La pena di morte: crimine di Stato?

dossier a cura di Laura Cuppini
Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino

   
   
   
 

Il caso degli Stati Uniti

   
  "I politici creano con la pena di morte l’illusione che qualcosa viene fatto per il crimine, o che in qualche modo le persone ‘cattive’ sono messe al sicuro e che la comunità può così stare tranquilla, ma la verità è che i peggiori non muoiono nel braccio della morte, solo i più poveri lo fanno. I peggiori ricevono l’ergastolo o, se hanno molti soldi, non vengono giudicati colpevoli. I poveri sono in genere malati di mente o i ritardati, o i giovani criminali. […] Spesso hanno subito violenze sessuali nell’infanzia, hanno problemi di droga o alcool". A dirlo non è un qualunque attivista per i diritti umani, ma Melodee Smith, avvocata americana esperta in questioni riguardanti la pena di morte, nonché consulente spirituale dei condannati, come la più famosa Helen Prejean, ispiratrice del film "Dead man walking".

Il caso degli Stati Uniti è uno dei più eclatanti, insieme a quello della Cina, dove ogni anno il numero delle esecuzioni supera il totale di quelle verificatesi in tutti gli altri paesi e dove si può essere condannati a morte anche per reati assai lievi (furti, incendi ecc.). La pena di morte viene utilizzata in 38 Stati e è prevista nelle leggi federali civili e militari (queste ultime la contemplano per oltre 60 reati). La pena capitale fu reintrodotta nel 1976; da allora sono state eseguite oltre 500 condanne a morte, con una media, negli ultimi anni, di un’esecuzione ogni 5 giorni. Negli Stati Uniti la condanna a morte viene riservata a chi si è macchiato di uno o più omicidi, secondo la legge del taglione: "chi uccide deve morire". Il metodo più usato in assoluto è quello dell’iniezione letale; a seguire sedia elettrica, camera a gas, impiccagione, fucilazione.

Ma non basta. Perché, pur tralasciando l’assoluta incompatibilità tra il ruolo internazionale degli Stati Uniti e il mantenimento di una pratica come quella della pena di morte (per non parlare di varie forme di tortura nelle carceri), c’è un altro fatto gravissimo: a legge non è uguale per tutti. Le statistiche (fonte Amnesty International): il 42% dei condannati a morte negli Stati Uniti sono neri, nonostante il fatto che essi costituiscano solo il 12% della popolazione; l’82% dei giustiziati erano colpevoli di aver ucciso un bianco, nonostante il fatto che bianchi e neri vengano uccisi in ugual misura; un imputato afro-americano ha 4 probabilità in più di un imputato bianco di ricevere una condanna a morte, e le probabilità salgono a 11 se la vittima è un bianco. Nel 1998 Bacre Waly Ndiaye, relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie scrive nel proprio rapporto che la discriminazione razziale nell’imposizione delle condanne a morte è particolarmente grave negli Stati meridionali, come Alabama, Florida, Georgia, Louisiana, Mississipi e Texas (il Texas è lo Stato che conta più esecuzioni).

Legata alla discriminazione razziale c’è naturalmente quella economica. Chi ha soldi, come spiega l’avvocata Smith nella dichiarazione riportata in apertura di pagina, può permettersi un buon avvocato difensore ed ha buone probabilità di salvarsi; i poveri devono accontentarsi di un avvocato fornito loro dallo Stato, che spesso si rivelano assolutamente incapaci o demotivati a difendere il proprio cliente, anche per la bassissima retribuzione che ne ricevono. La normativa statunitense impone un limite di tempo per la presentazione di nuove prove dopo la prima sentenza, quindi la competenza e la tempestività dell’avvocato difensore possono decidere davvero della vita di un uomo. Basti un solo esempio: Calvin Burdine, omosessuale dichiarato condannato a morte nel 1984 dallo stato del Texas per l’omicidio di un uomo che lo sottoponeva ad abusi di ogni genere, è stato ‘difeso’ al processo da Joe Frank Cannon, un legale d’ufficio che aveva più volte insultato gli omosessuali pubblicamente. Se non bastasse, durante il processo Cannon si addormentò più volte e non presentò alcuna circostanza attenuante. A questo si aggiunga che la pubblica accusa gode di piena discrezionalità nel richiedere o meno che un omicidio sia punito con la pena di morte, non esistendo standard né a livello statale né a livello federale.

Negli Stati Uniti vengono condannati a morte anche i malati di mente, in contrasto con la risoluzione 1989/64 del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Nel 1986 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che la pena di morte non può essere inflitta ai malati di mente, senza per altro individuare alcuna procedura per stabilire la sanità mentale dei condannati. Nel 1989 la stessa Corte Suprema ha stabilito che l’uso della pena di morte nei confronti di ritardati mentali non viola la Costituzione degli Stati Uniti. Cosa altrettanto o ancora più grave: può essere condannato a morte chi ha commesso il reato quando era minorenne (questo accade anche in altri paesi: Arabia Saudita, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Yemen).

Negli ultimi anni la situazione per i condannati a morte è ulteriormente peggiorata. Nel 1995 il Congresso ha deciso un taglio drastico ai fondi assegnati alle organizzazioni di avvocati fondate allo scopo di garantire una difesa legale adeguata ai condannati a morte nella fase degli appelli statali e federali. Il taglio dei fondi ha portato alla scomparsa di tali organizzazioni. L’anno successivo il presidente Clinton, fervido sostenitore della pena di morte (lo scorso febbraio ha respinto tutti gli appelli per l’avvio di una moratoria delle esecuzioni negli Stati Uniti), ha firmato una legge anti-terrorismo, limitando notevolmente le possibilità di ottenere un riesame della condanna a livello federale: i condannati possono presentare un solo ricorso entro un anno dalla conclusione del primo processo.

Vista la relativa facilità con cui si arriva a una condanna a morte, si pone il problema del rischio di giustiziare degli innocenti. Secondo un importante studio almeno 23 innocenti sarebbero stati giustiziati negli Stati Uniti fino al 1984 (cfr. Hugo Adam Bedau and Michael L. Radelet, Miscarriages of justice in potentially capital cases, Stanford Law Review, 1987 e In spite of innocence, Northeastern University Press. Nel 1993 il sottocomitato per i diritti civili e costituzionali del Congresso statunitense ha dichiarato in una relazione che il rischio di giustiziare innocenti è presente e dovuto a difese legali inadeguate, pregiudizi razziali, scorrettezze da parte dell’accusa o presentazione di prove false. In molti casi, per accelerare l’iter delle condanne a morte, si elimina il passaggio della revisione delle condanne a morte sulla base del test del Dna.

Innegabilmente, la condanna a morte è una forma di condanna fisica e psicologica. I condannati trascorrono anni nel braccio della morte; l’annuncio dell’esecuzione può avvenire pochi minuti prima. Nessuno dei metodi usati garantisce una morte indolore:

  • iniezione letale, adottata per la prima volta nel 1977 da Oklahoma e Texas; si tratta di una somministrazione per via endovenosa di una dose letale di un barbiturico ad azione rapida in combinazione con agente chimico paralizzante. L’iniezione letale è stata recentemente adottata anche da altri paesi: Cina, Guatemala, Taiwan e Filippine.
  • sedia elettrica, introdotta nel 1888; al condannato vengono applicati degli elettrodi alla testa e alle gambe. Potenti scariche elettriche causano la morte per arresto cardiaco e paralisi respiratoria. Nel 1997, dopo un’esecuzione particolarmente cruenta avvenuta in Florida, è stata messa in dubbio la costituzionalità di questo strumento di morte, ma la Corte Suprema della Florida ha dichiarato che l’uso della sedia elettrica è perfettamente in linea con i principi costituzionali.
  • camera a gas; il condannato viene chiuso in una stanza che viene riempita di gas cianuro. L’ultima esecuzione è stata compiuta nel marzo 1999 in Arizona: l’agonia del condannato è durata 18 minuti.
  • impiccagione, usata attualmente solo in Delaware e nello Stato di Washington. L’ultima esecuzione risale al 1996, in Delaware.
  • fucilazione, ancora usata nello Utah e nell’Idaho con un plotone di 5 uomini. L’ultima esecuzione risale al 1996 nello Utah.

Ma gli americani vogliono davvero la pena di morte? A sentire alcuni politici, sì, ma viene il dubbio che questo messaggio sia diffuso forzatamente per fini politici. Sondaggi alla mano.

  • 1992, referendum nel distretto di Columbia per la reintroduzione della pena di morte: oltre il 60% degli elettori ha votato no.
  • 1993, sondaggio commissionato da alcuni membri dei due partiti democratico e repubblicano: più del 50% degli interpellati si è detto favorevole all’uso di pene alternative (ergastolo senza possibilità di rilascio condizionale e obbligo di risarcimento).
  • 1998, sondaggio nello Stato di New York pubblicato dal New York Post (27 marzo ’98): il 48% della popolazione preferirebbe il carcere a vita senza possibilità di rilascio condizionale; il 38% si è detto favorevole alla pena di morte.

Per un’esecuzione capitale si spendono fino a 6 milioni di dollari; una condanna a 40 anni di carcere costa 600.000 dollari. Chiudiamo come abbiamo cominciato, con una frase di Melodee Smith. "Da un punto di vista storico, il partito democratico al potere è stato responsabile del più alto incremento nelle esecuzioni. I repubblicani, invece, hanno una posizione interessante. Loro sono molto attenti alle spese. […] Di solito io dico che la pena di morte ruba alla gente, ai poveri, ai vecchi e ai bambini i soldi del loro welfare. Dunque i repubblicani, sebbene siano a favore di più stretti controlli sul crimine e delle prigioni piene, possono trovare una via d’uscita dalla pena di morte guardando ai costi. E’ vergognoso, ma è così".

 
   
 



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