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L'imprenditoria egiziana nel capoluogo lombardo

I nuovi milanesi? Arrivano dall'Egitto

Originari delle più povere campagne egiziane, attraversano il mare inseguendo un sogno conosciuto attraverso racconti di parenti e amici. Arrivano infine a Milano, dove si rimboccano le maniche e sempre più spesso riescono a fare fortuna.

Sono i piccoli imprenditori egiziani che animano il tessuto economico del capoluogo lombardo. I costruttori sono la maggioranza per numero, i commercianti e trasportatori i meno visibili, i pizzaioli i più amati e conosciuti.

Per loro parlano i numeri: con 8.657 piccole imprese (individuali e società di persone o capitali) registrate alla Camera di commercio di Milano alla fine del 2007, doppiano persino i cinesi, titolari di “solo” 4.658 attività, e, dal 2002, sono saldamente in cima alla classifica dell’imprenditoria extracomunitaria meneghina.

Un fenomeno non casuale, che affonda le sue radici nelle prime migrazioni dalle sponde del Nilo ai Navigli. Erano gli anni Settanta, dall’Egitto fuggivano sia giovani medio-borghesi, spesso laureati, che non volevano impugnare le armi (nel 1973 si combatteva la guerra del Kippur contro Israele) sia ragazzi che, ansiosi di fare fortuna, approfittavano delle aperture politiche della presidenza di Sadat per conoscere il mondo.

“Sfruttarono il vantaggio di muoversi in un contesto dove non c’erano altri immigrati, ancora privo di pregiudizi”, spiega Emanuela Abbatecola, sociologa dell’università di Genova, che ha studiato il caso dell’imprenditorialità egiziana a Milano. “Hanno trovato lavoro laddove c’era bisogno di manodopera che fosse disposta a fare turni faticosi o lavori che gli italiani non volevano più fare. Così hanno imparato il mestiere e sono arrivati a mettersi in proprio, spinti anche dalla provenienza sociale medio-alta: chi emigra non perché povero e disperato, bensì per migliorare la propria posizione, non accetta a lungo lavori dipendenti e mal pagati”.

Diverso l'approccio dell’egiziano emigrato dagli anni Novanta in poi: una volta arrivato, si rivolge a parenti e amici, che lo assumono o lo segnalano ad altri parenti e amici. Inizia facendo quello che può, considerato che non conosce né la lingua né il tipo di lavoro che è chiamato a fare. Progressivamente accumula soldi e competenze utili a proseguire in quella direzione, ma poco spendibili in altri campi.

“A questo punto – continua Emanuela Abbatecola – torna in gioco la rete di contatti: a loro il nuovo immigrato che vuole mettersi in proprio si rivolge per conoscere l’iter burocratico o per conoscere grossisti e fornitori disposti a fare credito e così via”. Pian piano anche il nuovo arrivato apre la sua attività nello stesso settore in cui ha cominciato; spesso poi chiama altri connazionali o parenti: “In questo modo non solo li aiuta e dà lustro alla sua immagine in patria, ma ha la possibilità di avere manodopera disposta a lavorare tanto in cambio di una retribuzione modesta. E’ così che si crea la tradizione imprenditoriale in certi settori”, conclude la Abbatecola.

Da sempre a Milano gli egiziani rivolgono le loro attività agli italiani, di cui imparano a conoscere i gusti e le esigenze: basti pensare ai ristoranti, dove si offre cucina italiana e al massimo qualche piatto etnico sulla carta, soprattutto dolci. Non mancano esempi di imprenditorialità etnica o settoriale, dai phone center alle macellerie islamiche: anche in questi casi, però, niente esclusive. L’egiziano non è il cliente unico: ci si rivolge rispettivamente al macrocosmo extracomunitario e alla sconfinata nazione islamica.

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