Admir
arriva in ritardo, perché è passato a prendere il
suo amico Aldin pensando di portarlo con noi. L’idea mi
stupisce, perché Aldin è musulmano. Aveva da fare,
quindi ci incamminiamo noi due. Nel prato si sente un ronzio e
Admir commenta: “Strano che a quest’ora lavorino ancora”.
In realtà è il generatore in funzione.
Si affaccia Stevan, un uomo anziano con un’abbronzatura
da contadino. Nel soggiorno ci sono i suoi figli, Branko e Nenad,
poi appaiono dalle altre parti della casa la moglie e la nuora
con dietro Ognjen e Andrea, i nipotini.
Bevendo l’immancabile caffè, Admir chiede
perché manca la luce. Branko, il fratello maggiore, spiega
che arriva fino alla casa prima della loro. “E’
così lontana e così vicina” commenta. La linea
elettrica, ripristinata lo scorso Natale, era pagata da una donazione
internazionale. Ma la donazione non è bastata a coprire
l’intera tratta, e così i lavori sono rinviati a
data da destinarsi.
A raccontare è Nenad, il minore. Spiega che allo scoppio
della guerra lui non aveva ancora 18 anni. Tra marzo e aprile
1992 sono arrivati dei militari dalla Croazia ingiungendo di non
allontanarsi. Hanno ispezionato la casa e preso i loro nomi. Rua
racconta che due militari più giovani l’hanno
presa da parte e le hanno detto: "Scappate, è meglio
per voi". Poco dopo, è arrivato il vicino,
annunciando che c’era un gruppo di croati deciso a uccidere
tutti i serbi della zona. Sono fuggiti, e hanno fatto vita da
profughi in case di amici disposti ad ospitarli.
Poi si sono rifugiati a Sijekovac, un paesino a pochi chilometri
da qui. Là hanno trovato una casa vuota, e l’hanno
abitata fino a sei mesi fa.
- Ma la scelta di tornare non è stata azzardata,
essendo gli unici serbi in questa zona?
“Ce lo chiedono tutti” replica Branko con amarezza.
“Ma in un certo senso non avevamo altra scelta. Se uno ha
una casa non può sputarci sopra. E comunque a Kolibe si
sta bene. L’unico problema è che tanta gente è
morta. Ma quello che è successo non è colpa nostra;
per questo dobbiamo sforzarci di dimenticare”.
“Nessuno di noi - aggiunge Rua - ha mai giudicato
le persone in base alla nazionalità. Tanto più
che le mie due sorelle hanno sposato una un croato, una un musulmano.
Il comunismo ci aveva abituato a non occuparci della nazionalità”.
Chiedo come si spiegano tutto questo. Admir dice
che non è una domanda, ma poi la traduce lo stesso. Risponde
Nenad: “In certi casi la priorità è
salvare la pelle. Per questo accetti di fare cose che non faresti
mai”. Admir si scalda: “Immagina di essere
del nord Italia. Scoppia la guerra, viene la polizia e ti dice:
Combatti, altrimenti ti uccidiamo”. Tutti annuiscono in
segno di approvazione. Admir dice che la guerra stravolge le cose,
ti obbliga a fare cose che non vuoi. Dai Pejcic vigorosi altri
cenni di assenso. Rua allarga le braccia, spiega che Nenad,
quando compì 18 anni, fu subito richiamato sotto le armi.
Dove ha combattuto, cos'ha fatto, chiedo, ma le risposte restano
evasive.
“Prima
- dice Rua – non c’era conflitto. Solo
adesso noi serbi subiamo una discriminazione”.
“Ma oggi - riprende Nenad - non ci sono problemi, tranne
la miseria che è la stessa per tutti”. Lui ora lavora
a giornata: guadagna 10 euro al giorno se va bene. Branko è
impiegato nella raffineria, ma si dice che presto tutti gli operai
saranno lasciati a casa. Stevan, il padre, dovrebbe avere una
pensione, ma non ha abbastanza contributi. Aveva comprato un cavallo,
e grazie a quello raggranellava qualcosa portando la legna alle
case del paese. Da quando il cavallo è morto si sente inutile.
Mi fanno capire che l’intervista è finita. Ancor
prima di essere in macchina, Admir dice: “Sei stata
dall’altra parte. Sei contenta?
Ma perché non mi avevi detto che erano serbi?”. Assicuro
che lo avevo avvertito. “Sì forse, l’avrò
dimenticato. Ma ti sarai accorta di quanto erano a disagio. Si
sentivano in colpa perché loro sono rimasti qui, mentre
io e la mia famiglia siamo dovuti scappare. Non volevano dire
che il ragazzo aveva combattuto, non l’hanno ammesso finché
io ho commentato che è la guerra a farti fare cose che
non vuoi". Chiedo: Allora avresti preferito non venire?.
Risposta: “No, non c’è problema. Sono
adulto, ho fatto molto volontariato. Meno male che Aldin
non è venuto”.
|