Rose rosse e quotidiani, difficile il mestiere della sopravvivenza


Pubblicato il 15/04/2012                          
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Senza nemmeno più guardare, seduti con gli amici al tavolo di un bar, scacciamo con un gesto annoiato l’offerta gentile di un fiore. Quel che accomuna i bambini che vendono le rose nelle piazze palermitane con gli ambulanti torinesi è la loro terra d’origine: il Bangladesh, un paese asiatico grande poco più della Grecia, che con 153 milioni di abitanti è uno dei dieci stati più densamente popolati al mondo. Con uno sbrigativo “no grazie”, i cittadini torinesi liquidano gli ambulanti: tutti esclusivamente uomini, carnagione olivastra, età indefinita, di poche parole. Quasi nessuno di loro parla italiano. Sono di religione musulmana, arrivano in Italia seguendo l’esperienza di parenti e conoscenti, per lavorare.

Pochissimi riescono a guadagnare quel che serve a mantenere qui la loro famiglia, così mandano a casa tutti i soldi che riescono a mettere da parte: i trasferimenti di denaro dall’estero sono una delle principali fonti di sostentamento dell’economia del Bangladesh. Una realtà silenziosa, invisibile, sconosciuta alle tradizionali strutture di accoglienza e alle cronache cittadine. Molto difficile trovare una notizia su di cittadino bengalese coinvolto in fatti di cronaca. Non spacciano, non rubano, non vendono merce falsa, hanno i documenti in regola. Non bevono nemmeno, sono musulmani. Non se ne sente mai parlare, eppure la comunità bengalese negli ultimi dieci anni non ha mai smesso di crescere.

Rose rosse Vendere le rose è un mestiere ingrato: freddo d’inverno e chilometri a piedi ogni notte per guadagnare non più di qualche centinaio di euro al mese. Ma gli ultimi arrivati devono accontentarsi del lavoro più umile. Mohammed racconta che fino a poco tempo fa era uno di quelli che si occupava di andare a comperare le rose per tutti. Ora, dice, non lo fa più, è qui da qualche anno ormai e vuole trovare un impiego migliore. Le rose arrivano dall’Olanda il martedì e il sabato all’alba. La ditta che se ne occupa è la Marco Anfossi, una piccola società a conduzione familiare che ha sede in corso Brescia, una delle zone più “difficili” della città. “Io andavo lì con altri tre, quattro amici e ognuno di noi comperava anche venti, trenta mazzi di rose per volta.

Un mazzo, venti rose, dodici euro al mazzo. Sono 60 centesimi a rosa, e poi le rivendo agli altri che lavorano la sera”. Su un mazzo, Mohammed dice di non riuscire a guadagnare nemmeno due euro. Per portare a casa qualche cosa in più, i suoi amici dovranno sperare in una serata fortunata. C’è anche chi ha litigato con i “grossisti” e va da solo a comperare i fiori nel nuovo mercato all’ingrosso di via Grosseto. “Anche qui a volte viene qualcuno di loro – racconta uno degli espositori – comprano le rose di scarto, le pagano trenta, quaranta centesimi, a volte gliele diamo anche gratis, invece di buttarle. Io glielo dico, perché venite qui? Poveracci, devono mangiare anche loro”.

Strilloni moderni “Loro” sono Hossain, Hasan, Kabir, Sahin. Tanti sono “strilloni moderni”: un altro piccolo monopolio bengalese è la vendita dei giornali sportello a sportello. Il quotidiano torinese La Stampa è uno degli ultimi che si può acquistare restando comodamente seduti al volante della propria automobile. Con la crisi gli addetti sono diventati una trentina, negli anni passati erano un po’ di più: ogni giorno la comunità bengalese porta sul territorio circa 2 mila 500 copie del giornale, con un sensibile aumento la domenica, quando le edicole sono chiuse. Sveglia alle cinque e non si stacca prima di mezzogiorno. Con la neve o sotto la pioggia, nei principali incroci delle periferie torinesi, un pacco di giornali sotto braccio, un giaccone pesante in inverno, una pettorina arancione d’estate. “Sono tutti bengalesi – spiega Walter, occhi chiari, un bel sorriso e un’esperienza decennale sul campo – sono affidabili, ci siamo sempre trovati bene a lavorare con loro”.

E’ lui che recluta i venditori, assegna i posti e pensa al loro compenso: un fisso di 7 euro al giorno e il 23 per cento su ogni copia venduta, poco meno di 30 centesimi. “Il numero varia molto da zona a zona, per questo per non fare torto a nessuno organizzo i turni in modo da farli ruotare tutte le settimane. In media si parla di 50 – 80 giornali, che in alcuni casi possono anche superare il centinaio”. Un contratto di collaborazione occasionale che, a conti fatti, può fruttare fino a 600 euro al mese.  “Non è molto, ma almeno è un posto sicuro, che permette di rinnovare il permesso di soggiorno senza problemi. Proprio questa mattina ho parlato con un ragazzo che aveva già lavorato per me. Aveva trovato un posto in una fabbrica di mobili a Chieri, ma poi la ditta ha chiuso e lo hanno licenziato. Tornerà qui”.

Foto di Mauro Talamonti

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