Sprar, lavoro e casa per i richiedenti asilo. Ma solo per sei mesi
Pubblicato il 10/04/2014
Si chiamano Sprar, sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, e sono il luogo dove i migranti arrivano dopo anni passati tra centri di accoglienza e Cara. E’ la seconda accoglienza, la loro terra promessa: qui finalmente hanno la possibilità di abitare in una vera casa, seguire corsi di italiano e iniziare tirocini formativi. L’obiettivo è quello di rendere autonomo il migrante e avviarlo al mondo del lavoro.
Chi accede al sistema vive in un appartamento con massimo altre sei persone ed è totalmente indipendente: fa la spesa, cucina, si occupa della pulizia della casa. Gli Sprar sorgono soprattutto in piccoli Comuni. La Sicilia è la regione con il numero maggiore di posti: sono 892. Segue il Lazio con 494, la Puglia con 334, l’Emilia Romagna con 322 e la Lombardia con 285.
Il sistema è stato istituito dalla legge n.189/2002 e per il biennio 2014-2016 accoglierà 13.020 persone, ma è già previsto un ampliamento di 6.500 posti. I progetti totali sono 456 in tutta Italia. Possono accedervi i richiedenti protezione internazionale, i rifugiati, i titolari di protezione umanitaria e i titolari di protezione temporanea. E’ nato come modello di accoglienza centrato sulla singola persona, fondato sui piccoli numeri ed è frutto della collaborazione di istituzioni nazionali, Comuni e organizzazioni umanitarie. Ogni progetto della durata di sei mesi, rinnovabile per altri sei, è controllato e monitorato da un servizio centrale.
Il costo medio dello Sprar è di 35 euro al giorno a persona e comprende tutto: le spese per l’appartamento, quelle per il singolo migrante, gli stipendi degli operatori, i corsi per l’integrazione. Per gli ospiti con disagio mentale e per i minori non accompagnati, invece, il costo è di 80 euro proprio perché hanno esigenze particolari. Ogni settimana gli ospiti ricevono un pocket money, una somma di denaro di 46 euro che possono spendere come vogliono.
Il funzionamento dello Sprar è garantito dal Fnpsa – il fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo – e dal cofinanziamento dei Comuni, che sono tenuti a farsi carico di almeno il 20% dei costi totali dei progetti di accoglienza. Tra il 2005 e il 2013 sono stati spesi 279,2 milioni di euro per finanziare il progetto Sprar. Si è passati dai 10,6 milioni di euro del 2005 agli oltre 45,9 milioni di euro nel 2013.
Nel 2012 per far fronte ai numerosi sbarchi, molte strutture hanno dovuto aumentare il numero degli ospiti. Lo Sprar di Licenza, in provincia di Roma, gestito dalla cooperativa Eriches 29, accoglie 60 persone. Un piccolo Cara che non garantisce progetti individuali. I migranti non hanno alcuna autonomia né indipendenza: “Abbiamo avuto ampliamenti straordinari, ma nel 2014 non ce ne saranno – spiega Daniela Di Capua, direttrice del servizio centrale dello Sprar- “Lo Sprar costa meno di un Cara ma non riusciamo ad accogliere tutti i richiedenti asilo: ci sono stati più di 40.000 arrivi nel 2013 e dobbiamo ancora sistemare quelli degli anni passati”.
Lo Sprar e poi? Lo Sprar potrebbe essere il sistema vincente dell’accoglienza italiana, un luogo dove il migrante inizia concretamente a costruire la sua vita nel nostro Paese, seguito di pari passo da operatori, avvocati e mediatori culturali. Dovrebbe uscire dal progetto con un lavoro e quindi una indipendenza economica che gli possa garantire una vita dignitosa. Purtroppo però, trascorsi i sei mesi previsti dal progetto, molti finiscono in mezzo alla strada.
“Siamo coscienti che sei mesi o un anno non siano sufficienti per trovare un lavoro, ma in Italia la norma prevede l’obbligo da parte dello Stato di accogliere i richiedenti asilo e non i titolari di una protezione, quindi se i migranti hanno i documenti in regola non possono restare oltre i sei mesi. Negli altri Stati il punto di forza è il welfare nazionale che riesce a offrire per anni un sostegno al migrante. Da noi questo non esiste”, racconta Di Capua.
“Rendere queste persone indipendenti economicamente è un’utopia. Noi cerchiamo di fornirgli gli strumenti che gli consentano di affrontare la vita fuori: devono conoscere l’italiano e avere un minino di preparazione professionale”.
Nel 2012 hanno terminato il loro periodo in accoglienza 2.891 persone, di cui il 38% ha trovato un lavoro e una casa; il 29% è uscito per scadenza del progetto; il 28% ha abbandonato lo Sprar di sua iniziativa; il 4% è stato allontanato e l’1% ha scelto l’opzione del rimpatrio volontario e assistito. Nessuno esce dallo Sprar senza avere i documenti in regola: tutti devono aver prima ottenuto lo status di rifugiato o una forma di protezione internazionale.
Le storie. Fatima (nome di fantasia) ha tre bambini di 7, 4 e 2 anni. Viene dall’Africa subsahariana. E’ scappata dal suo Paese per motivi politici: i nemici di suo marito hanno cercato di bruciarla viva mentre era incinta. E’ riuscita a salvarsi ma sul suo corpo e sul suo viso sono rimasti i segni delle bruciature. Arrivata in Italia con i suoi figli, è stata per oltre un anno nello Sprar di Monterotondo. La responsabile del progetto Cristina Formica afferma: “Adesso il tempo è scaduto. Dovrebbe andare via perché abbiamo l’obbligo di accogliere altre donne”. Ma Fatima non ha trovato un lavoro né una casa dove andare. Anche Alina (nome di fantasia), era stata nello Sprar di Monterotondo. Per mantenere suo figlio, adesso si prostituisce: la paura che senza soldi i servizi sociali gli avrebbero tolto il suo bambino era troppa.
Alfia, invece, un lavoro dopo lo Sprar l’ha trovato: fa la badante ad un anziano di 86 anni. Viene dall’Eritrea, era scappata nel 2011 con suo marito ma arrivati in Egitto si sono persi di vista. Da tre anni non sa che fine abbia fatto. Lei è sbarcata a Lampedusa e poi è stata trasferita nel Cara di Crotone: “Non avevo nulla, solo un pigiama sporco e faceva tanto freddo”. Dopo qualche mese è stata mandata nello Sprar di Monterotondo. Ha imparato a leggere, scrivere e a preparare piatti italiani per l’anziano che assiste. Era la prima del suo corso.
Non vuole parlare delle violenze subite dopo che ha perso le tracce di suo marito: “Non posso guardare indietro, neanche per un attimo. Fa troppo male”. Nell’estate del 2013 è tornata in Egitto a cercarlo, senza risultato. Adesso Alfia passa le suo giornate in casa: “L’anziano che accudisco non mi fa mai uscire di casa, ma io sono contenta così, voglio solo lavorare”. Alfia ha solo 24 anni.