Agnoli: “Delle biblioteche non amo i libri ma le persone”


Pubblicato il 10/04/2014                          
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Antonella Agnoli

Antonella Agnoli

Se chiudiamo gli occhi e proviamo a immaginare la parola “biblioteca”, sarà per consuetudine, ma tutti avremo davanti agli occhi un edificio, più o meno austero e imponente, dai soffitti alti, con le pareti piene di libri, un silenzio assordante e giovani e meno giovani chini sui libri. Non è così? Forse. Ma non per tutti. Perché Antonella Agnoli le biblioteche le vede in maniera diversa: aperte, luminose, multiservizi. Proprio come delle piazze:  non a caso lei le biblioteche le chiama “piazze del sapere”. Nella sua vita queste istituzioni hanno un ruolo centrale. O meglio nella sua vita le biblioteche sono entrate per caso un giorno degli anni Settanta quando lavorava in un comune del veneziano e da allora sono diventate la sua passione e il suo impegno. Direttrice per oltre vent’anni della biblioteca Spinea di Venezia, fondatrice della San Giovanni di Pesaro, è un’attenta studiosa del fenomeno delle biblioteche di pubblica lettura italiane. Motivo per cui è stata chiamata per consulenze in tutto il territorio nazionale, da Bolzano a Palermo. Sarà che di vedere biblioteche in edifici di risulta non ne può più ed è una delle persone con le idee più chiare su come una biblioteca dovrebbe essere  oggi e su come –auspicabilmente – sarà domani. Pena la sua scomparsa definitiva.

Cosa c’è che non va nelle biblioteche di pubblica lettura italiane oggi?
“Le nostre biblioteche, anche quelle di pubblica lettura e non solo quelle di conservazione, svolgono oggi delle funzioni molto limitate: sono grandi luoghi per lo studio soprattutto degli studenti universitari che arrivano lì con i loro libri. Di fatto più che biblioteche bisognerebbe chiamarle sale di studio. Invece per me – ma per fortuna non sono l’unica a pensarlo – le biblioteche dovrebbero essere delle ‘piazze del sapere’, come sono le public library europee. Luoghi più accoglienti, di inclusione sociale, in cui svolgere delle attività, in cui crescere insieme. Spazi che sono poi le evoluzioni della biblioteca pubblica, biblioteca che deve essere di suo, o meglio sarebbe dovuta essere da sempre, un luogo in cui vengono da una parte conservati i libri legati alla storia locale e i fondi storici, dall’altra vengono offerti dei servizi per tutti e non solo per gli studenti e per gli studiosi”.

E in Italia oggi non è così…
“No, basti pensare che le biblioteche di pubblica lettura non hanno neanche un nome definito. Vengono chiamate in maniera diversa e questo le rende vulnerabili. Certo poi ci sono esperienze che vanno in questa direzione. Ma non in maniera così significativa. Si sono diffusi, per esempio, negli anni dei servizi per bambini. Non dappertutto e comunque non in maniera così capillare. Spesso, però, si tratta solo di pochi libri messi su delle scaffalature magari alte e quindi non accessibili ai bambini ma ai loro genitori. Sono dei luoghi molto poco aperti, da tanti punti di vista, ma soprattutto concettualmente poco aperti”.

A proposito di apertura strutturale. Quanto influisce l’architettura e l’estetica nella fruizione di una biblioteca?
“Direi che l’architettura influisce abbastanza. Quando qualcuno decide di fondare e costruire una biblioteca, deve farsi delle domande: perché la voglio, di che taglia la voglio, dove la voglio mettere, cosa ci voglio mettere, quanti libri deve contenere, quali servizi voglio erogare. Il progetto di un nuovo luogo è qualcosa che costringe a riflettere sul tipo di edificio si intende creare. Ma consideri che questo modo di pensare – il fatto di essere consapevoli che per fare una biblioteca bisogna prima sapere cosa essa sia – è piuttosto recente in Italia. Dal momento che abbiamo molti edifici storici da recuperare, spesso li adibiamo a luoghi del sapere. Con il risultato che spesso non sono adatti: gli spazi non sono a piano terra, non sono luminosi, sono piccoli. Ma direi che questa è solo uno dei fattori che influisce sulla fruizione”.

Quale altro c’è?
“Ancora di più ha un ruolo fondamentale chi ci lavora all’interno. E non soltanto in termini di formazione. Bisogna cominciare a pensare che chi lavora in biblioteca non è un semplice impiegato comunale ma un operatore culturale. Oggi più che mai non si può credere che le competenze che si richiedono a un bibliotecario siano soltanto relative alla catalogazione o alla conoscenza dei libri antichi. Le abilità richieste sono molto più articolate e legate all’accoglienza: come far stare bene le persone, come gestire i conflitti che si determinano tra loro, come facilitare l’accesso alla conoscenza e all’informazione. Sono competenze molto più variegate e soprattutto devono tenere conto della capacità di relazionarsi con gli altri”.

Secondo la sua lettura dei dati, le biblioteche di pubblica letture italiane appaiono come luoghi anacronistici.
“Le nostre biblioteche se non si evolvono, se non si trasformano, sono destinate a non sopravvivere. Oppure possono sopravvivere solo per conservare ciò che possiedono. Io sostengo che chi legge va a cercare i suoi libri dove li trova facilmente e dove ha orari di accesso facilitati. Da questo punto di vista considerando il web e i libri elettronici non c’è competizione perché lì tutto è sempre a disposizione in qualsiasi momento tu lo voglia acquistare. Quindi sempre di più avremo la possibilità di accedere a patrimoni immensi digitalizzati. Ma c’è un fattore che sfugge ed è quello legato alle disponibilità economiche. La biblioteca è un luogo – oggi più che mai visti i tempi di crisi – che consente a chiunque di entrare in contatto con tutto quello che anche il web mette a disposizione. Ma non è detto che tutti abbiano Internet a casa, che lo sappiano usare nel modo giusto, che abbiano la banda larga”.

La politica nazionale riesce a incidere significativamente nel senso di una promozione della lettura?
“Non in maniera determinante. Il ministero per i Beni culturali ha istituito il Centro per il libro e per la lettura che dovrebbe agire con questo scopo ma in realtà, oltre all’incertezza del ruolo, non gli è stata data la possibilità di fare nulla perché non gli ha fornito soldi. Qualche iniziativa è partita, sì. Ma io penso che le campagne come la settimana del libro, il mese del libro, la giornata del libro rischiano di non avere molto successo se non si investe in infrastrutture. Rischiano di essere degli spot che non costruiscono un sistema complessivo. Dovrebbe esserci, invece, un atteggiamento differente nei confronti della cultura. Da noi il messaggio che è stato trasmesso in tutti questi anni è che non ha importanza studiare, faticare sui libri. Che puoi diventare qualcuno anche senza tutto questo. È un messaggio devastante”.

Siamo messi peggio degli altri paesi europei infatti.
“Beh, ma tutti i paesi stanno perdendo lettori, quindi secondo me andrebbe fatta un’indagine un po’ più sofisticata per capire se ci sono altri sistemi di lettura, cos’altro si legge. Di sicuro disponiamo di minor tempo rispetto a una volta. Certo noi abbiamo un peso in più: abbiamo avuto una tardiva scolarizzazione di massa, una tardiva alfabetizzazione. Nei paesi nordici la lettura è così diffusa perché sono paesi protestanti e la Bibbia è stato un libro letto da loro da secoli. Da noi invece era il parroco che ti portava il verbo non eri tu che lo leggevi. Non c’è dubbio che sul nostro paese influiscono anche tradizioni storiche, culturali e religiose”.

Ultima domanda. Ma forse avrebbe dovuto essere la prima. Da dove è nata la sua passione per le biblioteche?
“Ho iniziato per caso negli anni ’70 nel veneziano. Lavoravo in un comune e avevano deciso di mettere su una biblioteca e un centro culturale. A me è sempre piaciuto molto fare attività con la gente, creare socializzazione. E così casualmente è nata questa passione che ha coinciso, poi, con un impegno totalizzante. Ho diretto per 26 anni una biblioteca, la Spinea di Venezia, poi ho fondato la San Giovanni di Pesaro dove sono stata per 8 anni. A me le biblioteche interessano non perché contengono libri ma perché contengono persone. Mi piace l’idea di poter creare dei luoghi – non commerciali ma culturali – in cui le persone si sentano bene. Le persone sono portatrici di cultura, di esperienza, di storia. Quindi mi piace l’idea di creare dei luoghi dove le persone possano scambiarsi questi saperi”.

 

 

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