LA CRUDELE ANARCHIA
DELLA METAMORFOSI
Di
El Gabal


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E’ come un lento, feroce dissanguarsi, quest’espropriazione continua che ci cancella a noi stessi: mi guardo e non sento e non mi riconosco. Troppi specchi, forse. O troppa voglia di specchiarsi. Oppure troppi oggetti in cui riflettersi. O troppi desideri vuoti in cui confondere la testa gravida di pensieri altrui. Sta di fatto, comunque, che straniato a se stesso, travolto dal ritmo dell’esterno, l’io, quest’io sottile come nudo spago, cerca sempre più il principio e il confine di sé nel labile perimetro del corpo.

Il corpo, cioè la forma dell’essere che più di tutte sembra schiacciarsi nella sua materica rigidità, sembra essere rimasto l’unico principio di identificazione; anche il suo rifiuto, così come si esprime nelle correnti di spiritualismo buddista-New Age, non è che il paradosso che ne conferma il predominio.

Il predominio del corpo coincide con il predominio dell’estetica, con il trionfo della superficie, e poiché l’identificazione del sé con la propria fragile materialità è tutt’altro che data - ma, anzi, vive del contrasto profondo con la psiche, ovvero del contrasto con la brillante e splendente fantasmagoria dell’immaginario collettivo che si è sostituita a essa – all’individuo infelice non resta altro che tentare il nulla del proprio simulacro corporeo al nulla del sogno spettacolare, che gestisce e scandisce i tempi e i modi della sua sopravvivenza; la moda, il trucco, le manipolazioni della plastica e della palestra, sono gli strumenti e i prodotti che il supermercato dell’apparenza mette a disposizione di tutti coloro che, avendo soldi da spendere, possono permettersi di cambiare la merce che gli ricopre lo scheletro.

L’apparenza è fatta di corpi solidi in riassemblaggio, di materiale rigido in riconfezionamento, e la molteplicità della metamorfosi è solo una trasmigrazione di solidità incapaci, inette a superare l’angoscia della propria concreta irrealtà. In questa situazione, ogni corpo è un corpo, e ogni metamorfosi è solo uno scambio, ovvero una merce; l’umanità svuotata conosce solo il corpo, vede solo il fenomeno, e incapace di comprenderlo nel tutto, risulta alla fine incapace di possederlo e di viverlo. Per questo, ogni modificazione non può risultare alla fine che una ri-forma, un fragile restauro, un aggiustamento dell’intonaco che lascia intatto il cemento.

D’altra parte, volentieri ci siamo sbarazzati dell’illusione che separa la realtà dal reale e segrega la materia alla sfera oscura degli istinti bassi e irrazionali; oggi solo la materia ci interessa, poiché solo la materia è in grado di recuperare la totalità della vita.

Esistono solo i corpi, ma i corpi sono corpi negati, insiemi di gesti automatici, di sorrisi stampati, di codici a s-barre, anestesia che ripudia il dolore e non conosce il piacere, vita allungata con l’acqua perché faccia meno male e non intacchi la sopravvivenza in cui ci siamo rinchiusi. Dov’è la carne? E’ ovvio, sul banco del macellaio, inerte residuo della vita che fu. Per questo, a volte è soltanto la crudeltà esasperata, che si esprime in bagliori assurdi di stragi, a ricordarci che la vita compressa prima o poi incontenibile esplode.

Se quindi il solo corpo rimane, svuotato e separato da sé e dagli altri, è questo corpo, il corpo delle cose, delle immagini, delle parole, il corpo umano insomma nella sua massima estensione, appendici e attributi compresi, che deve radicalmente essere messo in discussione. Come si recuperi un cadavere all’autocoscienza resta un mistero a uso di folli dottori e incauti avventurieri dello spirito. Io, per me, credo sia possibile una conoscenza diversa, profonda e integrale, che recupera il corpo alle sue relazioni e alle sue passioni istintuali, a quella fisicità custode del desiderio e dell’alterazione, che schiude l’accesso alla molteplicità delle cose, alla chiave, cioè, della loro unità. "Si deve agitare la superficie se si vuol sentire lo stagno che vive", recita un antico proverbio Maori; e allora, vi chiedo, di cosa si tratta se non di intaccare i confini, di sommuoverne l’ordine, di sondarne i riflessi, così come i punti di crisi e le soglie d’ingresso? Ogni riappropriazione prevede un atto violento, un’infrazione dell’ordine, una dispersione di fluidi e di energie e, d’altra parte, come si può ignorare che il piacere, il desiderio, la gioia, il riso, tutto sono tranne che estasi, tutto tranne che forma, tutto tranne che ordine e pace solennemente composta!

Le tecniche di modificazione corporea, il piercing, il branding, la scarificazione, sono atti violenti in cui la scorza di latta della pelle, infrangendosi e spezzandosi, ridefinisce e allarga il confine del corpo e riformula l’equilibrio del sé. Il corpo estraneo, acciaio, fuoco o quant’altro, forzando la soglia si fonde e confonde nella pelle, dà pieghe al corpo e lo muta, lo spinge a indagare quelle segrete zone energetiche, dove la carne diventa flusso: chi vede solo il dolore coglie solo l’intrusione che disperde, l’invasione che disordina, mentre chi aspira all’odore, acre e zolfoso dell’alterazione, può forse assaggiare l’apertura, lo sconfinamento, l’estensione dei sensi che dilata e converte la sofferenza in piacere. Così, riconoscere il proprio corpo ed estenderlo ritorna a essere un’unica, indissolubile azione.

Certo, questi atti sono solo dei segni sul corpo, la cui permanenza sembrerebbe fissare ancor di più il sé alla sua identità esteriore, ma il vero senso di questi segni non è, per me, nella loro pur evidente funzione estetica. La loro validità profonda non sta nel fissare definitivamente una forma, ma nel loro essere traccia di un passaggio, il residuo esterno di un’indagine interna, o il tratto emergente di una nuova, instabile pelle. Essi possono essere il punto d’accesso a una metamorfosi concreta e invisibile, in cui l’identità non è più l’assestarsi sul proprio confine di carne, ma è la moltiplicazione, l’estensione dell’io che si mette a rischio totale, al punto da sfiorare l’orrendo, il mostruoso, l’estremo limite della mutilazione.

Il primitivo moderno si presenta con le caratteristiche aggiornate del poeta veggente: quel che il grande maledetto faceva alla propria anima egli lo esercita innanzitutto sul corpo: "immagini un uomo che si trapianti e coltivi verruche sul viso", diceva Rimbaud, senza pensare che questa metafora sarebbe diventata azione reale. La conoscenza è sperimentazione, e nessun viaggio verso l’ignoto ha mai garantito l’incolumità del viaggiatore; semmai, al contrario, gli ha promesso la morte. D’altro lato, in quanto la metamorfosi è passaggio continuo tra gli stati e le forme dell’essere, la sua armonia prevede necessariamente la violenza e il disordine dei singoli attraversamenti, un disordine e una violenza tanto più forti quanto più forte è la pietra che costringe alla stasi.

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EL GABAL
Ambigua figura di confine, El Gabal ha legato il suo nome alle pratiche di modificazione corporea, distinguendosi anche per i numerosi saggi sulle culture Maori. Poeta, teorico ed eminenza grigia delle più estreme culture underground, ha collaborato attivamente con G. P. Orridge, Monte Cazazza, Fakir Musafar, Marc Pauline e Bodhipat A-ra.

Vive tra new York, San Francisco e Parigi (dove è nato), ma gironzola per i più malsani luoghi dei cinque continenti. Il suo "Book of Scarification", esaltante delirio delle culture tribali-metropolitane, è stato pubblicato recentemente a cura delle edizioni "Venerea Incorp".

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