La ricetta dell’azionariato popolare contro gli stadi vuoti e i bilanci spericolati
Pubblicato il 23/04/2014
Il calcio italiano è ancora questione per pochi ricchi. Su 110 società delle serie professionistiche, dalla serie A alla seconda divisione della Lega Pro, 45 (41%) sono gestite da una persona fisica, 21 di queste ha un unico socio. Altre 48 si distinguono solo formalmente, visto che sono controllate da società nelle quali un unica persona detiene almeno il 90% del capitale, anche se il dato è diminuito rispetto alla stagione 2012/2013 quando erano 53.
“Si parla di azionariato popolare quando ormai è troppo tardi” dice Walter Campanile, controllore di volo all’aeroporto di Fiumicino e pioniere della partecipazione dei tifosi alla vita societaria del proprio club con l’associazione My Roma, il primo supporters’ trust nato in serie A sul modello che prende esempio dai soggetti giuridici dell’economia anglosassone. Nata nel 2010 dopo alcuni mesi di aggregazione animata in un gruppo su Facebook, My Roma riesce a coinvolgere quote societarie ancora al di sotto del 2,5%, soglia minima per puntare a un posto nel consiglio di amministrazione: “Nelle assemblee dei soci cerchiamo di raccogliere le deleghe dei piccoli azionisti per poterli rappresentare – dice Campanile – al prossimo aumento di capitale ci prepariamo a essere presenti con un nostro rappresentante nel cda”. Negli anni gli associati di My Roma si sono impegnati in iniziative dal sociale allo sportivo, da giornate dedicate alla donazione del sangue alle facilitazioni per i più giovani di entrare allo stadio Olimpico: “Tanti giovanissimi conoscono il calcio quasi solo dalla tv – sottolinea il presidente di My Roma – noi vogliamo riportare tutti, soprattutto le nuove generazioni, a sostenere la propria squadra sugli spalti: in questo senso siamo orgogliosi della battaglia vinta sulla tessera del tifoso, quando i nostri legali hanno dimostrato che se ne poteva fare a meno, gli abbonamenti della Roma sono aumentati e i tifosi al seguito in trasferta non sono mai mancati”.
L’intero sistema del calcio italiano professionistico è nelle mani di un gruppo ristretto di persone e legato a doppio filo alla loro stabilità finanziaria. Una realtà che si riflette sulle pagine dei giornali che da anni raccontano le difficoltà di tenere in piedi una società sportiva, soprattutto nelle serie minori, e di iscriverla a un nuovo campionato. È in quei momenti che torna il mantra dell’azionariato popolare visto che soluzione da ultima spiaggia, con gli accorati appelli dei tifosi a far fronte ai costi laddove chi dirigeva la società non ha saputo e potuto fare. “Dagli anni ’60 ad oggi – dice Marcel Vulpis, direttore di sporteconomy.it – abbiamo avuto principalmente dei presidente-patron o mecenate, l’ultimo in ordine di tempo è stato Massimo Moratti: 1,2 miliardi di euro in 18 anni di gestione, prima della cessione al magnate indonesiano Erick Thohir. Tutti i presidenti hanno utilizzato il calcio come uno strumento politico e di visibilità personale per i loro affari. E’ chiaro che oggi in una situazione di crisi economica perdurante molte ‘pecche’ di questo sistema italiano totalmente ‘sballato’ escono fuori”.
Secondo l’ultimo report della Federcalcio, nella stagione 2012/2013 il risultato netto negativo medio di una società in serie A è di poco superiore ai 10 milioni di euro, in serie B di 3 milioni. Il dato per la serie A è migliorato del 28% rispetto alla precedente stagione, leggermente peggiorato di 500 mila euro per la B, ma Un miglioramento rispetto alla stagione precedente (+28%). In generale è cresciuto il valore della produzione del calcio professionistico che ammonta a 2,6 miliardi di euro, ma l’indebitamento complessivo della serie A è di circa 3 miliardi di euro.. I maggiori canali di entrata sono sempre i diritti televisi (38%, +4,6%) e le plusvalenze (20%). Il trend negativo colpisce i ricavi da stadio (-4,1%), legato al calo di spettatori (-6,4%) in strutture che hanno un’età media di 60 anni (in serie A sono 64 anni). L’Italia è al quarto posto in Europa per spettatori (9,8 milioni). Gli stadi più affollati sono in Inghilterra (16,9 milioni), seguiti da quelli in Germania (quasi 15,4 milioni) e Spagna (13,4 milioni).
Per trovare altre realtà che stanno sperimentando l’azionariato popolare bisogna cercare dalla Lega Pro in giù. I casi che stanno facendo scuola sono ad esempio quelli di Ancona, Taranto e Sambenedettese che si sono serviti della consulenza di Supporters’ Direct, un’agenzia inglese che ha visto nascere oltre 200 democratic supporters’ group, come li definisce Ben Shave, responsabile di Sd per l’Europa: “Tutti i gruppi con cui lavoriamo sono costituiti da volontari – dice Shave – L’obiettivo è far crescere la fiducia nel progetto dal basso, l’impegno è notevole, ma con l’avanzare del progetto l’amore per il proprio club prende il sopravvento e si è sempre più disposti a rinunciare a un po’ di tempo libero”.
Da Venezia United a Sogno Cavese, a Cava de’ Tirreni, arrivano storie di progetti già realizzati che cercano di camminare con le proprie gambe. Sono gruppi nati da meno di 100 sostenitori, come è successo nel 2010 nella città lagunare, per arrivare a raccogliere circa 1.100 tifosi nella public company che è in parte proprietaria della società che milita in prima divisione della Lega Pro. A Taranto l’Associazione di promozione sociale “Taras 706 a.C.” è proprietaria del 18% della società e non ha fatto mancare il proprio supporto anche in iniziative extracalcistiche come la raccolta fondi per l’alluvione di Ginosa, a pochi chilometri dalla città dei due mari. Gli esperimenti in Puglia sono partiti dal 2009, quando ad Altamura, patria del pane, ha cominciato a lievitare l’associazione Ultrattivi. Nata da un gruppo di under 30, l’associazione ha sfruttato un finanziamento della Regione Puglia per lanciare una squadra di calcio in terza categoria gestita direttamente dai suoi tifosi, cinquemila sostenitori senza contributo solo nel primo anno e un centinaio di soci che in un quinquennio hanno portato alla conquista della prima categoria.
La presenza dell’azionista forte, o di un gruppo ristretto, con il maggiore potere di controllo persiste nelle serie professionistiche italiane anche se affiancata da associazioni di tifosi ben organizzate: “È dall’Italia però che stanno nascendo i progetti più di successo degli ultimi anni – dice Ben Shave – Più che al modello Barcellona, l’idea è tendere a quello tedesco dove è previsto dalla stessa federazione che la maggioranza dei club deve appartenere alle società sportive, quindi ai tifosi”.
In Germania le Eingetragener Verein, associazioni senza scopo di lucro, sono proprietarie di maggioranza di 34 squadre su 36 con la formula del 50%+1 delle azioni. La gestione delle squadre professionistiche è di fatto affidata alle assemblee dei soci, che approvano i programmi finanziari e sportivi della dirigenza scelta dagli stessi soci. “Nessun tifoso vuole esporre la propria squadra al rischio di fallire – spiega Oliver Birkner, corrispondente in Italia del quotidiano sportivo Kicker – quindi ogni uscita di bilancio è valutata con grande attenzione: sono escluse spese pazze per top player per esempio”. Dopo Real Madrid e Barcellona, il Bayern è il terzo club in Europa per ricavi generati nel 2013 con 431,2 milioni di euro. Per trovare un’italiana bisogna arriva al nono posto con la Juventus (272,4 milioni) e al decimo con il Milan (263,5 milioni). Il Fußball-Club Bayern München è per il 75% di proprietà dei suoi sostenitori, 217.241 iscritti, per la restante parte le quote sono ugualmente ripartite (8,33%) tra Audi, Adidas e Allianz, sponsor che dà il nome allo stadio, di proprietà della società.
Dopo 16 anni dall’introduzione del “50%+1” in Germania, 32 deputati italiani di differenti gruppi parlamentari hanno presentato alla Camera una proposta di legge che vuole introdurre un limite di azioni per socio al 30%. “È molto probabile – ha detto in aula a il 18 marzo scorso l’on. Angelo Attaguile, primo firmatario della proposta di legge – che togliere un «padrone» alle società sportive porterebbe diversi vantaggi: la riduzione dei costi di gestione relativi ai soggetti che controllano la società, il rispetto per il tifoso e, parallelamente, il rispetto dello stesso tifoso per tutti i beni e gli interessi della società che sentirebbe come propri e rispetto ai quali assumerebbe un atteggiamento di protezione e di tutela”.
La proposta punta a introdurre anche una consulta di tifosi interna alle spa ed srl sportive. Un organo composto da un minimo di 100 a un massimo di 1000 membri, eletti dagli abbonati, al quale la dirigenza è obbligata a chiedere parere sui bilanci e sulla programmazione sportiva. La presenza dei tifosi nella dirigenza sarebbe poi garantita con una quota del 10% dei membri del consiglio di amministrazione.
Con gli attuali gruppi proprietari dei club italiani, un modello come quello dei supporters’ trust, secondo Marcel Vulpis, è ancora inconciliabile: “La situazione del sistema sportivo italiano sia professionistico che dilettantistico è fortemente a rischio – dice Vulpis – C’è stata nell’ultimo triennio una contrazione globale dei ricavi, questo non ha consentito una serie di investimenti. Il calcio come modello economico regge ancora, ma c’è da chiedersi ancora per quanto”.