Dieci ettari di terreno in cui correre, ruderi dell’epoca romana tra i quali giocare a nascondino, l’Accademia dell’Imperatore Adriano ai propri piedi. Trascorrere l’infanzia a Villa Adriana può sembrare ‘un gioco’ divertente per un bambino. Ma crescerci dentro può rivelarsi ancora più illuminante. Francesca Bulgarini ha trentacinque anni e abita nell’Accademia, l’unica parte privata di Villa Adriana, insieme alla mamma Daniela e al fratello Andrea. Nel ‘cortile’ della sua casa, un tempo il giardino segreto dell’imperatore, ci sono i resti del tempio di Apollo, una sala circolare di 12 metri di cui è rimasta in piedi circa la metà, e le vestigia di portici e sale che formavano un tempo l’Accademia. Più a nord si trova l’Odeon, il teatro di Adriano oggi visibile solo in minima parte e, nel sottosuolo, il cosiddetto “Grande trapezio”, una specie di autostrada sotterranea con gallerie lunghe 4 chilometri. Coperte dalla vegetazione ci sarebbero anche le rovine di un acquedotto romano.
Francesca non vuole foto nè vuole farsi riprendere. “La mia famiglia è sempre stata riservata. Non ci piace apparire. Abbiamo sempre mantenuto una sorta di ‘pudore’ anche nei rapporti con gli altri”. Ma, a telecamera spenta, si lascia andare al racconto della sua vita dentro la villa, nella casa dove è cresciuta.
“Tutto quello che so sulla mia casa me l’ha insegnato mio padre, che prima di me l’ha abitata insieme alla sua famiglia”, racconta Francesca, che, dopo la scomparsa del papà, ha vissuto lì insieme alla mamma e al fratello. “Era un ‘babbo’ un po’ anziano, aveva quasi 60 anni quando sono nata– continua Francesca – ma è stato attraverso le sue storie che ho appreso qualcosa sul mio passato e sul passato della mia famiglia in questa zona”. È stato grazie ai racconti del papà che Francesca ha scoperto che la sua famiglia ha sempre posseduto il terreno dell’Accademia, che solo verso il 1700 i suoi avi si accorsero di aver costruito su quella che nei progetti di Adriano era la parte più nobile della villa.
“La zona è sempre stata dei Bulgarini – racconta Francesca – fu lavorando il terreno che trovarono i primi reperti. Era pieno. Poi monsignor Furietti, alto prelato della corte pontificia, scavando portò alla luce i Centauri, due statue proprio come quelle lì esposte sul mobile – afferma Francesca indicando due copie – gli originali si trovano ai Musei capitolini insieme al mosaico delle colombe, scoperto sempre qui”. E proprio a proposito dei mosaici, Francesca racconta: “Mio nonno e il mio bisnonno, quando lavoravano il terreno, trovavano tantissime tessere di mosaico. Quindi, cosa facevano? Le attaccavano su tutte le pareti che avevano a disposizione. In questo modo, togliendole dal terreno, le salvavano dall’umidità e riuscivano a conservarle”.
“Per me l’Accademia è casa. Ci sono cresciuta” – ASCOLTA L’AUDIO DI FRANCESCA
Se immaginare il giardino della propria casa con i muri tappezzati di mosaici è difficile, per Francesca vivere in un posto simile è del tutto naturale: “Le tessere dei mosaici sono come i milioni e milioni di sassolini di cui è piena Roma. Ancora oggi, scavando nella nostra campagna, si possono trovare tantissimi pezzettini di marmo romano. Sono sempre reperti che risalgono a 2000 anni fa ma non di valore. Non c’è nessun tesoro, insomma”. “Non abbiamo mai avuto l’interesse di metterci a scavare – spiega Francesca – sono state fatte delle campagne di scavo, coordinate dalla Soprintendenza dei beni archeologici del Lazio, la zona è stata studiata e i risultati di questi studi sono stati documentati. Ma, da parte nostra, non c’è mai stato interesse in questo senso”.
“Quando avevo 8-9 anni ho iniziato a far amicizia con i molti archeologi che venivano nella nostra proprietà per le campagne di scavo – racconta Francesca – ricordo che gli americani mi portavano sempre qualche regalo e io ero contentissima. Mi mettevo a scavare accanto a loro. Mi piaceva guardarli, mi piaceva l’idea che scavassero ma non avevo una cognizione di ciò che stavano facendo. C’era sempre un sacco di movimento, almeno 20-30 persone che gironzolavano lì intorno. Era simpatico per me che ero una bambina. Solo crescendo ho capito, ho realizzato di avere la fortuna di vivere in un posto unico al mondo”.
Ma vivere una vita normale in un contesto del tutto straordinario si può. Ed è quello che i Bulgarini hanno sempre cercato di fare. “Quando nasci e cresci in un posto simile non fai caso ai monumenti che ti circondano. Non riesci a dargli un valore. Per noi è sempre stata solo e semplicemente casa. Anzi, di più, una casa di campagna, in cui potevamo vivere in libertà e immersi nella natura”. Ed questo il ricordo che Francesca ha più vivo della sua infanzia: il contatto con la natura, sullo sfondo dei ruderi.
“Per me e mio fratello non esisteva un gioco scontato – racconta Francesca – avevamo a nostra disposizione uno spazio grandissimo. Ebbi il mio primo cavallo a 3 anni, a 5-6 anni giravo per la nostra proprietà con il mio piccolo calesse guidato dal pony. Capisci, non c’è niente di normale in questo (ride). Abbiamo costruito tutto un mondo nostro che poi ci siamo portati dietro anche da adulti e che a volte ci ha fatto sentire diversi rispetto agli altri”. Ma diversi non perchè avessero delle meraviglie storiche nel giardino di casa, diversi per il loro modo di essere ‘distanti’ dalla realtà. “Il nostro essere ‘isolati’ nella natura ci ha fatto crescere in un modo particolare. La prima cosa che ho imparato da piccola è stato scrivere i numeri ma l’ho imparato proprio grazie agli animali. A tre anni scrivevo i numeri sui pezzettini di carta, li attaccavo con lo scotch sulle lumache e gli facevo fare le gare. Ma le lumache me le portavo ovunque, me ne andavo in giro con il mio cestino pieno e una fissa me la mettevo sul campanellino della bici. Questi erano un po’ i nostri giochi. Oppure prendevamo i girini e seguivamo tutta la loro crescita. Poi da otto girini diventavano otto rospi e tutto il giardino si riempiva”.
I ricordi dell’infanzia si legano anche alla loro casa ‘antica’, costruita nel Seicento: “È una casa dagli spazi grandissimi. Quando le giornate si accorciavano ed eravamo costretti a rimanere dentro non ci annoiavamo mai – racconta Francesca – avevamo una stanza tutta per noi che avevamo soprannominato la ‘stanza dei giochi’: i miei genitori avevano tolto tutti i mobili e lì potevamo fare quello che volevamo, anche dipingere sui muri. C’era una moquette azzurra per terra che i miei avevano messo per farci stare caldi, avevamo i colori a tempera e gli acquerelli. Sembrava un sogno”.
Un sogno, quello di vivere in un luogo simile, che rischia di essere distrutto dalla prospettiva dell’esproprio. Secondo il Codice dei beni culturali (art. 196, capo VII): “Possono essere espropriati per causa di pubblica utilità edifici ed aree quando ciò sia necessario per isolare o restaurare monumenti, assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescerne il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso”. Ma fino ad ora nessun segnale di questo genere è mai arrivato alla famiglia anche se il timore c’è: “L’esproprio è una specie di spada di Damocle che pende sulla nostra testa – dice Francesca – con il tempo mi sono resa conto di essere fortunata, di avere qualcosa che altri non hanno e che nessun altro può avere perchè è unica al mondo. Un orologio prezioso può comprarlo chiunque possa permetterselo, lo stesso vale per un gioiello o un’automobile. Questo posto no. Non riuscirei a lasciarlo. Per l’affetto che mi lega, per i ricordi, perché quella è casa mia. Magari c’è chi sarebbe disposto a offrire milioni di euro per possedere e vivere in luogo simile. Ma io non lo darei mai via. Mai. Ci sono cresciuta. Mi appartiene”. E a proposito dell’esproprio afferma: “So che potrebbe succedere da un momento all’altro, lo Stato potrebbe arrivare e portarcelo via. Quando ero piccola, mio padre diceva sempre ‘Basta che non lo vedo io!’ ma non capivo – dice Francesca, sorridendo – ora dico la stessa cosa: ‘Basta che non capiti a me!”.