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Il memoriale serbo sulla strada per UnkaPasso davanti con il musulmano Admir a un memoriale serbo, una lapide con un vasetto di fiori. Lui mi fa accostare per vedere meglio, traduce la scritta che dice testualmente: Morti difendendosi dal nemico secolare. “Ma non sono di qui” mi fa notare. Sono di Banja Luka o di altre zone della Bosnia. Questo a casa mia si chiama invasione”.
Passo davanti con il cattolico Franjo a un cimitero serbo. Ride, dice che suo padre voleva sfregiarlo.

Pavo, il padre di Franjo, sostiene tutt’altro: “Non porto nessun rancore, parlo con tutti. Vedo a volte perfino un generale serbo che partecipò all’attacco contro Bosanski Brod. Certo, oggi non parlerei con serbi che prima della guerra non conoscevo. Non pensare però che divida la gente in categorie: giudico ognuno per quel che è. Anche a Kolibe c’è una famiglia serba di cui siamo amici, li aiutiamo perché sono molto poveri”.
E’ solo una di tante professioni di amicizia che qui capita di sentire tutti i giorni.

Nedo e Ruža Glavic, croati: “Non siamo arrabbiati, non portiamo rancore: i serbi ci hanno aiutato quando eravamo in difficoltà, e dobbiamo essergli riconoscenti”.
Idem per Anto e Mara Šimic: “Non abbiamo mai giudicato in base alla religione, abbiamo sempre guardato le persone come persone. Perciò non vogliamo portare rancore, perché i serbi sono stati obbligati a fare quello che hanno fatto. Hanno solo eseguito degli ordini”.
Molte case hanno la scritta "casa serba" che avrebbe dovuto preservarle dalla distruzione Admir non la pensa così: “I musulmani da soli non avrebbero mai scatenato una guerra. Quando sono arrivati i serbi coi carri armati, loro gli andavano incontro con un bicchiere di grappa. E in cambio sono stati massacrati”.

Il che dimostra forse che i più arrabbiati (o i più sinceri) oggi sono i giovani. Franjo e Aldin, due diciottenni, escludono entrambi di stare insieme a una ragazza serba. Anche il musulmano Kenan ammette: “Evito di parlare coi serbi. Non è facile dimenticare che tuo padre è morto”.

Ancora Admir: “Non ho amici serbi. Del resto non ne avevo neanche prima, a scuola i miei amici erano musulmani o cattolici. E non capisco la tolleranza di mio padre. Noi abbiamo una casa a Bosanski Brod che ci ha lasciato una zia in eredità, ma da anni è occupata dai serbi. Mio padre è andato addirittura a trovarli. Al suo posto sarei molto arrabbiato”.
“La guerra - continua - si può vedere da ogni lato. Ma delle persone sono state uccise, e questo è un fatto. E uccise da serbi di città. Questo è un altro fatto. E poi anche tra i serbi di qui c’è chi ha avuto il suo tornaconto. Guarda questa casa” dice indicandomi un’enorme baita, con prato all’inglese, balaustre bianche e tettoie spioventi. “Questa è gente che con la guerra ci si è arricchita”. Alcune famiglie serbe si sono arricchite negli anni della guerra

Se gli anziani affermano di sentirsi a casa, tra molti serpeggia ancora la paura. La famiglia di Franjo, che viene ogni domenica, non si ferma volentieri a dormire, per paura che quando fa buio vengano gruppi di serbi da Srpski brod.

Don Zeliko racconta di un funerale interrotto dall’arrivo dei nazionalisti, venti o trenta serbi sui loro macchinoni che gridavano: “Andatevene, non è la vostra casa”. Racconto confermato da kenan, musulmano: “Quando la Serbia ha vinto i mondiali di basket, sono arrivate 150 macchine piene di bandiere. Un gruppo di ubriachi voleva entrare in casa. Io non mi preoccupo, perché sono giovane. Ma mia madre per esempio ha paura”.

Alla domanda posta in modo diretto, quasi tutti negano di aver timore. Ma ben presto diventa evidente che nessuno dei miei due gentilissimi interpreti è disposto ad accompagnarmi dai serbi.
“Magari puoi andarci con Admir” propone Franjo.
“Io dai serbi non mi sento tranquillo. E comunque mio padre non gradirebbe”.
“Meglio se ci vai con Franjo” ribatte Admir. “Lui vive qui, per lui è più facile”. Così solo il penultimo giorno della mia permanenza accetta di accompagnarmi dai Pejcic.


 

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