Il supermercato costa tre volte meno, ma i celiaci italiani fanno la spesa in farmacia
Pubblicato il 14/04/2014
Un italiano su cento dovrebbe fare spesa in farmacia. È il destino dei malati di celiachia, un’intolleranza alimentare che come unica cura ha l’eliminazione dalla propria dieta di pasta, pane e di tutti i prodotti dove sono presenti farine di frumento, avena, farro e altri cereali. Secondo i dati del Ministero della Salute in Italia sono 600.000 i celiaci, ma solo 150.000 sono stati effettivamente diagnosticati. Il sistema sanitario dà al malato un buono mensile di circa cento euro per comprare i costosi alimenti senza glutine nei negozi convenzionati e nelle farmacie. La crescita vertiginosa di pazienti celiaci (+10 per cento ogni anno) spinge i grandi marchi a sfornare nuovi prodotti. Ma è un mercato viziato.
Un pacco di farina gluten free, che al supermercato costa due-tre euro, in farmacia e nei negozi convenzionati può arrivare a costarne anche sette. Un rincaro del prezzo che varia in base al canale di distribuzione. Come è possibile che le farmacie e i negozi convenzionati restino il canale preferenziale di vendita, nonostante i costi stellari? La risposta risiede nel sistema di rimborsi statali. Infatti in Italia sono ancora pochi i supermercati e ipermercati che accettano i buoni del Servizio sanitario nazionale per i prodotti senza glutine, vincolando così la spesa del buono soprattutto nelle farmacie e nei negozi specializzati.
Se da un lato la “mutuabilità” dei prodotti serve al celiaco per affrontare i costi di un’alimentazione senza glutine, dall’altro ingessa il mercato e rende poco profittevole per la grande distribuzione accettare i buoni. Le aziende impongono un prezzo ai prodotti e in base a questo le Aziende sanitarie locali rimborsano farmacisti e negozianti. Il farmacista si trova di fronte a un guadagno limitato e non può, a meno che non decida di rimetterci, abbassare il prezzo in modo significativo. Inoltre la lunga trafila burocratica, i ritardi nei pagamenti del servizio sanitario e la facile deperibilità degli alimenti scoraggiano la grande distribuzione che, a parte casi isolati, ha deciso di non dotarsi della “mutuabilità”.
“Il farmacista deve fatturare il prezzo imposto. Il margine di guadagno per noi è molto limitato e varia dal 25 al 30 per cento del prezzo di vendita”, spiega Cesare De Silvestri, direttore della farmacia comunale dell’Aquila: “In questo tipo di commercio si sopravvive solo se si hanno altre entrate o se si ha una clientela già fidelizzata”. Un altro problema risiede nelle qualità dei prodotti. Gli alimenti senza glutine hanno infatti una scadenza molto breve e le ditte impongono un ordine minimo. Per i negozi più piccoli diventa quindi difficile mantenere un assortimento vario. Anche i rimborsi dal sistema sanitario sono un ostacolo difficile da sormontare. I farmacisti e i negozi specializzati spesso ricevono pagamenti anche con sei mesi di ritardo, inoltre le aziende sanitarie pretendono dai venditori uno sconto del sette per cento.
“Il problema – continua De Silvestri – è alla radice del sistema. Quando c’è la mutabilità del prodotto, il prezzo non può essere contrattato”. Negozianti e farmacisti puntano il dito contro lo Stato che se da un lato mette mano al portafogli sborsando circa cento euro al mese per garantire al celiaco un minimo di copertura, dall’altro non fa niente per contenere il costo degli alimenti gluten free. Ma il Ministero della Salute non ha l’autorità per influenzare i prezzi decisi dalle aziende del settore, può solo vigilare sulla sicurezza della filiera produttiva che a oggi ha garantito all’Italia il primato in Europa nel mercato del senza glutine. Anche perché a parte la Norvegia, tra gli altri paesi dell’Unione europea nessuno Stato garantisce un così cospicuo aiuto ai celiaci.
Nel 2012, secondo uno studio dell’Associazione italiana celiachia, il mercato del senza glutine in Italia si aggirava intorno a 237 milioni di euro registrando un aumento del 6,4 per cento rispetto all’anno precedente. Il giro d’affari delle farmacie supera il 74 per cento di questa somma, ossia 176 milioni, mentre il restante 25,7 per cento appartiene alla grande distribuzione. Grazie al decreto Veronesi del 2001, le Regioni hanno la facoltà di allargare la spendibilità dei buoni anche alla grande distribuzione. Ma in più di un decennio, solo 11 hanno deciso di aprire alla grande distribuzione e a parte qualche eccezione come Emilia Romagna e Toscana, dove questo è avvenuto sono ancora pochissimi i supermercati dove è possibile spendere il buono.
Alessandro, proprietario di una catena di negozi specializzati nel senza glutine e blogger di rilievo nel settore del ha le idee chiare: “La grande distribuzione non ha l’interesse a rendere mutuabili i suoi prodotti senza glutine sia a causa dei costi e dei ritardi nei rimborsi, sia per la finalità che si propongono. Mentre al farmacista interessa attirare il celiaco, alle grandi catene interessa dare un servizio in più al malato offrendogli prodotti per celiaci e attirando di conseguenza anche il resto dei familiari”.
Una battaglia quella tra grande distribuzione e farmacie che molte ditte aggirano diversificando la produzione in base ai canali di distribuzione. Con una confezione diversa e un prezzo spesso inferiore, i grandi marchi ampliano il loro mercato anche nei supermercati. Secondo uno studio dell’ Osservatorio sulla qualità della vita della celiachia, la differenza di prezzo per l’acquisto dello stesso paniere di 12 prodotti nei due canali di distribuzione è in media di 20 euro. Una famiglia spende per gli stessi prodotti 39,53 euro nei supermercati e 60,25 nelle farmacie.
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