Scempio ambientale o grande risorsa idrica La diga sarda che divide da vent’anni

SARROCH – All’entrata del cantiere della diga di Monte Nieddu – Is Canargius c’è un cartello, come se ne incontrano in una qualsiasi opera pubblica. In basso le stelline dell’Unione europea, da cui provenivano parte dei soldi che servivano a realizzare la diga, sono quasi scomparse. Sfumate come i 38.628 milioni di lire che Bruxelles avrebbe messo a disposizione se la diga fosse stata realizzata entro il 31 dicembre 2001. C’è scritto anche il nome di Costantino Fassò, luminare dell’ingegneria idraulica del ‘900, che negli anni ’60 firmò questo progetto. Il professor Fassò, nel frattempo è morto. Non vedrà mai realizzata la sua diga.

Dopo il cartello inizia una stradina sterrata, ci sono tante buche e la macchina avanza faticosamente. Questa è la strada che nel progetto originario doveva circumnavigare l’invaso. Nel nuovo progetto è previsto che costeggi solo il fianco sinistro. A sinistra della stradina si apre la vallata. Siamo alle porte di una delle più grandi foreste del Mediterraneo. A pochi chilometri il parco di Monte Arcosu del Wwf, dall’altra parte il mare e la raffineria della Saras. Il fiume, con poca acqua, scorre tra corbezzoli, lecci e lentischi.

Negli anni ’60 nasce l’idea di un’opera che aiutasse la Sardegna sudoccidentale a risolvere il problema della siccità. Nel 1970 il Consiglio superiore dei lavori pubblici approvò il progetto del professor Costantino Fassò che prevedeva uno sbarramento di 87 metri in località Sa Stria, nel territorio di Sarroch e una traversina di 15 metri in località Medau Aingiu, in quello di Pula. Tra i due sbarramenti un invaso da 35 milioni di metri cubi, di cui almeno 20 da destinare all’agricoltura. L’opera rimase nel congelatore fino al 1994, quando la Regione Sardegna, in uno dei periodi di massima siccità per l’isola, ne approvò il progetto.

Nel 1997 fu assegnato l’appalto a un consorzio di aziende italo-spagnola creata ad hoc, la Ati Dragados y fomento Construcciones – Grandi lavori Fincosit Spa. I lavori inziarono regolarmente. Lo sbarramento si sarebbe dovuto realizzare con la moderna tecnica del “calcestruzzo rullato” che necessita di speciali polveri di carbone. La regione Sardegna, tramite il Consorzio di bonifica della Sardegna meridionale, garantì all’azienda la reperibilità di queste polveri dalla centrale Enel di Portovesme, non lontana. Qualcosa andò storto.

Nel febbraio 2001 gli spagnoli chiusero i cancelli del cantiere con appena il 20% dei lavori realizzati. Secondo l’azienda di Madrid le polveri di Portovesme non erano “sufficienti a garantire ritmi di lavoro accettabili” e non erano neanche di buona qualità. I sindacati interessati, nel gennaio 2002, in un’interpellanza all’allora presidente della regione Sardegna Mauro Pili e all’assessore ai lavori pubblici, calcolarono che per avviare i lavori sarebbero servite almeno 50.000 tonnellate di ceneri di carbone mentre da Portovesme ne venivano prodotte non più di 250 al giorno.

“La legge italiana non prevede che si possano cambiare i prezzi della voci di spesa”, spiega Roberto Meloni, direttore generale del Consorzio di bonifica della Sardegna meridionale, ritornando sulle ragioni che hanno causato la chiusura del cantiere. Da questa “differenza di vedute” nacque la richiesta di contenzioso arbitrale da parte della Ati italospagnola di circa 60 miliardi di lire. Il contenzioso, che per legge prevede l’unanimità, non ha avuto esito positivo.

Un’opera inutile e dannosa per l’ambiente con un rapporto costi-benefici inaccettabile. Così la pensano i membri dell’associazione “Gruppo di intervento giuridico” che da sempre si oppone alla costruzione dello sbarramento. La questione ambientale è molto delicata. Roberto Meloni fa notare che, trattandosi di un progetto approvato prima del 1988 non è soggetto a valutazione di impatto ambientale (Via) è che comunque sono state prese misure per ridurlo al minimo.

Numerose sono state le iniziative di parlamentari italiani ed europei. Tra il 1995 e il 1997 fu molto attivo l’allora deputato dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio che sollevò le problematiche ambientali dell’ opera con delle interrogazioni ai ministri dei lavori pubblici. Nel 2006 furono il deputato dei Verdi Camillo Piazza e il senatore di Rifondazione Comunista Francesco Martone a chiedere un parere al ministro per l’ambiente Pecoraro Scanio. Il ministro rispose citando la sentenza della corte di giustizia europea del 1998: “alla procedura di VIA devono essere assoggettate anche le opere approvate prima del 1988, qualora non ancora realizzate o per la cui realizzazione si rendesse necessario il rinnovo delle autorizzazioni già avute o l’ottenimento di nuove”- e aggiunse – Considerato che i lavori sono sospesi da anni e che le opere ad oggi realizzate sono meno del 20% del totale, e che nel frattempo nell’area sono state individuate aree SIC (di interesse comunitario), si ritiene che sussistano i presupposti per applicare le norme in materia di VIA e di valutazione di incidenza”.

Nel 2012 la protesta delle associazioni ambientaliste arrivò a Bruxelles. A farsi carico delle loro rivendicazione fu Andrea Zanoni, eurodeputato dell’Italia dei valori, ora entrato nel Partito democratico. La risposta del commissario all’ambiente dell’Unione europea Janez Potocnik non tardò ad arrivare. “la Commissione – si legge nella risposta scritta in data 10 maggio 2012 – ha pubblicato una comunicazione sul problema della carenza idrica e della siccità nella quale propone una gerarchizzazione delle scelte idriche che favorisca il risparmio d’acqua piuttosto che l’utilizzo di nuove sorgenti. Tuttavia, è opportuno tenere presente che la legislazione dell’UE non prevede alcun obbligo giuridico di applicazione di tale gerarchizzazione”.

Ma la volontà politica per la realizzazione dell’invaso non è mai mancata. Nel settembre 2004, a due anni dalla chiusura del cantiere, il Comitato interministeriale per l’economia del governo Berlusconi approvò un finanziamento da 52 milioni di euro per il completamento dell’opera. L’intervento è poi sempre stato inserito, negli anni successivi, nei documenti di programmazione economica e finanziaria (Dpef) dei diversi governi.

Dopo anni di stallo, il 25 novembre 2011, il consorzio di bonifica della Sardegna meridionale pubblicò il bando per l’assegnazione dei lavori di completamento. A disposizione 83 milioni di euro , 52 messi a disposizione dal Cipe, poco più di 30 dalla Regione Sardegna. La Tecnis, azienda di Catania, fu quella che offrì il ribasso più alto, ma il Consorzio di bonifica della Sardegna meridionale non ritenne sufficienti le giustificazioni di spesa. All’inizio del 2014 la palla è passata quindi alla Impresa Spa, azienda romana, che però è commissariata e quindi non è riuscita a coprire le spese fidejussorie necessarie per aggiudicarsi definitivamente l’ appalto pubblico. La Astaldi, terza classificata potrebbe essere l’azienda in grado di portare a termine la diga. Le ceneri di carbone dovrebbero venire dal nord Sardegna (quindi presumibilmente a costi maggiori), ma il gruppo romano – assicura Meloni – ha manifestato interesse per l’opera.

Insomma si preannuncia un nuovo capitolo per l’incompiuta del Sulcis, anche stavolta non privo di interrogativi. I soldi saranno sufficienti? Quanto ci vorrà, una volta terminati i lavori, a realizzare tutte le infrastrutture necessarie (condutture, impianti di depurazione ecc.) per rendere la diga davvero utile al territorio? Nel frattempo si attende la firma, annunciata a breve che potrebbe dare il via a un cantiere lungo 420 giorni e in cui il Consorzio di bonifica prevede di impiegare non meno di 200 operai.