il Ducato » web http://ifg.uniurb.it testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino Mon, 01 Jun 2015 01:40:19 +0000 it-IT hourly 1 http://wordpress.org/?v=4.1.5 testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato no testata online dell'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino il Ducato » web http://ifg.uniurb.it/wp-content/plugins/powerpress/rss_default.jpg http://ifg.uniurb.it Luca De Biase: “Pur con tutti i suoi limiti, il web è un medium perfetto per divulgare la cultura” http://ifg.uniurb.it/2015/04/24/ducato-online/luca-de-biase-pur-con-tutti-i-suoi-limiti-il-web-e-un-medium-perfetto-per-divulgare-la-cultura/72097/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/24/ducato-online/luca-de-biase-pur-con-tutti-i-suoi-limiti-il-web-e-un-medium-perfetto-per-divulgare-la-cultura/72097/#comments Fri, 24 Apr 2015 21:55:51 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=72097 IMG_6664

Luca De Biase, giornalista Sole 24 Ore e fondatore Nova24

URBINO – Il web non è perfetto. Anzi, deve fare i conti ogni giorno con la scarsità. Di tempo, di attenzione e di capacità di discernimento. Eppure continua ad essere lo strumento migliore per veicolare cultura.

Luca De Biase, firma del Sole 24 Ore e fondatore di Nova24 (che ha guidato dall’ottobre 2005 al giugno 2011 e che ha ripreso a guidare dal luglio 2013), a margine del panel dedicato al ruolo del Web quale veicolo di informazione si è soffermato sulle potenzialità e sui limiti della rete. E sulla rivoluzione irreversibile che ha causato nel rapporto tra editori e pubblico: “Prima dell’Internet, gli editori possedevano lo spazio sul quale si pubblicava e questo era limitato, quindi aveva molto valore. Ora lo spazio è infinito e questa scarsità è scomparsa”. A suo avviso sono tre, tuttavia, le scarsità che persistono. E contano moltissimo: “La scarsità di tempo delle persone; la scarsità di attenzione delle stesse; la scarsità di capacità di riconoscere la rilevanza delle informazioni. L’offerta è diventata sì illimitata, ma deve confrontarsi con queste tre scarsità che sono controllate dal pubblico e non più dagli editori”.

Quali sono le conseguenze di questa rivoluzione copernicana?
“La conseguenza principale è che, per aver successo, quegli editori che prima determinavano i gusti e le abitudini del pubblico adesso lo devono servire: se non vengono adottati dal pubblico, i prodotti degli editori non hanno ragione di esistere. Condizione per l’adozione è che questi prodotti siano al servizio del tempo, che è limitato, dei lettori, della loro capacità di attenzione etc. Queste caratteristiche sono particolarmente complicate da definire perché i consumatori non sanno cosa vogliono. Vogliono novità, innovazione, cose che non sanno e che quindi vogliono sapere”.

Il web è il mezzo giusto per veicolare messaggi culturali?
“Assolutamente sì, la tecnologia fa parte del risultato culturale: “La cultura è tecnologia”, citando Pierre Gourou. Il web è particolarmente efficace da questo punto di vista perché è così malleabile: puoi fare un giornale culturale con la metafora del giornale culturale, ma puoi fare anche un giornale culturale con la metafora del museo, di una biblioteca, di un circolo di amici. O con la metafora del network di scienziati. Offre opportunità infinite”.

Il professor Dorfles ha dichiarato al Ducato di ritenere il web idoneo a veicolare solo informazioni caratterizzate da immediatezza e urgenza. Sul web c’è spazio, insomma, solo per decreti-legge?
“In quel che dice c’è anche del vero, perché il web, nella maggior parte dei momenti in cui è utilizzato, al pc ma soprattutto ormai sullo smartphone, è più un flusso di informazioni che uno stock. Ma sostanzialmente sono in disaccordo, perché anche il web è un deposito di informazioni stabili e di qualità elevatissima. E’ il web a consentirti di andare a leggere i paper scientifici che sono prodotti in modo aperto, che ti consente di andare a cercare contenuti profondi, sofisticatissimi e stabili! E’ il web ad aver consentito a Brewster Kahle di fare archive.org, che è l’archivio di tutte le pagine web che sono state pubblicate. Questo non è flusso, è stock. Il web è un ecosistema. Può darsi che le cose che sono più in evidenza siano quelle del flusso immediato, ma certo nel web esistono delle ricchezze fondamentali”.

Lei è più volte tornato sul tema dell’information overload, del sovraccarico di informazione. A chi spetta di guidarci nel mare magnum delle notizie?
“Ai sistemi che fanno informazione: in parte agli algoritmi, in parte ai content curators, che interpretano i bisogni del pubblico cercando di mettere insieme informazioni che ritengono essenziali. L’algoritmo lo fa sulla base di una logica oggettiva e automatica e quindi prevedibile. Si pensi agli algoritmi di Facebook o Google. I curator, invece, interpretano con il loro apporto culturale quel che può essere interessante per il pubblico. Perché la curation abbia senso deve essere comoda come la selezione dell’algoritmo, come l’automatismo. Ma dovrà essere credibile e sorprendente più dell’automatismo, dovrà provare l’apporto culturale di chi ha operato la selezione”.

Su un piano strettamente finanziario, fino a quando sarà sostenibile un sistema di questo tipo?
“La mia impressione è che presto si renderanno necessarie delle forme di condivisione dello sforzo economico, perché è difficile credere di poter pagare questo lavoro solo tramite pubblicità. Dovranno instaurarsi forme di complicità col pubblico tali che questo sia disposto a pagare per i servizi di informazione di questo tipo”.

Foto di Anna Saccoccio

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Tedeschini Lalli: “Il giornalismo è digitale. Ha bisogno di integrazione di cervelli” http://ifg.uniurb.it/2015/04/24/ducato-online/tedeschini-lalli-il-giornalismo-e-digitale-ha-bisogno-di-integrazione-di-cervelli/72039/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/24/ducato-online/tedeschini-lalli-il-giornalismo-e-digitale-ha-bisogno-di-integrazione-di-cervelli/72039/#comments Fri, 24 Apr 2015 20:25:12 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=72039 L’Espresso sull'integrazione delle redazioni giornalistiche e sul futuro della carta stampata: "Questione di costi e ricavi. Non si tratta di 'se' ma di 'quando'". "Le aziende editoriali dovrebbero iniziare a pensare se stesse in termini di piattaforma"]]> Mario Tedeschini Lalli, giornalista dell'Espresso

Mario Tedeschini Lalli, giornalista dell’Espresso

URBINO – Parola d’ordine: integrazione. Di strumenti? Di mezzi comunicativi? Non solo. Integrazione di cervelli. Mario Tedeschini Lalli, vice responsabile innovazione e sviluppo del Gruppo Editoriale L’Espresso e docente di Giornalismo digitale all’Ifg di Urbino, ha parlato a margine del panel “Dov’è la cultura oggi” dedicato all’universo del web. Tanti i temi trattati: dal futuro della carta stampata al ruolo del giornalista come “curator” nell’universo digitale.

Dopo l’incontro dedicato alla carta stampata siamo passati al web. Come sono strutturate oggi le redazioni? C’è integrazione tra i diversi mezzi comunicativi?
“Nelle grandi testate non c’è molta integrazione, o comunque ce n’è poca. La parola d’ordine “integrazione” è quasi vecchia ormai, essendo entrata in voga nel 2005-2006. Il problema adesso non è integrare la carta col web o la televisione col web. Il vero problema è di immaginare di integrare i cervelli, immaginare una produzione giornalistica che sia digitale nella testa e che quindi produca materiali digitali fruibili in tutte le diverse forme. I grandi e piccoli giornali internazionali hanno una piccola squadra che si occupa del giornale di carta, come uno dei tanti prodotti. C’è un’unica redazione che si occupa dei contenuti giornalistici di quella testata, poi i diversi gruppi di lavoro adattano quel dato contenuto nelle diverse forme editoriali. Ciò accade, ad esempio, nel Financial Times dove ci sono dieci giornalisti che prendono parte dei materiali e li confezionano in maniera adeguata per il prodotto cartaceo”.

Secondo lei la carta stampata rappresenta un utilizzo di risorse umane ed economiche eccessivo? Che futuro vede per questo prodotto?
“Beh, non sta a noi decidere se tenere o no in vita il prodotto cartaceo. Basta guardare i numeri: i grandi giornali italiani che all’inizio degli anni ’90 vendevano 600/700 mila copie adesso si trovano a venderne poco più di 200mila. Ci sarà un momento in cui la curva dei ricavi incrocerà quella dei costi e il prodotto non sarà più sostenibile. Non è un se, è una questione di quando. Tuttavia resta uno strumento di ricavo forte e va curato, fatto funzionare e tenuto in forze. Ma, come ho già detto in precedenza, quello cartaceo è soltanto uno dei prodotti che la testata produce. È evidente che, in una redazione dagli esteri, i corrispondenti della testata produrranno un prodotto giornalistico completo, da tradurre poi anche per le pagine del giornale. Fino a che non si arriva ad un’idea di questo genere credo che soffriremo. Ritardiamo il momento nel quale redazione e giornalisti prendono coscienza del fatto che tutto il loro materiale è in realtà già materiale digitale”.

Nel suo intervento ha detto chiaramente che il giornalista culturale, in quanto declinazione di quello digitale, deve essere un “curator”. Quali strumenti deve avere il giornalista per svolgere a pieno il suo ruolo?
“Tutti i giornalisti, tutti i giornali da quando il giornalismo è giornalismo, ovvero dal 1830, hanno svolto questa funzione: riferire ed indicare ciò che altri scrivevano o raccontavano. Il giornalista non solo informa correttamente, ma orienta il cittadino tra i molti flussi informativi che ha di fronte. È una funzione storica. Vi è ancora di più nell’universo digitale, dove tutto ciò è ancora più complesso. Quindi è fondamentale indicare dei percorsi di conoscenza diversi: che si tratti di un semplice link fino ad arrivare a percorsi ben più complessi, che servano a mettere insieme temi complessi in maniera ragionata, oppure far riemergere argomenti vecchi in una chiave attuale”.

Quale potrebbe essere un esempio positivo di giornalismo culturale applicato al web?
“Un esempio eccellente è senz’altro l’esperimento culturale di Maria Popova che con il sito Brain Pickings è riuscita a combinare argomenti e temi diversi, anche da diverse discipline, connettendoli insieme e creando nuove idee fruibili alla massa”.

Dopo il keynote speech di Andy Mitchell al Festival internazionale di Perugia si è sviluppato nuovamente il dibattito sulla reale possibilità di un’alleanza tra Facebook e gli editori. Lei crede che il social network di Mark Zuckerberg si sia già impossessato del mercato, divenendo così l’editore principe del web
“Si e no. La questione è che Facebook è diventato ormai un sinonimo di internet per molte persone. Se Facebook è Internet, questo comporta tutta una serie di problemi, anche di tipo economico. Ad esempio la monetizzazione del traffico o dei dati (non scordiamoci che Facebook è la più grande banca dati mondiale). Se diventa il luogo ineludibile del passaggio di contenuti (e in parte già lo è) evidentemente questo è da un lato un’occasione, ma anche un problema abbastanza serio. Questo discorso non vale solo per Facebook, ma per tutte le grandi piattaforme. Ecco perché a mio avviso le aziende editoriali, entro certi limiti, dovrebbero iniziare a pensare se stesse in termini di piattaforma e interfacciarsi così con il mercato”.

Per concludere, in una battuta: cosa consiglierebbe a un’aspirante giornalista che si affaccia per la prima volta in questo mondo?
“Fallo, non aspettare che qualcuno ti assuma. Voi potete, io quando avevo 20 anni no. Cominciate a fare i giornalisti, misuratevi, provate. È l’unico modo per riuscirci”.

Foto di Jacopo Salvadori e Anna Saccoccio

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Tra carta stampata e web – STORIFY http://ifg.uniurb.it/2015/04/24/ducato-online/tra-carta-stampata-e-web-la-seconda-giornata-del-festival-del-giornalismo-culturale/72041/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/24/ducato-online/tra-carta-stampata-e-web-la-seconda-giornata-del-festival-del-giornalismo-culturale/72041/#comments Fri, 24 Apr 2015 18:18:54 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=72041 [continua a leggere]]]>

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Italiani e informazione: tv ancora padrona. Web al secondo posto. Il rapporto News-Italia di Urbino http://ifg.uniurb.it/2015/04/23/ducato-online/italiani-e-informazione-tv-ancora-padrona-web-al-secondo-posto-il-rapporto-di-news-italia-di-urbino/71715/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/23/ducato-online/italiani-e-informazione-tv-ancora-padrona-web-al-secondo-posto-il-rapporto-di-news-italia-di-urbino/71715/#comments Thu, 23 Apr 2015 21:59:35 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=71715 ]]> Lella Mazzoli presenta la ricerca Informazione e serialità

Lella Mazzoli presenta la ricerca Informazione e serialità

URBINO – Dal telegiornale alla social tv. Così cambia il modo di rapportarsi degli italiani con la televisione che resta comunque lo strumento più utilizzato per informarsi. In mano agli spettatori, però, si è acceso un altro schermo: quello di uno smartphone. Tra serie tv e talk show, invece, i giovani preferiscono le prime per la loro trama più complessa. Lella Mazzoli, direttrice del dipartimento di Scienze della comunicazione dell’Università di Urbino, ha presentato i risultati della ricerca Informazione e serialità dell’osservatorio News-Italia, presentati durante l’inaugurazione della terza edizione del Festival del giornalismo culturale. Lo studio condotto su un campione di oltre 5.000 persone, descrive il modo in cui sta cambiando il panorama mediale italiano. Cioè attraverso quale mezzo gli italiani si informano e si forma l’opinione pubblica.

Tv sempre prima, poi il web. Resta ancora la televisione il mezzo con cui gli italiani si informano maggiormente (88%). L’informazione oggi, però, è sempre più veicolata dalla rete. È il web il vero padrone di questi anni e lo dimostra con un’ascesa vertiginosa nei media preferiti dagli italiani per informarsi: dall’ultima posizione nel 2011 (51 per cento) oggi si attesta in seconda (71 per cento). Le fonti del web più utilizzate per informarsi rimangono i siti internet dei quotidiani e i portali che aggregano notizie provenienti da diverse fonti, come libero.it e yahoo.com. Radio e all-news si scambiano i ruoli: se nel 2011 la prima veniva utilizzata dal 57 per cento delle persone e la seconda dal 53, oggi solo il 51 per cento ascolta i Gr mentre il 58 i canali all-news. Chi invece sta soffrendo di un calo vertiginoso è la carta stampata passata dalla seconda posizione (63 per cento) all’ultima, scendendo sotto il 50 per cento.

La social tv. Se l’ascesa del web era preventivabile, quello che era meno prevedibile è il modo in cui la rete sta modificando l’approccio del cittadino verso la televisione. Il 54 per cento degli italiani, infatti, durante la visione di un programma tv, utilizza un uno smartphone per diversi scopi . Un dato che si impenna fino all’89 per cento se si prende in considerazione i giovani dai 18 ai 29 anni. Ci sono i “distratti”, ovvero quelli che utilizzano supporti mobili durante la pubblicità (35 per cento del totale, 77 per cento tra i giovani); i multitasking, quelli che ricercano informazioni sul programma che stanno guardando (28 per cento degli italiani, 70 per cento tra i giovani) e diffidenti, cioè chi fa fact checking: controlla se dall’altra parte del ‘tubo catodico’ stanno dicendo la verità (29 per cento degli italiani, 69 per cento dei giovani). “Internet molto presto supererà la televisione – commenta Lella Mazzoli, direttrice della ricerca – anzi, a mio parere l’ha già fatto, ma questo non comporta una morte della televisione, che è ancora viva. L’unica cosa morta è lo strumento televisore. I due mezzi possono convivere e la crescita di internet non andrà a discapito della tv, che continuerà a sopravvivere, grazie anche agli strumenti mobile, i second screen”.

Serie tv contro talk show. Dalla ricerca non è emersa solo la classifica dei media più utilizzati dagli italiani per informarsi, ma anche le loro scelte in materia di contenuti: “Sono cambiati i linguaggi – sostiene la Mazzoli – non piacciono più i talk show, ma la serialità, lo storytelling. Agli italiani, soprattutto ai giovani, interessano intrecci di trame sempre più complessi, raccontati attraverso più media”. Quest’affermazione è confermata dai risultati della ricerca del Larica: quasi la metà degli italiani, infatti, privilegia le serie televisive (46 per cento), mentre sono in netto calo soap opera e telenovele (16 per cento). Per selezionare i programmi seguire tra le centinaia a disposizione gli spettatori, sempre più spesso, si affidano ai consigli dei propri contatti sui social network che influenzano il 31 per cento delle loro scelte.

Televisione e streaming internet. Per seguire le loro serie preferite gli spettatori hanno a disposizione due modi: il canale televisivo tradizionale e il web. La maggior parte degli italiani propende ancora per la cara vecchia televisione (72 per cento), mentre sono pochi quelli che ricorrono esclusivamente a streaming, web tv e allo scaricamento di episodi da internet (7 per cento). Il 21 per cento, invece, sfrutta entrambi i canali. Anche in questo caso, però va fatto un discorso a parte per i giovani: il 66% di loro, infatti, segue le serie televisive attraverso almeno una delle modalità online, una percentuale molto più alta rispetto a quella dell’intera popolazione. Il dato conferma, una volta di più, che questa fascia d’età ha una confidenza con il web nettamente maggiore rispetto alle altre.

Le serie preferite dagli italiani. Infine va detto che gli italiani hanno una passione per il giallo e la scena del crimine, dato che le serie tv poliziesche hanno un gradimento del 74 per cento. La serie preferita? Csi, un cult statunitense che domina il panorama della nostra televisione da quindici anni. Ad andare in controtendenza, ancora una volta, i più giovani a cui piace di più farsi delle risate visto che in cima alle loro preferenze c’è la famosissima commedia The Big bang theory.

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L’occasione persa di creare una cultura comune. Piero Dorfles e la ‘divergenza culturale’ http://ifg.uniurb.it/2015/04/23/ducato-online/loccasione-persa-di-creare-una-cultura-comune-piero-dorfles-e-la-divergenza-culturale/71783/ http://ifg.uniurb.it/2015/04/23/ducato-online/loccasione-persa-di-creare-una-cultura-comune-piero-dorfles-e-la-divergenza-culturale/71783/#comments Thu, 23 Apr 2015 21:58:31 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=71783 VIDEO Durante la lectio sulla 'divergenza culturale', tenuta al festival di giornalismo culturale di Urbino, il critico letterario ha sottolineato l'assenza di un grande spazio sul web dedicato alla cultura. Dorfles però non si arrende e lancia una sfida: "Portiamola fuori dalla 'terza pagina' dei piccoli blog"]]> URBINO – Anche nell’era digitale gli intellettuali continuano a parlare di sé e per sé. E così la cultura torna sullo stesso errore già commesso dalla carta stampata, condannandosi a restare una riserva indiana. Lascia l’amaro in bocca la lectio di Piero Dorfles sulla ‘divergenza culturale’ tenuta nella prima giornata del Festival del giornalismo culturale di Urbino. È il sapore di un’occasione mancata. Così il critico letterario e conduttore, alla sua terza partecipazione al festival, descrive l’esito dell’incontro tra il web e la cultura. Parla di divergenza, di uno sposalizio perso, ponendosi in netta controtendenza rispetto a quanti, dopo la teoria di Henry Jenkins, hanno iniziato a parlare di cultura convergente.

Una panoramica della Salone del trono a Palazzo Ducale, durante il discorso di Piero Dorfles

Una panoramica della Salone del trono a Palazzo Ducale, durante il discorso di Piero Dorfles

Le due culture. Citando Apocalittici e Integrati di Umberto Eco, Dorfles tenta di sviluppare una riflessione obiettiva, che lasci da parte l’ottimismo o il pessimismo più nero sulle potenzialità della Rete: “Quella che sembrava profilarsi come una straordinaria forma di democratizzazione – sostiene il critico – ha lasciato fuori spazi come quello della cultura e della politica”. L’enorme apertura offerta dallo sviluppo tecnologico e dal web doveva essere la chiave per superare quella che per secoli è stata la divisione tra il mondo dei colti e non, portando alla nascita e al diffondersi di una cultura collettiva. Di renderli consapevoli e partecipi del proprio destino sociale e politico. Non solo ciò non è accaduto, ma, fa notare il critico, benché sul web siano nati blog o riviste culturali, tali realtà rimangono chiuse in un mondo che parla di sé e per sé, proprio come è successo con la carta stampata. Per gli altri, quei tre quarti d’italiani che non hanno tempo di leggere, c’è la cultura di massa. Una cultura nient’affatto minore, ma che comunque non può sostituire la prima.

La colpa collettiva. Quando “l’oligarchia intellettuale” prova a divulgare la cultura, anche attraverso la televisione, mezzo popolare per antonomasia, non riesce a farsi capire dal grande pubblico. Manca la sintonia: “Non riesce neppure a usare una grammatica adeguata” ha detto Dorfles riferendosi a chi fa cultura in televisione “Ma così l’intellettuale mantiene il sapere per sé e viene meno alla sua funzione”, ha concluso Dorfles . Il problema è dunque la divulgazione: lo spazio della cultura nelle redazioni si è compresso. La redazione culturale non esiste più. Le pagine di costume, spettacolo e letteratura non sono più affidate a professionisti specializzati nei vari settori. E ciò rischia di produrre un “chiacchiericcio” controproducente confinato in spazi minuscoli come piccoli box.

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Piero Dorfles (Foto di Simona Desole)

Ritrovare il proprio posto.“La cultura deve avere un proprio spazio e la si può fare ovunque” secondo Dorfles. Per arrivare a questo obiettivo è fondamentale l’intervento del giornalista culturale, che è una figura specializzata, in grado di usare quella sintassi necessaria alla comprensione del grande pubblico. Il suo compito è quello di mediare i contenuti e di avvicinarli ai lettori perché possano fruirne. Nonostante l’emergere di nuovi influencer dal web, il giornalismo culturale può ancora offrire un servizio: deve cercare, fornire e gerarchizzare le informazioni. Mentre “per distribuirlo ci vuole intelligenza, capacità e onestà” sostiene il critico. Deve essere in grado di recensire un libro o un film, di spiegare una mostra d’arte, come anche di parlare negativamente di ciò che recensisce. La sfida del futuro si gioca sulla capacità che avrà la cultura di  “uscire dalla zona privilegiata, dalla terza pagina e dai 1500 lettori”.

 Video a cura di Rita Rapisardi e Claudio Zago 

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Belpoliti: “Sul web si perde la profondità della cultura. Siamo lettori in affitto” http://ifg.uniurb.it/2014/04/26/ducato-online/belpoliti-sul-web-si-perde-la-profondita-della-cultura-siamo-lettori-in-affitto/61960/ http://ifg.uniurb.it/2014/04/26/ducato-online/belpoliti-sul-web-si-perde-la-profondita-della-cultura-siamo-lettori-in-affitto/61960/#comments Sat, 26 Apr 2014 11:19:06 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=61960 belpoliti festival giornalismo culturaleURBINO – Con l’arrivo dei mezzi digitali il nostro modo di leggere è cambiato perdendo attenzione e accuratezza. Meno capacità di comprendere ma anche meno capacità di memorizzare perché quello che allena la nostra memoria è il riferimento spaziale preciso: le parole sul libro o sul giornale sono collocate in uno spazio tridimensionale e grazie a questo noi riusciamo a orientarci.

Tutto il contrario di quello che secondo Marco Belpoliti – docente di sociologia della letteratura e letteratura italiana all’università di Bergamo – succede sul Web. Belpoliti parla dal  tavolo del Festival del giornalismo culturale di Urbino: “Quando si legge qualcosa su un sito si passa da una cosa all’altra, si transita, si è nomadi. Il testo elettronico tiene le cose fuori di se e proprio in virtù di ciò riesce a espandersi, come se tutto funzionasse come un grande ipertesto: le cose non sono lì, sono altrove”.

Una caratteristica che trasforma i lettori di Internet in “lettori in affitto”: “Sono nel web ma non so dove sono di preciso”. Vago, mi muovo e così facendo perdo la relazione fisica tra l’azione di leggere e il supporto fisico su cui lo faccio.

“L’invenzione del touch – afferma Belpoliti – è, ad esempio, un tentativo di reintrodurre una sorta di terza dimensione”. Tocco il mio tablet e così imito il gesto fisico di sfogliare le pagine. Un tentativo riuscito solo parzialmente perché le informazioni nel web sono accessibili senza sforzo “e questo toglie attenzione e accuratezza alla mia lettura”. “Secondo una recente ricerca statunitense più tempo si passa a leggere su uno schermo, meno ci si concentra su ogni piccola parte del testo. Su quei particolari che Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” definiva come una “materia puntiforme e pulviscolare”.

Un meccanismo che viene spiegato bene dall’immagine del copista del filosofo tedesco Walter Benjamin: “il copista era l’unico che riusciva a cogliere il vero senso di un testo, esattamente come chi percorre una strada rispetto a chi la sorvola dall’alto”.

Scendere in profondità, camminare lentamente sporcandosi le scarpe con la polvere del sentiero, affondare lo sguardo è, secondo Belpoliti, il vero compito del lettore e dell’operatore culturale 2.0. Un compito difficile ma non per questo meno affascinante.

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Il caos calmo della rettifica online: se la deontologia non basta http://ifg.uniurb.it/2013/06/13/ducato-online/il-caos-calmo-della-rettifica-online-se-la-deontologia-non-basta/48928/ http://ifg.uniurb.it/2013/06/13/ducato-online/il-caos-calmo-della-rettifica-online-se-la-deontologia-non-basta/48928/#comments Thu, 13 Jun 2013 12:55:49 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=48928 “Il cielo stellato sopra di me – diceva Immanuel Kant – la legge morale dentro di me”. Quando non esistono regole certe, l’unica barriera ad arginare l’istinto degli uomini (e dei giornalisti) è la sottile e variabile linea della moralità. E’ questo il caso del giornalismo online e dell’obbligo di rettifica, sul qual c’è un’assenza di norme che rischiano di produrre squilibri nella tutela dei diritti dei cittadini che la chiedono.

La stampa online è regolata, come il resto dell’informazione italiana, da una legge datata 8 febbraio 1948 . Ben prima della Rete, e quando la tv non era ancora arrivata in Italia. Chiaro quindi che ci siano dei problemi. Cosa deve fare il cittadino che vuole rettificare una notizia su un giornale online? E come deve comportarsi il giornalista?

Come detto, una norma di legge non esiste. La legge del 1948 detta i requisiti per la rettifica sui mezzi d’informazione tradizionali. La testata giornalistica è obbligata a pubblicare tempestivamente le rettifiche – anche qualora contengano informazioni false – entro un certo numero di edizioni, a seconda del tipo di pubblicazione (settimanale, giornale radio, quotidiano).

Nel caso di internet, però, sorgono due grossi problemi:

  1. le edizioni, in senso proprio, non esistono,
  2. il web non è contemplato dalla legge tra i mezzi d’informazione

Di conseguenza, non esistono regole per stabilire quando esista il diritto di replica da parte della persona che si sente offesa da un contenuto e la forma che deve prendere questa rettifica.

“Non c’è nessuna regola – conferma Carlo Melzi D’Eril, avvocato penalista esperto di giornalismo (per la trasparenza: è anche docente dell’Ifg) – salvo il codice deontologico dei giornalisti. Se il giornalista online venisse citato in giudizio per una mancata rettifica, infatti, la sua posizione verrebbe immediatamente archiviata perché non c’è nessuna norma che regola la materia, a differenza di ciò che avviene per gli altri mezzi d’informazione”. È bene precisare che si parla soltanto dell’obbligo di rettifica: il giornalista online, come tutti gli altri, risponde penalmente per il reato di diffamazione.

“Una buona soluzione normativa – sostiene ancora Melzi D’Eril – sarebbe far scattare l’obbligo di rettifica per le testate e i mezzi d’informazione online secondo un criterio temporale, magari con un limite di spazio e con la condizione che la notizia da rettificare sia falsa, come avviene per le televisioni”.

Così la deontologia professionale rimane l’ultimo argine all’anarchia, anche se per l’Ordine dei giornalisti è quasi come fermare la marea con le mani. Dario Gattafoni, presidente dell’Ordine dei giornalisti delle Marche, sostiene che “una norma di legge ben fatta sarebbe utile e auspicabile, ma noi non ne abbiamo bisogno: il codice deontologico parla chiaro, il giornalista è comunque obbligato alla rettifica, quindi se la regola legislativa interviene a fissare un paletto, sicuramente ne beneficeremo tutti, altrimenti comunque ci sono delle norme inderogabili sul comportamento dei giornalisti”.

Va detto, però, che se queste regole sanzionano i giornalisti, non tutelano in modo diretto i cittadini interessati alla rettifica, proprio perché sono norme la cui applicazione spetta all’Ordine che non è un tribunale e che non ha potere sui non iscritti. Il cittadino viene tutelato dall’Ordine solo in via indiretta, attraverso il potere di controllo e censura sui giornalisti, compresi quelli del web (esclusi i blogger).

Fin qui la teoria, ma in pratica, come deve comportarsi il giornalista ? Come si rettifica un pezzo online, per definizione immateriale? Ci sono varie scuole di pensiero: c’è chi corregge il pezzo originale, chi aggiunge in testa o in coda la rettifica, chi sbarra la frase da rettificare con una riga e scrive accanto in corsivo le parole nuove che correggono il “tiro” della notizia, chi rettifica in un nuovo pezzo, chi – salomonicamente – si toglie dall’imbarazzo cancellando totalmente il pezzo originale.

I giornalisti si muovono quindi in ordine sparso. A  mettere ordine nella faccenda dovrebbe essere il parlamento che, anche se frammentariamente, ci ha anche provato: nel 2009, maggioranza e opposizione presentarono, all’interno del disegno di legge sulle intercettazioni, due emendamenti contraddittori.

Il senatore D’Alia, messinese in quota Udc, presentò un emendamento che fu ribattezzato “ammazza-blog”: prevedeva che i gestori dei siti d’informazione dovessero procedere “immediatamente” alla pubblicazione della rettifica. Ma cosa vuol dire “immediatamente” in un modo che si muove alla velocità dei bit? Il Pd propose invece un periodo di tempo di 48 ore dalla richiesta di rettifica alla sua pubblicazione. Ma il Ddl intercettazioni non vide mai la luce, e gli emendamenti quindi sono finiti nella soffitta di Palazzo Montecitorio. Lasciando da sola la deontologia.

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Picayune e Inquirer: quei giornali che tornano a puntare sull’edicola http://ifg.uniurb.it/2013/05/13/ducato-online/picayune-e-inquirer-quei-giornali-che-tornano-a-puntare-sulledicola/46894/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/13/ducato-online/picayune-e-inquirer-quei-giornali-che-tornano-a-puntare-sulledicola/46894/#comments Mon, 13 May 2013 17:45:22 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=46894 Se la moda del momento è l’esodo dalla carta al digitale, negli Stati Uniti c’è chi va in controtendenza. È il Times Picayune, giornale di New Orleans dal 1837 che un anno fa decise di tagliare le pubblicazioni cartacee riducendo a tre le uscite settimanali per favorire ed espandere il sito online del giornale, provocando il malcontento tra i lettori. Ma l’ex quotidiano, a distanza di un anno, ha deciso di ritornare sui suoi passi affiancando al cartaceo del mercoledì, venerdì e domenica, un nuovo tabloid il TPStreet che uscirà anche il lunedì, martedì e giovedì.

La notizia di poche ore fa è stata commentata sul New York Times che ha giudicato “arrogante e avventata” la scelta dell’anno scorso da parte degli editori di abbandonare il cartaceo pensando che i numerosi “click” del sito portassero alla conquista di nuovi inserzionisti e di conseguenza a nuove fonti di guadagno.

Ma la convinzione che possedere il monopolio di un’area per fare funzionare un giornale si è rivelata ben presto sbagliata e il vecchio quotidiano di New Orleans ha dovuto ammettere di non essere stata in grado di adottare una strategia digitale moderna.

Critiche sono arrivate anche dal Columbia Journalism Review, la rivista della scuola di giornalistmo della Columbia, che ha giudicato la strategia dell’anno scorso come un “rolling disaster”, letteralmente un disastro rotolante.

Il caso del Times Picayune non è l’unico negli Stati Uniti. Qualche settimana fa il Philadelphia Inquirer, giornale di Philadelphia fondato nel 1829 da John R. Walker (terzo giornale più longevo negli Usa) ha fatto un passo indietro annunciando che, dopo due anni di assenza dalle edicole, sarebbe ritornato con l’edizione del sabato.

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Fotografare l’informazione culturale: web, tv e carta stampata a confronto http://ifg.uniurb.it/2013/05/04/ducato-online/fotografare-linformazione-culturale-web-tv-e-carta-stampata-a-confronto/45278/ http://ifg.uniurb.it/2013/05/04/ducato-online/fotografare-linformazione-culturale-web-tv-e-carta-stampata-a-confronto/45278/#comments Sat, 04 May 2013 12:31:35 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=45278 VIDEO]]> URBINO – “Un fotografia dell’informazione culturale italiana”: è il titolo della conferenza mediata da Massimiliano Panarari de La Stampa tenuta al collegio Raffaello subito dopo la lectio di Piero DorflesCinque relatori per affrontare in maniera diversificata il problema dell’informazione e della cultura: Isabella Donfrancesco (Rai Educational), Nicola Lagioia (scrittore), Giuseppe Laterza (Laterza editore), Giuseppe Roma (Direttore del Censis) e Massimo Russo (Ifg Urbino).

GUARDA IL VIDEO: DALLA TERZA PAGINA ALLA CULTURA POP

Il giornalismo culturale deve avere anche una funzione sociale? Si può, attraverso la cultura, stimolare la coscienza critica delle persone? Il giornalismo culturale può produrre dibattito? Cinque ‘osservatori’ diversi: dal mondo del web arriva l’incitamento a rendere la cultura ancora più pop; la televsione vuole continuare ad essere un mediatore tra la cultura e i cittadini attraverso l’approfondimento i canali tematici; chi scrive e fa cultura ha bisogno del supporto dell’informazione e di più promozione anche attraverso il dibattito critico; dal punto dei vista dei dati l’analisi si concentra sui cambiamenti epocali che stanno interessando il paese: più del 50% della popolazione si informa oramai su internet ed è quindi in quel luogo virtuale che bisogna promuovere la cultura.

Giuseppe Laterza

“Io do un giudizio positivo del giornalismo culturale italiano: io faccio libri e la loro sorte dipende anche da come i giornali affrontano la cultura. Nei giornali ci sono molte recensioni fatte anche molto bene”. Giuseppe Laterza apre il suo intervento con un pensiero positivo per poi spostare l’attenzione su ciò che manca: “Ciò che manca è la recensione critica, cioè quel momento di confronto in cui chi scrive prende sul serio il libro che ha letto. Spesso nei giornali italiani c’è la stroncatura oppure il silenzio: questo è un problema perché io credo che solo dal confronto, anche acceso, si possa crescere. Nessuno di noi ha la verità in mano: l’avvicinamento alla verità avviene solo attraverso la dialettica. Ecco il punto: il giornalismo culturale deve essere confronto senza demolizione”. In chiusura il pensiero di Laterza sulla “cultura di tutti”: “E’ sbagliata l’idea secondo cui la cultura sia un mezzo di esclusione: la cultura deve essere accessibile a tutti senza perdere capacità critica”.

Giuseppe Roma

“L’Italia è un paese pieno di cultura ma gli italiani non se ne interessano: dovremmo iniziare a chiederci perché”. Giuseppe Roma concentra il suo intervento sul problema dell’assenza di cultura nella “marmellata mediale” in cui viviamo oggi. “Il soggetto è il contenuto stesso che viene trasmesso, basti vedere i social network. Le stesse pagine culturali spesso riportano articoli di interpreti-protagonisti: questo genera molta confusione”. Secondo Roma il problema non è di spazio per la cultura, perché oggi ci sono più inserti di quando esisteva solo la “terza pagina”, né di giornalismo culturale ma di come far diventare la cultura interesse prevalente di tutti: “Per aiutare anche l’economia la cultura deve diventare interesse di tutti. E’ necessario darle appeal facendola scendere dal piedistallo”.

Isabella Donfrancesco

Concentrato sul ruolo della televisione nel processo di interazione cultura-informazione l’intervento di Isabella Donfrancesco: “Noi (Rai Educational) abbiamo creato una serie di canali tematici che sono un luogo di scambio e approfondimento; attraverso la tv si può mediare la cultura e in questo senso il mezzo deve avere solo un approccio di servizio”. Lo scambio di cui parla la Donfrancesco è soprattutto di tipo culturale rispetto alle diversità: “Abbiamo un portale dedicato alla lingua italiana per gli stranieri. Chi vuole fare cultura attraverso i servizi deve necessariamente parlare a chi è diverso: c’è bisogno di interattività”. Vantaggio della televisione specializzata il fatto di poter mostrare cose che normalmente non sarebbero di interesse comune: “Si possono vedere in faccia gli scrittori, cosa che prima non era possibile. Ci possono scrutare i loro volti con i loro tic e i loro vizi. In questo senso la tv si deve porre come mediatore ma in un garbato secondo piano”.

Massimo Russo

“Spiazzerò la platea iniziando il mio intervento con una provocazione: la rete è stupida”. Massimo Russo, che sta per diventare direttore di Wired ed è un esperto giornalista informatico, parla di rete, informazione e cultura. “La cultura è diventata ormai di massa e secondo me dovrebbe essere ancora più pop. Attraverso il passaggio al digitale il processo di apertura si è completato. Ciò che è cambiato è il verso della reazione: se prima la cultura era un sistema che dall’alto si spostava verso il basso ora con il web la cultura si sposta da nodi periferici verso altri nodi. Non c’è nessuno che regolamenta”. E sul recente ‘intervento di Laura Boldrini, presidente della Camera sulla regolamentazione dell’ “anarchia del web”, Russo fa questa riflessione: “Se restiamo legati alla vecchia idea di cultura che dall’alto viene regolata e pensiamo di trasferirla alla rete ci trasformiamo in un regime autoritario. Solo in paesi come la Cina, la Corea del Nord questo può avvenire. La ricchezza della rete sta proprio nel fatto che non sindaca sui contenuti”. E conclude: “Nella rete devono valere le stesse regole che ci sono nella vita reale, non ne servono altre. La verità è che tutto ciò che di brutto si vede sul web non è più confinato e può uscire alla luce del sole. Ma per rispondere ai problemi profondi è necessario che ci sia un cambiamento umanosenza mortificare la realtà”.

Nicola Lagioia

Il punto di vista di Nicola Lagioia chiude il dibattito: “Nelle redazioni dei quotidiani vigono delle regole stupide: è incredibile pensare ancora che per scrivere di cultura bisogna ‘stare sul pezzo’”. Per interesse dei quotidiani prima dell’uscita di un romanzo l’autore viene intervistato o recensito ma questo comporta una perdita di riflessione a discapito della qualità. “Altra cosa che non capisco- continua Lagioia- è la gara a chi arriva prima sulla recensione: l’agenda dei capiredattori è più importante dei contenuti”. Nell’ultima riflessione cita Pasolini: “Molti si lamentano del fatto che oggi manca una figura come quella di Pasolini. La realtà è che non manca Pasolini ma manca lo spazio su cui scrivere ciò che scriveva Pasolini. Nessun quotidiano oggi permette di esprimere opinioni diverse dalla linea del quotidiano stesso”.

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Urbino shakerata: la città ducale contagiata dall’Harlem Shake http://ifg.uniurb.it/2013/03/18/ducato-notizie-informazione/urbino-shakerata-la-citta-ducale-contagiata-dallharlem-shake/38921/ http://ifg.uniurb.it/2013/03/18/ducato-notizie-informazione/urbino-shakerata-la-citta-ducale-contagiata-dallharlem-shake/38921/#comments Mon, 18 Mar 2013 11:43:13 +0000 http://ifg.uniurb.it/?p=38921 [continua a leggere]]]> URBINO – Che Urbino sia la città italiana più social del 2013, lo conferma anche la presenza del virus dell’Harlem Shake che sta contagiando il web e il mondo intero.

Domani alle 14 piazza della Repubblica sarà invasa da 700 giovani – questo è il numero riportato dalla pagina Spotted: University of Urbino, che organizza l’evento – che balleranno sulle note di Harlem Shake di Baauer, con movimenti ritmici e ossessivi e travestiti nella maniera più fantasiosa possibile. Un’interessante contaminazione sul recentissimo fenomeno tra musica e ballo e il classico “flash mob”.

L’Harlem Shake è riuscito a soppiantare il tormentone coreano del Gangnam Style e imporsi come epidemia del web in questi primi mesi del 2013. E’ un’esibizione collettiva di rottura rispetto alla spenta routine quotidiana. La struttura è abbastanza fissa: in un luogo si ritrovano più persone, apparentemente inattive o intente a normali attività. E’ la musica hip-hop che dà il via e origina la rottura: vestiti in maniera eccentrica, alcuni cominciano a ballare scuotendosi, come attraversati da fili elettrici, e vengono seguiti da tutti gli altri, che si accodano alla danza. Il risultato è un video di 30 secondi che viene immesso nel circuito di Youtube.

Un’esperienza di rivitalizzazione della vita ordinaria attraverso la creatività, espressa in maniera trasgressiva, ovvero con l’esplodere della musica, del movimento e della stravaganza dell’abbigliamento. Questo è il senso del fenomeno che nasce in internet nel febbraio di quest’anno, quando Filthy Frank, uno studente di comunicazione di New York ha postato un video di 30 secondi di quattro uomini in tutina da super eroe che ballavano la canzone di Baauer. Anche se, in realtà, l’Harlem Shake è uno stile hip-hop dell’America degli anni ’90, caratterizzato dal tipo di musica che invita a scuotere le spalle (shakerare per l’appunto).

Ma solo nelle ultime settimane è esploso in maniera folle sul web: si parla di 40mila video visti collettivamente 175 milioni di volte.

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