HIP HOP URRA'

 

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21 luglio 1971. Il New York Times dedica un articolo a Taki 183, diciassettenne di origine greca che per primo aveva iniziato a bombardare la città scrivendo la sua sigla ovunque con un grosso pennarello. E' il battesimo del graffitismo metropolitano. Se infatti già sul finire degli anni Sessanta a Philadelphia due nomi, Cornbread e Cool Earl, si ritrovano su tutti i muri, è a New York che si afferma con consapevolezza l'arte underground. Taki è il primo a sperimentare il ''motion tag'', cioè la firma sui vagoni della metropolitana.

Tag dopo tag, tra i writer cresce la competizione per impadronirsi del territorio, e il modo migliore per riuscirci è rendere unica la propria tag, personalizzando il proprio stile. Stay High 149, per esempio, rappresentava la barra orizzontale della H del suo nome come uno spinello e al posto delle stecche metteva il simbolo della serie televisiva "Il Santo".
Poi arriva Super Cool 223 a inaugurare il
piece, il disegno vero e proprio. E' soltanto l'inizio.
Phase 2 inventa le bubble letters. Con Tracy 168, Cliff 159, Blade One nascono i primi murales, che mescolano illustrazioni e cartoni animati. Dalle bubble letters deriva il throw-up, particolarmente adatto ai vagoni del metrò per la velocità di esecuzione.
La guerra di stile è cominciata.

 
Intanto, verso la metà degli anni Settanta, a New York sbarca un giovane giamaicano, Clive Campbell. E le strade della metropoli si riempiono di musica. Clive infatti, che si fa chiamare Kool Herc, importa dalla sua isola negli States la tecnica del toasting, quella del dj che parla a ritmo su una base musicale. Nel Bronx si moltiplicano le feste di strada, i block parties, e si sviluppano insieme rap (parlare a ritmo su una base) e scratch (ripetere le parti ritmiche dei dischi e 'suonarle' per creare frasi e rumori).

Contemporaneamente si affermano la breakdance, danza acrobatica, e il writing, l'arte povera che si può fare in strada, basta avere una bomboletta spray. L'HipHop è l’insieme di queste quattro cose: il djing, il mixare tra loro i dischi con interventi fonetici; l’Mcing, lo sparare rime a raffica e senza fermarsi; il breaking, il ballare con mosse spettacolari; il writing, l’arte di fare i ‘graffiti’. Negli anni Ottanta si riparte con il freno a mano tirato. Si fa sempre più forte il buff, la rimozione dei graffiti, da parte delle autorità. E’ vietata la vendita di vernici spray ai minorenni. Depositi e binari di stazionamento dei treni sono messi sotto stretta sorveglianza.
Il risultato è duplice: da una parte, molti writer abbandonano i vagoni per entrare in un circuito artistico ‘ufficiale’ (è il caso di
Keith Haring e di Jean Michel Basquiat), dall’altra spuntano le crew: d’ora in avanti, le spedizioni notturne si fanno soltanto se ci sono i compagni a coprire le spalle.

19 maggio 1989. New York ha vinto la guerra contro i writer. I treni dipinti la notte sono ritirati subito il giorno dopo, impedendo che scritte e disegni circolino. Ma, a dispetto del "Clean Train Movement", il writing si ricicla su autostrade e truck. La guerra continua.

Il fenomeno si diffonde in Europa: Parigi, Berlino e Londra diventano le nuove capitali del writing. L'Italia è l'ultima arrivata ma i suoi "graffiti" non sono l'imitazione di quelli americani, bensì la loro prosecuzione, nonostante lo stile frammentato, diverso da città a città. Mentre nel resto dell'Europa il fenomeno arretra, in Italia sta maturando adesso, grazie anche al fiorire dell'Hiphop nel panorama musicale nazionale.

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