“Perché usano i nostri bagni?”

Facilitatori linguistici e dirigenti scolastici raccontano la loro quotidianità in scuole dove la parola d’ordine è “multiculturalità”

“Me l’ha raccontato una collega, all’inizio non volevo crederci neanch’io. Alcuni bambini hanno chiesto perché i loro compagni cinesi usavano i loro bagni. Non dirò in quale scuola è successo, comunque era una scuola elementare. Qualche episodio di razzismo, ecco, c’è. E’ evidente che son cose dette in famiglia”.

Flora Lufrano insegna italiano agli alunni stranieri delle scuole di Prato. Ha ottenuto un diploma all’Università per stranieri di Siena. Tecnicamente il suo insegnamento si chiama “L2”, italiano come lingua seconda, che è cosa diversa dall’insegnare una lingua straniera, perché è la lingua che si parla nel luogo dove viene imparata, si è tenuti a usarla quotidianamente.

Flora ha vinto un concorso e da un paio di anni ha un contratto a progetto con il comune di Prato. Non conosce il cinese, ma insegna a tutti i ragazzi stranieri presenti nelle scuole, “anche pakistani, marocchini, rumeni, non sarebbe pensabile sapere tutte le lingue. Neanche è così necessario”. Come anche Alessandro Levantesi, laureato in filosofia e diplomato anche all’Università per stranieri di Siena, lavora 18 ore la settimana, seguono circa 40 alunni a testa. Sono loro i “facilitatori linguistici”.

Flora e Alessandro insegnano sia alle medie che alle elementari e la differenza è molto evidente. “Quando un ragazzo di 12 o 13 anni arriva in classe – spiega Alessandro - magari a metà anno per ricongiungimenti familiari, senza parlare l’italiano ha molte più difficoltà sia nell’apprendimento che nell’integrazione. E poi se vengono bocciati si scoraggiano o è più facile che a quell’età non siano stimolati ad imparare, non si impegnino a fondo. Non sono rari i casi di abbandono della scuola”.

Gli altri servizi

Flora aggiunge: “Alle medie ci si mescolano i problemi adolescenziali, gli altri compagni hanno più difficoltà ad accettare stranieri nel gruppo. Certo c’è da dire che anche alle elementari la situazione non sempre è felice. Spesso gli studenti italiani e gli alunni stranieri giocano separati”.

Nei laboratori linguistici condotti dai facilitatori si tengono corsi di lingua italiana, secondo i parametri europei di livello A1 e A2 “ ma ogni facilitatore ha il suo metodo – spiega Flora– se mi si passa il termine siamo come maestri di sostegno, integriamo e aiutiamo gli insegnanti a volte anche in classe”. Per lei è un errore che i corsi di alfabetizzazione si facciano all’interno dell’orario scolastico, “è una scelta ministeriale ma sarebbe giusto lasciare i bambini in classe con gli altri mentre fanno lezione”. Di altro avviso Alessandro che dice che i laboratori di italiano sono seguiti volentieri dagli alunni stranieri, che si sentono più seguiti: “lo sanno che è il modo più utile di essere aiutati”. E precisa: “Fino a 12 anni in un anno e mezzo circa gli studenti riescono tutti a comunicare, poi l’inserimento dipende da tanti fattori. Prima di tutto dal grado di scolarizzazione. Per la maggior parte degli studenti è l’unico momento in cui prendono un ruolo attivo, nel resto del tempo non fanno nulla in classe. Bisogna incoraggiare l’impegno personale”.

“Ogni studente comunque è un caso a sé - spiega la direttrice dell’istituto comprensivo Marco Polo, Rosetta Margiotta – molto, ma molto diverso è il caso di bambini nati in Italia che magari hanno frequentato la scuola materna, rispetto ai bambini che arrivano per ricongiungimenti familiari a metà anno”. La sua scuola è la più vicina al quartiere abitato dalla comunità cinese, nella scuola elementare Filzi c’è la più alta percentuale di bambini stranieri, il 75%. “Sono molti ormai i bambini di seconda generazione, poi fa molta differenza la famiglia che hanno alle spalle. Il grosso problema che abbiamo è il coinvolgimento delle famiglie. Per questo si è pensato a laboratori con i genitori che dovranno partire a breve”.

Il direttore della Lippi, Ivo Regoli, spiega che in ogni scuola c’è una commissione di accoglienza per valutare le competenze linguistiche di ogni alunni e che secondo le indicazioni del ministero non si possono fare classi monoculturali, anche se si ricorda casi di formazioni di classi di solo alunni cinesi, ma che sono state sciolte al primo mese di lezione. Regoli segnala anche l’ iniziativa delle scuole del centro di Prato che “si sono messe in rete, cioè coordiniamo insieme i laboratori, quelli di formazione per gli insegnanti come quelli di ricerca e confronto, progettati per raccogliere l’esperienza di tutti questi anni”.

Gianna Celli
, direttrice della scuola Puddu, parla del confronto tra culture diverse all’interno delle sue classi, “che è sempre una cosa molto positiva”. Poi racconta: “Ricordo il tema di un bambino cinese che ha vinto un concorso letterario organizzato dalla scuola. C’era la descrizione della sua famiglia e sul finale diceva “ il nonno piange tutte le sere perché vuole tornare in Cina. Ma io voglio restare in Italia”. Mi è rimasto in testa, mi aveva commosso”.

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