: una sul terremoto a L’Aquila del 2009, l’altra sull’Expo di Milano nel 2015. Entrambe sono promosse da giornalisti iscritti all’Ordine, anche se questo non è un requisito vincolante per diventare ‘reporter’ di Spot.Us Italia.

“Non ci poniamo obbiettivi, il nostro è un esperimento”, conclude Badalamenti: “Abbiamo investito molto tempo e pochissimi soldi: potremmo evolverci o magari scoprire che il progetto in Italia non decolla”.

Servizi collegati

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Guida alla rete:

Le slide della presentazione di Spot.Us.it al Festival del Giornalismo di Perugia

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Nuovi mestieri nel giornalismo: animatori di comunità cercansi http://ifg.uniurb.it/2010/03/31/ducato-online/nuovi-mestieri-nel-giornalismo-animatori-di-comunita-cercansi/1914/ http://ifg.uniurb.it/2010/03/31/ducato-online/nuovi-mestieri-nel-giornalismo-animatori-di-comunita-cercansi/1914/#comments Wed, 31 Mar 2010 14:02:02 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=1914 In America ci sono già le selezioni. Un nuovo sito web che si occuperà delle notizie locali della città di Washington cerca un nuovo genere di giornalisti, accanto a quelli tradizionali:  un “Senior community host“, una specie di padrone di casa che si occuperà di formare il gruppo con cui lavorare e cercare notizie sulla rete; un “community host” per mantenere le relazioni con i blogger, mediare le discussioni e seguire la realizzazione dei progetti della comunità; un “social media producer” che gestirà social media come Twitter, Facebook e YouTube e un “mobile producer”  per seguire la comunità sui cellulari.

L’ “animatore di comunità” è un ruolo non ancora molto conosciuto nel nostro Paese, ma già affermato all’estero, una figura chiave in grado di fidelizzare, clic dopo clic, una comunità di internauti da utilizzare come fonte e pubblico di informazione.

In Italia l’unica figura che un po’ gli si avvicina è quella del community manager: persone che si occupano di gestire le pagine che le testate hanno creato nei social network.

“Io non sono giornalista professionista – spiega Maurizio Monaci, community manager di Repubblica.it – e come me tantissimi che svolgono questo lavoro”. In Italia non è richiesto, chiunque può gestire le comunità purché sia in grado di farlo, mentre all’estero questo lavoro è riconosciuto come una funzione prettamente giornalistica.

Nel nostro Paese l’animatore di comunità deve ancora farsi strada nelle redazioni. Quello che chiedono i giornali online è che i loro contenuti siano rigirati e linkati su altre piattaforme, come Facebook, senza ulteriori attività di animazione. “C’è un giornalista – continua Monaci –  che mi dice i contenuti da inserire. Io li metto in pagina e poi gli internauti commentano tra loro. L’articolo circola e il giornale si fa pubblicità”.

E’ una forma di distribuzione e di marketing, ancora lontana dal complesso lavoro di selezione e tessitura delle conoscenze della rete per creare informazione nuova e originale. Non ci sono interventi per moderare i commenti, monitorarli, prendere spunto da questa o quella riflessione e rilanciare un altro argomento.

“Questo tipo di giornalismo qui da noi non esiste ancora – spiega Luca Dello Iacovo, freelance e collaboratore di Nova, inserto del Sole 24 ore – perché secondo me non sono ancora stati colti i benefici del cambiamento o nessuno è stato in grado di interpretarlo. Basta confrontare i siti dei nostri maggiori quotidiani con quelli inglesi, francesi o spagnoli”. In Francia Le Figaro e L’Express hanno assunto giornalisti che si occupano solo di questo: mettere insieme i vari elementi del discorso che si anima in una comunità per scriverci e ragionarci sopra. Come spiega Antoine Daccord, ex animatore di MySpace, oggi redattore di Le Figaro.fr: “Il giornalista animatore di comunità scrive l’articolo come se avesse fatto una ricerca per strada, salvo che la strada in questo caso è il web”.

All’estero questa figura sembra assai più affermata. In Italia le prospettive sono ridotte notevolmente anche dal ritardo nelle strutture di connessione: “L’accesso all’alta banda – spiega Stefano Lamorgese, multimedia project manager di Rai News 24 –  è molto più indietro da noi rispetto ad altri Paesi e questo influisce sull’arretratezza nella creazione e la necessità di figure come l’animatore di comunità”.

Ma se l’Italia è ancora lontana dalla creazione di un giornalismo frutto di conoscenza condivisa e compartecipata, c’è comunque un settore che sta conquistando ampi margini di autonomia, l’informazione legata a moda e spettacolo. “Sarà che le donne sono più pettegole – spiega Domitilla Ferrari, community manager di donnamoderna.com – ma noi siamo riusciti a creare un pubblico fedele con il quale fare e scambiare informazione”.

La Ferrari utilizza piattaforme interattive per confrontarsi e interagire con la community tramite chat, forum e iniziative varie. “Il mio lavoro – spiega  – consiste un po’ nello scegliere le ciliegie migliori dal cesto (cherry picking): faccio una selezione in rete cercando di individuare contenuti validi dei quali servirmi”.

Monitorare la rete, quindi, e cercare di capire cosa e chi si può aggiungere alla squadra. Poi il manager deve trovare un’angolazione particolare e scoprire il modo efficace di trattare le informazioni che provengono dagli utenti. “Noi viviamo di Ugc, user generated content – continua Ferrari –  Per dirla all’italiana: di contenuti generati dagli utenti e ritenuti interessanti e validi. Capita che mi piaccia una fashion blogger trovata in rete e decida di avere questo contenuto di valore nella mia community e quindi tra le pagine stesse di donnamoderna.com”.

La nuova sfida è questa: condividere e creare insieme informazione. Utilizzare “gli occhi e le orecchie degli internauti come fonte preziosa di notizie”, come dice Laurie Gauret di l’Express.fr .

Il rischio di questo giornalismo “dal basso” è di perdere credibilità e autorevolezza, ma secondo i “community manager” italiani e i più esperti “animatori” dell’estero, l’importante è avere sempre buon senso nella selezione.

Steve Buttry, che lavora da anni in questo campo, è il nuovo responsabile del servizio di “community engagement” del nuovo sito di Washington, ed è lui che proprio in questi giorni sta scegliendo la sua squadra cui si è accennato sopra.  “Cerchiamo persone che sappiano lavorare a 360 gradi con il web 2.0. Che sappiano gestire blogger e relazioni con altri utenti – spiega Buttry al Ducato Online – e poi bisogna saper moderare discussioni nei forum e commenti nei blog. Ma quello che caratterizza maggiormente questo lavoro è la selezione e l’utilizzo di contenuti generati in rete per creare, alimentare e appunto, animare, la comunità”.

(Articolo aggiornato il 12-04-2010 per specificare le funzioni del community manager di donnamoderna.com)

Guida alla rete:

Blog di Steve Buttry

New web site (Washington d.c.)

Selezione personale per New web site

Donnamoderna.com

Pagine facebook di Repubblica.it

Le Figaro.fr

L’Express.fr

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