La storia di Antonio Verrecchia, il direttore di macchina della Savina Caylyn, sequestrata al largo della Somalia

“Io, sequestrato dai pirati”

Questa inchiesta è un progetto di fine corso dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino. Pubblicato il 19/04/2012

di Doriana Leonardo

 

 

 

A bordo di piccoli barchini a motore attaccano le navi mercantili che passano dal Corno d’Africa. Nessuna possibilità di fuga per gli enormi pachidermi dei mari, i motoscafi sono troppo veloci. I pirati seminudi, ma armati di tutto punto, sequestrano l’equipaggio, forse le scelgono a seconda dela nazionalità per chiedere una riscatto più alto per la loro liberazione. Poi saccheggiano le cabine e umiliano gli ostaggi con ogni tipo di violenza: li legano, li picchiano, per spaventarli sparano minacciosi colpi in aria. Proibita qualsiasi libertà, proibita la cura della persona, proibiti i contatti a casa e le telefonate. Per mesi e mesi solo fucili puntati e tanta paura, quella di non rivedere i propri cari e di morire vedendo l’odiata costa a trenta chilometri.

La Savina Caylyn è una delle tante navi sequestrate lungo le coste della Somalia, dove i pirati sono diventati i padroni del mare.  L’equipaggio di ventidue persone, cinque italiani e diciassette indiani, resta per undici mesi in ostaggio di una quarantina di pirati.
Antonio Verrecchia racconta la sua storia. Sessantatre anni, di Gaeta, era il direttore di macchina della nave e durante la prigionia ha subito violenze di ogni tipo.