Federico
Caniato e Giovanna Ragaini, capi scout Agesci, raccontano la loro
esperienza
Perché gli scout hanno
deciso di fare un campo a Kolibe?
Pensato come sviluppo dei campi a Sarajevo, il campo a Kolibe nasce
come desiderio di affrontare i temi della pace e della non violenza
con l'esperienza concreta in un paese devastato dalla guerra.
Cosa fate, e quanto pensate
di essere utili?
La nostra presenza ha due diverse valenze: far sentire a loro che
non sono stati dimenticati e farci testimoni, in Italia, della loro
storia e della loro verità. Il nostro contributo si manifesta
in sgombero di macerie, aiuto nei campi, manovalanza e quanto altro
40 braccia possono fare, oltre all'animazione per i bambini.
Com’è il rapporto
della gente di Kolibe con gli scout?
Nonostante il limite della lingua (pochi parlano un po' di tedesco
o d’inglese), l'accoglienza, che si manifesta in continua
offerta di cibo, è sempre decisamente calorosa, indipendentemente
da religione ed etnia.
Primo giorno: qual è
stata la vostra impressione?
Il primo giorno, nell'agosto del 2001, noi due siamo arrivati nel
tardo pomeriggio direttamente dall'Italia, dopo un giorno intero
di viaggio, e non abbiamo trovato un paese, ma scheletri di case
distrutte lungo una stradina di campagna. Ad un certo punto abbiamo
trovato delle case abitate, e con qualche frase di tedesco abbiamo
chiesto dove si trovava la parrocchia. Ci hanno rimandato verso
le case distrutte, indicandoci l'unica con il tetto. Dopo essere
andati avanti e indietro un paio di volte, abbiamo così trovato
la casa del parroco, ma il cui seminterrato fungeva e funge tuttora
da chiesa. A fianco, le macerie della chiesa. Le sensazioni sono
state smarrimento e paura.
Avete
cambiato idea conoscendo meglio luoghi e persone?
Abbiamo scoperto una realtà travagliata ma ancora capace
di accogliere, un luogo immerso nel verde e abitato da persone semplici,
attaccate alla terra, desiderose soltanto di tornare nelle loro
case. I segni del passato, le macerie, sono stati negli anni coperti
dalla vegetazione, ma le mine e i proiettili inesplosi fanno sì
che solo piccole porzioni di terra siano state riconquistate dai
campi e dalle case. All'accoglienza di queste persone, si affianca
la gioia di vedere qualcuno che dalla ricca Italia viene a visitarli
nel loro sperduto paesino. Però ci sono bisogni concreti
molto forti: denaro, lavoro, sicurezza.
Un’immagine per raccontare
il paese.
Don Zeljko è sempre stato in Bosnia durante la guerra, scegliendo
di rimanere a fianco della sua gente. Dopo la guerra gli hanno affidato
una parrocchia da ricostruire. Quando la parrocchia è arrivata
a 400 famiglie, don Zeljko è venuto a Kolibe e ha ricominciato
da zero.
In due anni cosa è cambiato?
Nella parte croata è arrivata l'acqua corrente, che prima
c'era solo in quella musulmana. In molte case è arrivata
la luce (il telefono no, ma i cellulari funzionano), molte case
sono state ricostruite, la parte musulmana sembra quasi un paese
vero. La moschea è stata quasi ricostruita grazie ad una
donazione, mentre sono state sgombrate le macerie della chiesa e
si attende un donatore per ricostruirla. Alcune famiglie sono tornate
stabilmente, alcune vengono tutti i fine settimana.
L'atmosfera è sicura?
serena?
I mezzi della forza internazionale passano raramente, e alla stazione
dall'altro lato del fiume, in Croazia, si vedono i mezzi caricati
sui treni per ritornare al loro paese. Ma la serenità è
di facciata, si avvertono il senso di impotenza e la frustrazione
dei giovani.
Il paese ha un futuro o gli
mancherà sempre qualcosa?
La vita di oggi non è normale. Forse lo è per i croati
oltre il fiume: loro hanno di che vivere, possono comprarsi un'automobile
e, nelle vacanze, ricostruire la casa. Ma i musulmani,come gli anziani
croati, lottano ogni giorno per sopravvivere. Solo ricostruendo
il tessuto economicoè possibile dare una prospettiva e costruire
le basi perché si smorzino i conflitti.
Com'è la coesistenza
fra etnie? Riuscita convivenza, o semplice vicinanza?
Oggi la Bosnia è più che mai divisa, anche a Kolibe
ci sono muri altissimi fra le etnie. Croati e musulmani sono stati
entrambi vittime, ma fra loro la diffidenza resta tanta, anche se
le necessità quotidiane fanno sì che a volte venga
superata. I bambini musulmani, con cui giocavamo tutti i pomeriggi,
due anni fa non venivano fino alla parrocchia a cercarci; quest'anno
hanno superato il confine virtuale. Il parroco e l'imam non si erano
mai incontrati prima della nostra ultima sera a Kolibe quest'anno,
quando abbiamo voluto salutare entrambi e si sono scambiati i numeri
di telefono.
Vi sembra che col ricordo della
guerra si siano chiusi i conti? lo saranno?
Il ricordo è ancora troppo vivo. Admir, quando passa sul
ponte tra Bosnia e Croazia, ricorda quando lo attraversò
in bicicletta in mezzo ai colpi dei cannoni croati. Ma ne parla
come di qualcosa del passato. Chi non ne parla ha ancora molta strada
da fare.
|