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Gli egiziani e la città

Lo strano caso della comunità invisibile

Chiedete a un milanese da dove vengano la maggioranza degli immigrati della sua città: vi sentirete rispondere Cina, Marocco o al massimo Albania. Eppure non è così: da qualche anno in testa a questa classifica ci sono gli egiziani.

Dati Istat aggiornati all’inizio del 2007 mostrano che, sui 279.800 stranieri regolari che risiedono tra Milano e provincia, 31.380 provengono dalle sponde del Nilo, vale a dire l’11 per cento. Percentuale ancor più significativa se paragonata al dato nazionale, dove gli egiziani si piazzano solo al tredicesimo posto, ben lontani dai primi posti di marocchini e albanesi.

A Milano non è facile riconoscerli e non li si trova a un indirizzo preciso. Niente a che vedere con la brulicante “Chinatown” di via Paolo Sarpi: dalla Bovisa a Gratosoglio, da San Siro a Lorenteggio e poi giù fino alla fine di viale Padova, gli egiziani abitano un po’ dappertutto. E, nonostante condividano nazionalità e mestieri, al di là dei vincoli di parentela sembrano quasi non conoscersi tra loro.

Una non-comunità reticolare”, li definisce Emanuela Abbatecola, docente di sociologia del lavoro all’università di Genova. “Non si può parlare di una vera e propria comunità – spiega – perchè l’essere egiziano non dà luogo a un agire comune. Esiste però un reticolo fitto di contatti ai quali si accede tramite l’appartenenza nazionale, spesso filtrata dalla religione, per cui il fatto stesso di essere egiziano permette di conoscere persone che possono diventare appigli utili, magari per aprire un’attività o per vivere meglio sul territorio”.

“Per natura siamo individualisti e poco aperti al confronto”, è la spiegazione che
dà invece Rafaat Shafik, ingegnere egiziano trapiantato nel milanese da decine di anni, oggi titolare di un’impresa commerciale, alle spalle una laurea al Politecnico e un master alla Bocconi. “L’egiziano ha paura e tende a nascondersi per sfuggire
ai complotti che vede dappertutto”.

Per creare un legame tra una comunità tutt’altro che coesa e la città, nel 2003 a Milano è nata l’Associazione italo-egiziana. Fondata da un gruppo di immigrati di successo come Shafik, che ne è vicepresidente, è apolitica e non religiosa: il presidente, Mohammed Nassar, è musulmano, mentre Shafik è cristiano copto. Collaborano con loro italiani che conoscono bene la realtà araba nel milanese, come Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba all’università Cattolica di Milano.

L’associazione cerca di mostrare ai nuovi arrivati la strada per integrarsi rispettando le regole del paese in cui si trovano; volontari italiani e non spiegano loro cosa significa abitare in un territorio dove esiste la libertà e come manifestare il proprio pensiero in un sistema sociale differente da quello d'origine. Il gruppo organizza conferenze e corsi di lingua e calligrafia aperti ad arabi e italiani; a disposizione di chi ne ha bisogno ci sono due avvocati che forniscono assistenza legale gratuita, mentre per il 2008 è previsto un ciclo di incontri su problemi e dinamiche della vita quotidiana. “Abbiamo chiamato l’associazione “italo-egiziana” per attirare i nostri connazionali, tradizionalmente più chiusi, ma in realtà ci rivolgiamo alla comunità araba in senso lato”, spiega ancora Shafik.

“Il primo obiettivo è aiutare i nuovi arrivati”, racconta Mohammed Nassar, il presidente dell’associazione, che vive fuori dall’Egitto da 35 anni e da 20 ha aperto a Milano il ristorante pizzeria ‘Nassar’ in via Cadore. Nato ad Alessandria d'Egitto, laureato in economia e commercio internazionale all’università del Cairo, ha girato Europa e America per motivi di studio. “Quello che vedo è che l’immigrazione di oggi è molto diversa dalla nostra, per certi versi più difficile. L’integrazione di chi è arrivato a partire dalla fine degli anni Novanta va avanti molto lentamente”.

Secondo i due fondatori, entrambi imprenditori di successo, ci vorrà ancora molto tempo prima di poter dire riuscita l’integrazione degli egiziani a Milano. “E’ vero, siamo arrivati a un punto accettabile a livello piccolo-imprenditoriale, ma non dimentichiamo che nelle imprese egiziane lavorano quasi sempre connazionali o al massimo manodopera straniera a costo ancora più basso”, dice Shafik. Nassar insiste sulle nuove generazioni: “Quest’anno nelle università di Milano sono iscritti circa 150 egiziani, ma già l’anno prossimo saranno più di duecento. Grazie a questi giovani qualcosa si muoverà”.

Nassar e Shafik, che ormai si sentono italiani, avvertono un senso di dovere nei confronti dei connazionali che, una volta arrivati in Italia, tendono a costruirsi intorno un muro invalicabile. “Diversamente da quello che abbiamo fatto noi, loro arrivano direttamente dai loro paesini sul delta del Nilo alla grande città, dove ritrovano parenti e amici”, spiega Shafik. “E’ come se si portassero il villaggio a Milano: nonostante lavorino a contatto con gli italiani e a loro si rivolgano con le loro imprese avviate, continuano a vivere come niente fosse la propria quotidianità egiziana”.

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