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"la terra del rimorso": il caso di Maria

Un caso esemplare: Maria di Nardò. Tra i casi analizzati dall'équipe, il caso di Maria di Nardò (nella foto) appare particolarmente esemplificativo dell'origine del fenomeno del tarantolismo. Maria, spiega De Martino, era una raccogltrice di tabacco e spigolatrice. Rimasta orfana di padre all'età di 9 anni, trascorse un'infanzia piuttosto infelice e in angustie. A 18 anni si era innamorata di un giovane ma per ragioni economiche la famiglia di lui si era opposta al matrimonio e il giovane l'aveva lasciata. Ecco, allora, che "una domenica a mezzogiorno fu morsa dalla tarantola mentre era alla finestra e fu costretta aballare". Frattanto una donna aveva ritenuto che Maria potesse essere la sposa ideale per suo figlio e cominciò ad avanzare profferte la cui risposta veniva puntualmente differita dalla giovane. Un giorno ebbe una visione: San Paolo che le comandava di non sposrasi. Ma la donna non demordeva e un giorno fece condurre Maria fino a una masseria dove, per affrettare il matrimonio, le propose di scappare col figlio e convivere more uxorio per qualche tempo. Maria accettò, anche se di mala voglia. Un giorno, dopo una lite col marito, incontrò per strada i Santi Pietro e Paolo che le ingiunsero di seguirla. Era passato un anno esatto dal primo incontro con San Paolo, stesso luogo e stessa ora. Dopo aver pagato per tre giorni per i campi, Maria tornò infine dal marito e San Paolo, per punirla di aver contravvenuto ai suoi ordini, la fece mordere una seconda volta dalla tarantola, costringendola a ballare per nove giorni. Intanto tutti vennero a sapere della convivenza e per riparare si resero necessarie le nozze. Ed ecco come conclude il racconto De Martino: "Maria consentì alle noze col marito [...] ma al tempo stesso mantenne il suo rapporto stagionale con la taranta e col Santo, rinnovando crisi e balloo ogni anno, con spiccata elettività per i mesi caldi, per il periodo catameniale e per l'approssimarsi della festa di Galatina"

La spiegazione. Legando le coincidenze tra il manifestarsi della "malattia" e i momenti di massima crisi nella vita personale di Maria, De Martino tira alcune interessanti conclusioni. "Nell'orizzonte mitico rituale del tarantismo - scrive l'etnologo - Maria faceva periodicamente defluire le sue cariche conflittuali e realizzava in simbolo le sue frustrazioni, alleggerendo i periodi intercerimoniali, cioè la vita quotidiana, di un carico di sollecitazioni dell'inconscio che sarebbe stato estremamente pericoloso se non avesse trovato nel tarantismo un progetto socializzato e tradizionalizzato di trattamento calendariale e festivo". Attraverso l'ordine mitico della 'taranta', del 'veleno' e di San Paolo, Maria dava configurazione a contenuti psichici conflittuali e frustranei, e mediante l'ordine rituale della musica, della danza e dei colori raggiungeva quei contenuti secondo una posologia 'pro anno', che li evocava a tempo e luogo e li faceva comunicare col piano delle realizzazioni simboliche proposte dal mito". In breve: il rito della taranta opera come sublimazione delle frustrazioni di Maria di Nardò.

Conclusione. Anche gli altri casi analizzati diedero adito a conclusioni simili a quelle tirate per il caso di Maria. De Martino arriva quindi a concludere che il tarantismo era "un dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della cosicenza, e che operava nell'oscurità dell'inconscio rischiando di farsi valere come simbolo nevrotico, veniva evocato e configurato sul piano mitico-rituale, e su tale piano fatto defluire e e realizzato periodicamente, alleggerendo del peso delle sue sollecitazioni i periodi intercerimoniali e facilitando per qui periodi un relativo equilibrio psichico."

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