A quarantasei anni dal terremoto la Farfalla del Belice non ha ancora spiccato il volo I padri arrivati dal paese vecchio e i figli cresciuti in quello nuovo spiegano perchè
Abitanti smarriti tra memoria e arte.”Siamo ospiti nella nostra città”
Piazze deserte e silenziose, strade vuote, macchine e motorini che si muovono sulle pedonalizzate. Una sfera bianca e rotonda, la “chiesa palla”, che domina la città. Gibellina Nuova, piccolo comune dell’entroterra siciliano rifondato con criteri moderni dopo il terremoto del Belìce, a quarantasei anni dal sisma è ancora alla ricerca di un’identità. Gli abitanti si muovono come estranei per il paese, non si siedono più a parlare davanti la porta di casa, hanno perso l’abitudine di passeggiare. Attraversano le piazze velocemente, quasi assoggettati dalla forza maestosa dei porticati o dalle immense strutture che caratterizzano la città-museo, confezionata per loro da urbanisti e architetti con una pianta che ha la forma di una farfalla.
Sotto la Stella di Consagra, diventata simbolo della ricostruzione, hanno vissuto due generazioni. I padri che, sopravvissuti al terremoto, nella nuova città hanno perso le loro abitudini. E i figli, cresciuti tra via Burri e via Quaroni, che da piccoli si addormentavano nelle baraccopoli ascoltando storie sulla vecchia Gibellina. Ma oggi, a 46 anni di distanza, nessuno si sente a casa in quella città artificiale. E la gente, in beffa a ogni progetto preconfezionato, si è inventata un paese alternativo.
IL TERREMOTO/I FILMATI ORIGINALI
A raccontarlo sono Ciccio ed Enza Ienna, Maria e Antonietta Verde e i loro figli, Gioacchino e Daniele, Michele Plaia e il figlio Nino. Che narrano la loro città attraverso i suoi luoghi simbolo: la chiesa, la piazza, le strade, il Cretto sotto cui Alberto Burri seppellì le macerie di Gibellina vecchia.
Ricostruita a 20 chilometri di distanza da quella vecchia, Gibellina Nuova è una città anglosassone popolata da siciliani. Quando alla fine degli anni ’70 i gibellinesi arrivarono nel nuovo centro, dopo dieci anni trascorsi nelle baraccopoli, si ritrovarono in un posto molto diverso da quello distrutto dal terremoto. Le strade erano larghe più di 20 metri, le case avevano un giardino che le allontanava dalla strada, le piazze non erano più al centro dell’abitato ma disseminate in giro per la città. La pianta urbana di Gibellina Nuova è totalmente diversa dalla città vecchia. Le strade non convergono verso un centro ma si disperdono, come spinte da una forza centrifuga. Le vie, così larghe, inibiscono i rapporti di vicinato. E le villette, progettate dagli architetti che vagheggiavano la città giardino, hanno cancellato l’usanza di sedersi davanti alla porta. Le abitudini sono cambiate per tutti. E se gli anziani dicono di essere ospiti della loro città, i giovani si sentono orfani di un modo di vivere che non hanno conosciuto. “Per noi non è stato facile abituarci – spiega Ciccio Ienna, ex ferroviere di 71 anni – io vivo qui da venticinque anni ma mi sentirò sempre un ospite. E’ una città troppo dispersiva, non c’era motivo di farla così grande”.
“Dispersiva” non è un termine usato soltanto da Ienna. Tutti gli abitanti definiscono così la loro città. Effettivamente la sua superficie è 10 volte più grande rispetto a quella del paese vecchio, ma la popolazione è rimasta praticamente la stessa. “I luoghi che nella mente degli urbanisti dovevano essere i nostri punti di ritrovo di fatto non lo sono”, racconta Daniele Balsamo, insegnante di 41 anni. Così i gibellinesi si sono arrangiati e hanno plasmato quel paese creato dagli architetti, cercando di piegarlo alle esigenze che si portavano dietro dalla città vecchia. Non si incontrano in piazza ma in una strada che in qualche modo riproduce il centro storico della città distrutta dal terremoto e usano le pedonalizzate come strade carrabili. I ragazzi, poi, hanno trasformato le enormi piazze deserte in campi da calcio improvvisati. Coppola in testa e bastone in mano, gli anziani di Gibellina Nuova si ritrovano in via Indipendenza, a due passi dalla piazza del municipio, deserta. I circoli della vecchia Gibellina sono stati trasferiti in quelli che dovevano essere appartamenti. E la vita collettiva si svolge lì, tra un divano, qualche sedia e una tv accesa. “Non c’è motivo di andare nella piazze – spiega Ciccio Ienna – Lì non ci sono negozi né bar.” Se gli anziani snobbano le piazze e preferiscono sedersi a scambiare due chiacchiere sul divano del circolo, i giovani vanno a passeggiare nel corso della vicina Alcamo oppure si vedono al bar di via Indipendenza, a pochi metri dal circolo. La sera le piazze diventano ancora più belle e suggestive, le opere d’arte si illuminano. Ma la loro bellezza è solitaria: non ci sono i ragazzi, non ci sono gli anziani, né tanto meno le famiglie. E la situazione non cambia neppure nel fine settimana, quando il silenzio viene interrotto dal rumore dei motorini o dalle risate dei ragazzini che in comitiva si muovono verso la sala giochi più vicina.
Gibellina non è solo una città costruita con modelli nordeuropei. In ogni angolo delle sue strade si trovano anche capolavori d’arte contemporanea di fama internazionale. Secondo il sindaco di allora, Ludovico Corrao, l’arte avrebbe dovuto dare una nuova identità a questa città senza passato. “Quando abbiamo visto spuntare questi pupi – racconta Michele Plaia, agricoltore in pensione di 75 anni – pensavamo che fossero delle cose inutili. Venivano i turisti e ci chiedevano cosa fossero ma noi non lo sapevamo.” “Corrao ha voluto questa città e in molti non l’hanno capita – gli fa eco il figlio Nino, una voce fuori dal coro – ma questa è la nostra città. Mia ma anche di mio padre.”
Anche la chiesa edificata dopo il terremoto ha modificato il modo di vivere dei gibellinesi. Il paese ha riavuto un luogo di culto solo quattro anni fa, dopo quarant’anni di attesa. E se nella città vecchia di chiese ce ne erano sette, una per ogni congregazione, in quella nuova ce ne sono solo due: San Giuseppe, costruita dalla congregazione più ricca, e la chiesa Madre, progettata da Ludovico Quaroni e finanziata dalla regione. Gli abitanti l’hanno subito ribattezzata la “chiesa palla”, per la sfera bianca che la sormonta. La domenica vanno tutti a messa lì. Ma la chiesa Madre si trova nella parte più alta della città, lontana dalle case, dalla piazza del comune e da via Indipendenza. Così anche l’abitudine di andare a piedi a messa si è perduta. E Ogni domenica le strade che circondano la cattedrale si riempiono di auto. “Le macchine sono più delle persone”, racconta Ciccio Ienna, che ricorda ancora con rimpianto la gente che a Gibellina vecchia riempiva il corso principale del paese per andare a piedi in chiesa la domenica. “Corso Vittorio era talmente pieno di gente che le donne – continua Ienna- passavano da una strada secondaria.”
La nostalgia per il passato, sempre presente in paese, sfiora soltanto il Cretto di Alberto Burri,una colata di cemento che ha coperto la vecchia Gibellina. L’opera di Land art, costruita nel 1989, ancora oggi divide la popolazione tra chi non l’ha mai accettata e chi la vede come una tomba della città distrutta. “ Noi giovani non possiamo capire cosa provano quelli che ci hanno vissuto”, spiega Daniele Balsamo, insegnante di 41 anni. La nuova generazione frequenta poco il Cretto e la maggior parte ne parla più come di un luogo turistico che non di memoria. Gibellina è una città senza un centro, un enorme labirinto senz’anima. Quando gli urbanisti ne disegnarono il progetto parlavano di una città a forma di farfalla. A distanza di molti anni gli abitanti della vecchia e della nuova generazione raccontano come quella farfalla è rimasta soffocata dalle sue stesse ali.