“In Libia guadagno assicurato, fino allo scoppio della guerra”


Pubblicato il 7/04/2012                          
Tag: , , , , ,

Matteo Vannucci racconta la sua esperienza nel mercato libico, “scelto perché pensavamo fosse il paese più stabile al mondo, visti i 42 anni di dittatura”. Lo scoppio della guerra ha messo in grande difficoltà la sua piccola impresa di Macerata Feltria, Pascucci&Vannucci

Matteo Vannucci in piazza del Martiri, a Tripoli, pochi giorni dopo la morte di Gheddafi

MACERATA FELTRIA – Come si fanno affari in un paese con un regime di autocrazia militare come la Libia? “Tenendosi lontano dal Raìs e la sua famiglia, che con il loro smisurato potere possono ricattare chiunque”. Questa era la ricetta per lavorare in Libia della Pascucci&Vannucci, azienda di Macerata Feltria con una lunga esperienza nel mercato libico.

La sua prima volta nello stato nordafricano precede il colpo di stato di Muammar Gheddafi: è sbarcata in Libia nel ’68, per poi tornare negli anni ’80 fino al 2006 e di nuovo nel 2008.

MAPPA: le costruzioni della Pascucci&Vannucci in Libia

Dormitori universitari, ospedali, ma anche forniture (soprattutto scolastiche e sanitarie): questi i lavori che l’azienda ha realizzato nel paese di Gheddafi. E la lista doveva proseguire. Insieme a una serie di progetti di costruzioni civili già approvati, pochi mesi prima dello scoppio della guerra, la Pascucci&Vannucci aveva iniziato i lavori per la ristrutturazione e l’ampliamento dell’ospedale di Zauia, città a 50 chilometri da Tripoli. Un lavoro ancora bloccato che ha messo in seria difficoltà l’azienda. A raccontare la sua esperienza nel mercato libico è Matteo Vannucci, titolare della Pascucci&Vannucci insieme al padre e ai due fratelli.

I lavori per l’ospedale di Zauia sono iniziati a novembre 2010 e sono stati abbandonati a causa della guerra a febbraio 2011. Che conseguenze ha avuto per la vostra azienda?
“Non avendo incassato alcun anticipo sui lavori, abbiamo accumulato un debito enorme con i fornitori italiani e stiamo facendo i salti mortali per andare avanti, vendendo e ipotecando tutto. Dovevamo depositare delle fidejussioni per avere l’anticipo del 15% del contratto che serviva per pagare i mezzi ma, nel momento in cui è scoppiata la rivolta, abbiamo avuto difficoltà a farle. I fornitori hanno capito la situazione ma loro hanno venduto i mezzi a noi, non in Libia”.

L'edificio dei tecnici che lavoravano all'ospedale di Zauia distrutto dai combattimenti

Quanto avete perso con questo fermo di più di un anno?
“Il danno è enorme soprattutto per gli interessi che paga il debito con i fornitori: anche se un giorno incasseremo, guadagneremo un decimo di quanto speravamo. La perdita fissa sono invece i 200mila euro di mezzi; un manitu, un muletto e un carrellone, rubati appena sbarcati al porto di Tripoli. Zauia è stata prima conquistata dai ribelli e poi ripresa da Gheddafi che non l’ha più mollata fino alla fine. La città era un punto strategico perché ha la raffineria più grande della Libia: alla fine le forze del regime si sono rifugiate dentro l’ospedale. Hanno preso anche i nostri mezzi lasciandoci un foglio con scritto che finita la guerra ci avrebbero risarcito. Ma la guerra non l’hanno vinta loro”.

Nel 2005 avete lasciato la Libia per investire principalmente in Italia, poi nel 2008 ci siete tornati. Perché questa scelta?
“Volevamo tornare all’estero e vedevamo la Libia come il paese più stabile al mondo, essendoci una dittatura da 42 anni. Tra l’altro, avendoci già lavorato, eravamo facilitati: siamo rientrati nel mercato senza difficoltà perché mio padre si era costruito un’ottima reputazione. Dal 2008 allo scoppio della guerra è stato infatti il periodo di attività più intensa: insieme all’ospedale, abbiamo progettato la costruzione di una libreria nel centro di Tripoli, un parcheggio al servizio dell’ospedale centrale cittadino e uno stadio di calcio fuori dalla città”.

Qual era la vostra formula per riuscire a lavorare in Libia?
“La filosofia che ci ha insegnato mio padre prevedeva una regola fondamentale: mai accettare lavori in cui è coinvolto Gheddafi o la sua famiglia. Loro sono troppo potenti e noi saremmo stati sempre ricattabili. E questo valeva ancor più per i suoi figli: troppo inaffidabili e lunatici, come bambini capricciosi ma più potenti di imperatori”.

Un manifesto a Tripoli, prima della guerra, celebrava il trattato d'amicizia Italia-Libia

Dopo la morte di Gheddafi, sui media si parla molto meno di Libia, eppure la situazione laggiù è ancora molto incerta.
“Diversi progetti avviati con Gheddafi sono stati confermati e rifinanziati, quindi c’è una continuità. Per esempio, il progetto di ricostruzione dell’ospedale di Zauia è semplicemente passato da una società a un’altra, cambiando capo, ma le persone sono rimaste le stesse. Però nella pratica si aspetta il nuovo governo per ripartire con i lavori, quindi è tutto bloccato”.

Com’era il mercato libico durante il regime?
“Molto particolare. In Libia si lavora solo per conoscenze: contano reputazione, affidabilità e rapporti personali. I libici vogliono parlare con la proprietà, non con gli amministratori delegati: a parte le grandi aziende come l’Eni, per le piccole e medie imprese sono i titolari che devono andare là a conoscere i clienti. I libici si considerano i migliori del Nord Africa: per loro gli egiziani e i tunisini sono la manovalanza. Noi italiani, almeno fino a prima della guerra, eravamo i loro preferiti tra gli europei, perché ci sentono culturalmente più vicini”.

La Libia quindi era un paese attraente per gli investimenti italiani, ma non sono così tante le nostre aziende che lavorano là. Quali sono le difficoltà più grandi per le imprese italiane?
“La burocrazia. Il nostro Governo prima ha incentivato gli investimenti là e poi, a noi piccole imprese, ci ha abbandonato. Dopo la guerra non ci è arrivato nessun aiuto concreto e chi resiste lo fa con mezzi propri. Il Governo ci ha spinto là con la firma del Trattato di amicizia senza poi tutelarci: ci sono ancora i soldi di Gheddafi e della sua famiglia in Italia, perché ci abbandonano così? Già un piccolo esempio di questo atteggiamento si è visto nel momento in cui per far rientrare in Italia i nostri tecnici bloccati all’aeroporto di Tripoli, appena scoppiata la guerra, ci siamo dovuti muovere da soli, perché per avere l’aiuto del Governo bisognava aspettare troppe lentezze burocratiche”.

La storia di Simone Santini, escavatorista in Libia

I festeggiamenti in piazza dei Martiri, a Tripoli, dopo la morte di Gheddafi

Come vede il futuro mercato libico?
“La Libia ha enormi potenzialità: è meglio di Dubai, perché ha la stessa ricchezza ma per soli 6 milioni di abitanti. Inoltre è più vicina all’Europa, si affaccia sul Mediterraneo, ha il deserto più bello del mondo e una costa lunga e incantevole, ma ancora non ha turismo. E neanche ne ha bisogno: solo con il gas e il petrolio potrebbe diventare il gioiello del Mediterraneo. Con il regime di Gheddafi, lo stipendio medio era quasi ai livelli italiani, ma con Gheddafi che assorbiva quasi l’80% delle ricchezze: se il nuovo governo trattenesse anche solo il 20%, ci sarebbe uno sviluppo straordinario. Gheddafi inoltre investiva male, perché l’unico scopo di una fornitura era arricchire chi la faceva: per esempio a noi chiedevano un numero di forniture di banchi di scuola esageratamente superiore agli studenti e alle necessità. C’è tutto un settore privato da sviluppare: con il nuovo governo, molti privati libici con conti in Svizzera o a Dubai potranno rientrare con i loro capitali e investirli, perché l’imprenditorialità non manca”.

L’intervista al direttore dell’Ice di Tripoli, Umberto Bonito

I commenti sono chiusi