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Lo strano caso della comunità invisibile Chiedete
a un milanese da dove vengano la maggioranza degli immigrati della sua
città: vi sentirete rispondere Cina, Marocco o al massimo Albania.
Eppure non è così: da qualche anno in testa a questa classifica
ci sono gli egiziani.
“Una non-comunità reticolare”, li definisce Emanuela Abbatecola, docente di sociologia del lavoro all’università di Genova. “Non si può parlare di una vera e propria comunità – spiega – perchè l’essere egiziano non dà luogo a un agire comune. Esiste però un reticolo fitto di contatti ai quali si accede tramite l’appartenenza nazionale, spesso filtrata dalla religione, per cui il fatto stesso di essere egiziano permette di conoscere persone che possono diventare appigli utili, magari per aprire un’attività o per vivere meglio sul territorio”. “Per
natura siamo individualisti e poco aperti al confronto”, è
la spiegazione che
L’associazione cerca di mostrare ai nuovi arrivati la strada per integrarsi rispettando le regole del paese in cui si trovano; volontari italiani e non spiegano loro cosa significa abitare in un territorio dove esiste la libertà e come manifestare il proprio pensiero in un sistema sociale differente da quello d'origine. Il gruppo organizza conferenze e corsi di lingua e calligrafia aperti ad arabi e italiani; a disposizione di chi ne ha bisogno ci sono due avvocati che forniscono assistenza legale gratuita, mentre per il 2008 è previsto un ciclo di incontri su problemi e dinamiche della vita quotidiana. “Abbiamo chiamato l’associazione “italo-egiziana” per attirare i nostri connazionali, tradizionalmente più chiusi, ma in realtà ci rivolgiamo alla comunità araba in senso lato”, spiega ancora Shafik.
Secondo i due fondatori, entrambi imprenditori di successo, ci vorrà ancora molto tempo prima di poter dire riuscita l’integrazione degli egiziani a Milano. “E’ vero, siamo arrivati a un punto accettabile a livello piccolo-imprenditoriale, ma non dimentichiamo che nelle imprese egiziane lavorano quasi sempre connazionali o al massimo manodopera straniera a costo ancora più basso”, dice Shafik. Nassar insiste sulle nuove generazioni: “Quest’anno nelle università di Milano sono iscritti circa 150 egiziani, ma già l’anno prossimo saranno più di duecento. Grazie a questi giovani qualcosa si muoverà”. Nassar
e Shafik, che ormai si sentono italiani, avvertono un senso di dovere
nei confronti dei connazionali che, una volta arrivati in Italia, tendono
a costruirsi intorno un muro invalicabile. “Diversamente da quello
che abbiamo fatto noi, loro arrivano direttamente dai loro paesini sul
delta del Nilo alla grande città, dove ritrovano parenti e amici”,
spiega Shafik. “E’ come se si portassero il villaggio
a Milano: nonostante lavorino a contatto con gli italiani e
a loro si rivolgano con le loro imprese avviate, continuano a vivere
come niente fosse la propria quotidianità egiziana”. |
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