Da Mineo a Roma, la prostituzione c’è ma non si dice / Video


Pubblicato il 20/04/2014                          


Al  Cara di Mineo le donne non si vedono. Escono la mattina presto, sotto lo sguardo dei militari armati che sostano davanti al centro di accoglienza richiedenti asilo e salgono sulle macchine parcheggiate lì davanti. Tornano la sera, quando ormai è buio. Alcune di loro non vanno molto lontano: vengono lasciate ai margini della strada statale Catania-Gela, poco distante dal Cara. Sono nigeriane, somale, eritree, donne sole costrette a vendere il proprio corpo per pochi spiccioli. Soldi che non restano nelle loro mani, ma vanno ad arricchire i loro sfruttatori.

Secondo Rocco Sciacca, responsabile dell’Ufficio sviluppo e del settore immigrazione del Consorzio Calatino che gestisce Mineo “la prostituzione è un fatto culturale, una cosa normale”.  Ma di normale c’è ben poco: non è normale che nel Cara non ci sia uno sportello antiviolenza e che l’unico della zona sia all’interno del palazzo comunale di Mineo, a 20 chilometri di distanza. E soprattutto non è normale che i minori stranieri ospiti nelle comunità della zona entrino nel centro per avere rapporti sessuali a pagamento con delle ragazzine, come denuncia un operatore che vuole rimanere anonimo: “Vengono a farsi una ‘scopata di gruppo’ e nessuno glielo impedisce”, racconta.

Una psicologa che ha seguito alcune richiedenti asilo provenienti da Mineo con problemi psichici e che vuole rimanere anonima racconta: “E’ difficile che una donna denunci. Sono state violentate tutti i giorni per anni durante il loro viaggio verso l’Italia. Alcune hanno le parti intime cucite”. Quando arrivano nel nostro Paese le cose non cambiano. “Sanno che essere donne significa vivere alle mercé degli uomini. Ci sono mamme che insegnano alle bambine come contrarre i muscoli durante uno stupro per sentire meno dolore”.

Sono tante le associazioni presenti sul territorio che si battono per la chiusura del Cara, dalla Rete Antirazzista di Catania, a Penelope, all’Arci. Nessuna però ha mai raccolto le denunce di queste donne. Parliamo con avvocati, medici, psicologi, operatori, mediatori culturali ma la risposta è sempre la stessa: “Si sa che c’è un giro di prostituzione, tutti lo sanno”. Ma nessuno fa niente. Alcuni hanno risposto: “Cos’altro può fare una donna senza soldi?”.

Gemma Marino dell’Associazione Astra, una delle poche che da anni denuncia la prostituzione nel centro e che cerca di aiutare come può queste donne portando loro cibo e coperte, afferma: “Perché gli interessi di tutti devono passare sempre sul corpo delle donne? Sono stata al Cara, le donne mi dicevano ‘help me, help me’. Non è un posto dove delle mamme con dei bambini possano stare. Una di loro ha una gamba di legno e dorme a terra con i suoi figli”.

Secondo un articolo pubblicato su Repubblica nel dicembre 2013 a firma di Alessandra Ziniti, le ragazze, alcune minorenni, si prostituiscono per cinque euro. A dirlo sarebbe stato un operatore della Comunità di Sant’Egidio che lavora nel Cara. Anche gli operatori, secondo questa testimonianza, avrebbero rapporti sessuali con queste giovani. La direzione e la Comunità di Sant’Egidio che gestisce alcuni servizi nel centro hanno smentito tutto, ma intanto la Procura di Caltagirone ha aperto un’inchiesta per sfruttamento della prostituzione.

Nel momento in cui scriviamo le indagini sono ancora in corso: il procuratore Francesco Giuseppe Puleio non ha voluto rispondere alle nostre domande. Già nel 2012 la Procura aveva indagato ma senza risultati. In quell’anno, solo nei primi tre mesi, sette donne del Cara avevano abortito all’ospedale di Caltagirone. Un numero elevato, secondo il medico Michele Giongrandi che aveva denunciato la situazione.

A gestire il traffico secondo la denuncia dell’operatore sarebbe una organizzazione criminale composta da migranti e personale del Cara. Nessuna pietà per le ragazze costrette a qualsiasi ora ad avere rapporti sessuali con chiunque. Alcuni pretenderebbero prestazioni gratuite in cambio di un lavoro a ore come domestica a casa di parenti o amici. Al Cara di Mineo lavorano 360 persone, molti hanno contratti di 14 ore settimanali e nessuna preparazione specifica.

Il centro è diventato una valvola di sfogo per la disoccupazione del territorio e la prima azienda della provincia. Un bacino elettorale assicurato per i politici della zona. Anna Aloisi, sindaco di Mineo, è anche la presidente del Consorzio Calatino Terra d’Accoglienza che gestisce il Cara. Lo Stato paga per il centro 50 milioni di euro all’anno, quasi 4 milioni di euro ogni mese.

Nella struttura ogni nazionalità ha il suo capo che organizza la vita all’interno del campo e la distribuzione dei posti letto nelle villette. “Per noi è più facile avere degli interlocutori, semplifica i passaggi”, afferma Sciacca.

Ma il Cara di Mineo non è l’unico centro dove le donne sono costrette a prostituirsi. Miraj (nome di fantasia), partita dall’Africa subsahariana, da nove mesi vive nel Cara di Castelnuovo di Porto, vicino Roma: “Viviamo ammucchiati in stanzoni. La notte le donne si prostituiscono anche davanti ai bambini, il più piccolo ha due mesi. Devono pagare ai trafficanti di esseri umani il costo del viaggio: prima di partire gli tagliano i capelli, le unghie, i peli pubici, prendono delle gocce del loro sangue e mettono tutto in un sacchetto, è un rito voodoo. Loro credono che se non restituiscono il debito capiterà qualcosa di terribile alla loro famiglia. La traversata può costare anche 20.000 euro, un rapporto sessuale 20”, racconta Miraj.

“Sognavo di fare la cuoca, ma non ci credo più”. I clienti italiani le aspettano davanti al centro e tutto avviene sotto gli occhi degli operatori. Neanche gli Sprar, sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, sono immuni dal fenomeno. Cristina Formica dell’Arci di Monterotondo racconta che alcune richiedenti asilo inserite nel progetto di protezione sono state avvicinate da connazionali che volevano farle prostituire. “La nostra è una realtà piccola, quindi cerchiamo di controllarle. Nei grandi centri questo non può avvenire”. E’ così che le donne, alcune con bambini frutto di violenze, restano completamente sole.

Intanto però, nel Cara è stato girato un documentario, “Io sono io e tu sei tu”, della regista Tiziana Bosco e finanziato dalla fondazione Integra. “Penso che sia il campo migliore d’Italia. Sono molto contento di essere qui, amo la vostra assistenza”, dicono i migranti davanti alle telecamere. Il documentario verrà trasmesso nelle scuole siciliane.

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